Emmanuel Lèvinas – Il volto dell’Altro come alterità etica e traccia dell’infinito.


La filosofia di Lèvinas origina da un pensiero personale nato dallo stupore del silenzio di Dio verso le tragedie, pensiero nel quale confluiscono diverse tradizioni e culture – l’ebraismo lituano, intellettualista e non mistico; la letteratura russa; la filosofia francese, in particolare quella di Bergson; la fenomenologia di Husserl e Heidegger – che si integrano tra loro in una unità elaborata grazie alla sua riflessione e alla sua personale esperienza di vita, molto segnata dalla Seconda Guerra Mondiale e dai campi di concentramento.

“Configurandosi come fagocitazione dell’altro, l’ontologia fino ad Heidegger si delinea, secondo Lèvinas, come una filosofia della potenza che porta al dominio ed alla sopraffazione del prossimo. Alla violenza teorica dell’approccio ontologico, corrisponde, sul piano pratico, l’annientamento della dignità e della libertà dell’uomo e l’intolleranza verso il diverso, tanto che lo stesso Heidegger nel 1933 aderirà al nazismo; scelta quest’ultima che determinerà il radicale distacco di Lèvinas dal filosofo tedesco.

Dolcezza, accoglienza, ospitalità, dimora, passività della ragione in quanto accoglimento dell’idea d’infinito, vulverabilità, verginità ossia l’inviolabilità dell’infinito che resta, e deve restare, desiderato e mai posseduto, alterità, questi tratti femminili per eccellenza, secondo la tradizione, sono aspetti caratterizzanti del pensiero di Lèvinas, il quale nel suo percorso filosofico cerca di ridefinire l’identità del soggetto mettendo in questione il Logos greco, razionalità arida ed avvilente. Il primato dell’ontologia è il paradigma dell’Occidente: Da Parmenide ad Heidegger non c’è mai stata la possibilità della singolarità. In Totalità e infinito Lèvinas scrive:

“Filosofia del potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia. L’ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con l’essere in generale […] resta all’interno dell’obbedienza dell’anonimato e porta, fatalmente, ad un’altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia. […] L’essere prima dell’ente. L’ontologia prima della metafisica – cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’altro”.

Secondo Lèvinas, infatti, il pensiero occidentale è egologia, primato e prevaricazione del medesimo nei confronti dell’altro, cioè annullamento di ogni differenza nell’universalità dell’essere.

Fin dal saggio del 1935 L’evasione, Lèvinas si domanda se per dire l’umano sia possibile intraprendere un’altra strada rispetto a quella dell’essere: “Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via”.” (Tratto da: Mirko di Bernardo, Emmanuel Lèvinas: La metamorfosi del femminile come via che conduce all'”altrimenti che essere”?)



Per Lèvinas, come per quasi tutti i filosofi contemporanei, l’etica non è fatta solo di regole o direttive, ma anche di attenzione alle realtà umane, specialmente alle azioni e alla responsabilità di ogni essere libero.


Egli fonda tutta la sua teoria dell’etica della società su “il faccia a faccia con l’altro”. E’ lì che è racchiuso il segreto supremo della vita: nel volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi.



Così egli scrive: “Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”.
In “Dio, la morte e il tempo” scrive: “La morte apre al volto d’Altri, il quale è espressione del comandamento “Non uccidere”. Tentare di partire dall’omicidio come da ciò che suggerisce il senso esauriente della morte. Pensare la morte a partire dal tempo – e non come in Heidegger, il tempo a partire dalla morte – è uno degli inviti tratti dal primo sguardo all’utopismo di Bloch; pensarla d’altra parte a partire dall’interrogazione sul senso dato all’emozione che accoglie la morte. Porre in risalto la questione che la morte solleva nella prossimità del prossimo, questione che, paradossalmente, è la mia responsabilità per la sua morte”.

All’origine dell’etica lèvisiana sta l’appello dell’alterità/esteriorità d’altri che significa nel “volto”, in quanto esso mi comanda di aiutarlo nella sua indigenza, nudità, esposizione, fragilità e altezza al tempo stesso. Il volto si esprime come nudità del povero, dell’orfano e della vedova, figure bibliche emblematiche dell’alterità, “che per la loro stessa miseria e indigenza sono per me comando di non lasciarli morire”. “La nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare. Ma significa donare al maestro, al signore, a chi si avvicina in una dimensione di maestosità”. L’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto nudo, pone l’io all’accusativo, convocandolo, inquietandolo, mettendolo in questione, è appello etico, “anzi, comando etico incondizionato che trasfigura la miseria altrui nella assoluta “Altezza” del Signore e del Maestro, e rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile, che deve rispondere della miseria altrui”.

“Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. Infatti la resistenza alla presa non si produce come una resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è inutile lo sforzo della mano, come lontananza di una stella nell’immensità dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento o conoscenza”.


Quella del volto è una delle tesi fondamentali del suo saggio “Totalità e Infinito”. Nella Prefazione Lèvinas scrive: “Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitalità. In essa si consuma l’idea dell’infinito”, il luogo in cui si manifesta la totale alterità di Dio, che si fa strada nell’incontro con l’Altro.



Oltre a una relazione diretta con l’altro nel faccia a faccia della prossimità, esiste una relazione più indiretta e mediata, che non passa necessariamente attraverso la vicinanza dell’incontro. È quello che Lévinas chiama “il terzo” e che in “Altrimenti che essere” definisce come “un altro rispetto al prossimo, ma anche un altro prossimo”. È qui che si pone l’esigenza di giustizia come istanza di colmare, nell’uguaglianza, la distanza che separa il prossimo dal lontano. Questa responsabilità si allarga nella giustizia e nello Stato, a un livello universale.

La Diaconia da: E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore.



“La visitazione del volto non è il disvelamento di un mondo. Nella concretezza del mondo, il volto è astratto o nudo. E’ denudato della propria immagine. E’ solo grazie alla nudità del volto che la nudità in sé diventa possibile nel mondo.



La nudità del volto è una spoliazione priva di ogni ornamento culturale, un’assoluzione, un distacco in seno stesso alla propria produzione. Il volto entra nel nostro mondo a partire da una sfera assolutamente estranea, e cioè proprio a partire da un assoluto che, del resto, è il nome stesso dell’estraneità innata. Nella sua astrazione, il significato del volto è, in senso laterale, stra-ordinario. Com’è possibile una simile produzione? Com’è possibile che, nella visitazione del volto, la venuta d’Altri a partire dall’assoluto non si trasformi, in nessun modo, in rivelazione, non fosse che come simbolismo o suggestione? Perché il volto non è semplicemente una rappresentazione vera in cui l’Altro rinuncia alla propria alterità? Per poter rispondere a tali domande dovremo studiare la significazione eccezionale della traccia (in E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza” con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore) e l’ordine personale in cui tale significazione è possibile.



Insistiamo per ora sul senso implicito nell’astrazione o nella nudità del volto che ci apre tale ordine e sullo sconvolgimento della coscienza che risponde a tale astrazione. Spogliato della sua stessa forma, il volto è irrigidito nella sua stessa nudità. E’ una miseria. La nudità del volto è indigenza e già supplica nella rettitudine che mi concerne. Ma tale supplica è un esigere. In essa l’umiltà si unisce all’alterigia. E con ciò si annuncia la dimensione etica della visitazione. Mentre la rappresentazione vera resta possibilità di apparenza, mentre il mondo che ostacola il pensiero non può nulla contro il libero pensiero che nella propria intimità è capace di non aderire al mondo, di rifugiarsi in sé, di rimanere appunto libero pensiero dinnanzi al vero e di esistere “per primo” come origine di ciò che riceve, di dominare con la memoria ciò che lo precede, mentre il libero pensiero resta “lo Stesso”, il volto mi si impone senza che io possa rimanere sordo al suo appello o obliarlo, e cioè senza che io possa smettere di essere ritenuto responsabile della sua miseria. La coscienza perde il suo primato.



La presenza del volto significa anche un ordine irrecusabile – un comandamento – che fa venir meno la disponibilità della coscienza. Il volto mette in questione la coscienza. La messa in questione non è nuovamente presa di coscienza di tale messa in questione. L’assolutamente altro non si riflette nella coscienza. Vi resiste a tal punto che la sua resistenza non si trasforma in contenuto di coscienza. La visitazione consiste nello sconvolgere l’egoismo stesso dell’Io, il volto disorienta l’intenzionalità che mira ad esso.



Si tratta della messa in questione della coscienza e non di una coscienza della messa in questione. L’Io perde la sua sovrana coincidenza con sé, la propria identificazione in cui la coscienza ritorna trionfalmente a se stesa per riposare in sé. Dinnanzi all’esigenza d’Altri, l’Io espelle se stesso da tale riposo e non si identifica con la coscienza, già orgogliosa, di tale esilio. Qualsiasi compiacimento distruggerebbe la rettitudine del movimento etico.



Ma la messa in questione di questa selvaggia e ingenua libertà, sicura del proprio rifugio in sé, non è soltanto questo movimento negativo. La messa in questione di sé è proprio l’accoglimento dell’assolutamente altro. L’epifania dell’assolutamente altro è il volto in cui l’Altro mi interpella e mi impartisce un ordine attraverso la sua stessa nudità, la sua stessa indigenza. La sua presenza è un’ingiunzione a rispondere. L’Io non prende solo coscienza della necessità di tale risposta, come se si trattasse di un obbligo o di un dovere rispetto a cui ci sarebbe possibilità di scelta. Nella sua stessa posizione, egli è integralmente responsabilità e diaconia, come nel capitolo 53 di Isaia.



Essere Io significa allora non potersi sottrarre alla responsabilità. Questo più d’essere, questa esagerazione che chiamiamo essere io, questa sporgenza dell’ipseità nell’essere, si compie come una turgescenza della responsabilità. La messa in questione di me stesso da parte dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile e unico. Solidale, non nel senso in cui la materia è solidale con il blocco di cui fa parte, o come lo è un organo con l’organismo in cui ha la propria funzione; solidarietà, qui, significa responsabilità come se tutta la struttura della creazione poggiasse sulle mie spalle. L’unicità dell’Io consiste nel fatto che nessuno può rispondere al mio posto. La responsabilità che svuota l’io del suo imperialismo e del suo egoismo, persino del sano egoismo, non lo trasforma in un momento dell’ordine universale. Lo conferma nella sua ipseità, nella sua funzione di supporto dell’universo.



Svelando all’Io un simile orientamento lo si identifica con la moralità. L’Io dinnanzi ad Altri è infinitamente responsabile. L’Altro che suscita questo movimento etico nella coscienza, e che sconvolge la buona coscienza della coincidenza dello Stesso con sé, implica un sovrappiù inadeguato all’intenzionalità. E’ questo il Desiderio: bruciare di un fuoco diverso da quello del bisogno che l’appagamento estingue, pensare al di là di ciò che si pensa. A causa di questo sovrappiù inassimilabile, a causa di questo al di là, abbiamo chiamato la relazione che ricongiunge l’Io all’Altro “Idea di Infinito”.



L’idea di Infinito è Desiderio. Essa consiste, paradossalmente, nel pensare più di ciò che è pensato, mantenendo comunque questo più nella sua dismisura rispetto al pensiero, consiste nell’entrare in relazione con l’inafferrabile, garantendo tuttavia a quest’ultimo il suo statuto di inafferrabile. L’infinito non è dunque il correlato dell’idea di infinito, come se l’idea fosse un’intenzionalità che ha termine nel proprio oggetto. La meraviglia dell’infinito nel finito è uno sconvolgimento dell’intenzionalità, uno sconvolgimento di questo appetito di luce: contrariamente alla saturazione in cui l’intenzionalità viene appagata, l’infinito disorienta la sua idea. L’Io in relazione con l’Infinito non può arrestare la propria marcia in avanti, non può abbandonare il proprio posto, come afferma Platone nel Fedone; non ha letteralmente il tempo di volgersi indietro. E’ questo l’atteggiamento irriducibile alla categoria. Non potersi sottrarre alla responsabilità, non disporre di un’interiorità come nascondiglio in cui rientrare in sé, andare avanti senza preoccuparsi di sé. Diventare sempre più esigenti rispetto a se stessi: quanto più faccio fronte alle mie responsabilità tanto più sono responsabile. Potere costituito dall’impotenza, è questa la messa in questione della coscienza che la fa entrare in un tessuto di relazioni che rompono con il disvelamento.”.

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“… Il libro che più mi ispira è il volto umano, fino al punto che non riesco a parlare, e nemmeno a formulare un pensiero, se non mi sta davanti qualcuno: almeno uno, un essere vivente; allora sono sicuro che il discorso si snoda in tutta abbondanza, come un torrente, a volte in troppa piena. Mi succede così quando predico, ad esempio: pur dopo anni e anni di praticaccia. E’ così: non mi viene la parola se non mi rappresento qualcuno in ascolto o che mi parli. Anzi, è questa la ragione per cui quasi tutto il mio scrivere si svolge in forma di colloquio: è sul filo dell’io e del tu che si snoda il discorso. A osservare bene, tutta la mia poesia è un colloquio.

No, non c’è praticaccia che tenga: se non guardo in faccia la gente, non riesco a parlare.

Sì, il mio primo libro è la faccia dell’uomo. Sono uno dal colloquio a vivo, più che di lettura, anche se il desiderio di leggere mi perseguita con graffiante nostalgia: uno dei tanti desideri che mi lampeggiano dentro, da sempre.” (David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici)



“La mia conoscenza personale di Don Dilani risale addirittura al 1954. Una disadorna stanza di Cadenzano, alle porte di Firenze,gli serviva come studio e scuola e “salotto” per ricevere la gente: un locale tanto spoglio e nudo quanto era nuda e spoglia la sua parola e il suo volto. Già dall’ora ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti piantava gli occhi in faccia come due perforatrici. E così già da allora ho cominciato a misurarmi con lui.” David Maria Turoldo

“La mia faccia annuncia la mia presenza, riferisce sulla mia natura e soprattutto, rivolta com’è verso l’esterno, reca un messaggio agli altri. Gli angeli suonano la tromba. Ridestano dal sonno. Altrettanto fa la faccia: pretende una risposta”. (James Hillman)

“La faccia umana in realtà assomiglia a una di quelle divinità orientali: un’intera serie di facce giustapposte su piani diversi; è impossibile vederle tutte contemporaneamente” ebbe a dire Proust.



Una faccia va osservata nel tempo, sotto luci variate, durante molte scene diverse. Nessuno ha “una” faccia. La faccia invecchiata mostra la sovrapposizione di “un’intera serie di facce”. Le sette età che passano e ripassano, una trama da leggersi tra le righe. Perfino la faccia del neonato lascia intravedere tutta la gamma; fuggevoli espressioni di disposizioni irrealizzate, ma possibili”.
In: “La forza del carattere”, James Hillman

7 pensieri riguardo “Emmanuel Lèvinas – Il volto dell’Altro come alterità etica e traccia dell’infinito.

  1. “Si tratta di far interagire le diverse prospettive”.. dici bene Gabriele!. avendo poco tempo in queste sere mi sono concentrata sulla scrittura del post, così ho lasciato indietro la lettura dei vostri post. prima recupero e poi torno. ciao

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  2. cara monicagrazie per questa presentazione di levinas.è un autore che non conosco, se non di nome.l’antologia ha già fin d’ora il suo valore: inscrivere nelle soggettività degli altri i propri percorsi, i propri pensieri, le proprie parole/chiavesarà sempre di più un allargamento della visione, un accrescimento della mia culturaapprofondirò, cercherò di capire meglio. ma non solo con la testa. col cuore e con compagni di viaggio vicini che indicano i percorsi

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  3. Riprendo il contenuto di una pagina di “ASIA – Vacances de l’esprit”: Le Vacanze della Filosofia – Viaggi con i filosofiMASSIMO CACCIARISul concetto di relazione: ritrovare la prossimità nella distanza30 maggio – 2 giugno 2009, Castelletto di Brenzone (VR)La formazione di una identità può compiersi senza un sentimento di appartenenza all’altro, al diverso? La distanza può essere requisito essenziale di una autentica vicinanza reciproca? Le coppie di contrari, invece che essere motivo di opposizione, possono costituire il presupposto di una nuova etica critica volta non alla difesa di un soggetto ma alla responsabilità verso l’altro?Le coppie di opposti «identità-alterità», «amico-nemico», «prossimo-straniero» diventeranno il filo rosso attraverso cui Massimo Cacciari rivisiterà alcuni dei più grandi filosofi che su tali concetti si sono soffermati a partire dalla Grecia antica con Eraclito sino all’epoca contemporanea (Derrida, Levinas, Severino..). Ma attraverso questo excursus filosofico, Massimo Cacciari ci inizierà ad una riflessione originale sia sul tema della differenza, sia sul concetto di communitas, questioni assolutamente attuali nella misura in cui spesso il nostro io si sente disturbato, espropriato, interpellato o messo in discussione dalla presenza dell’altro.

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  4. cara monica e caro gabrielel’altro giorno, a milano/bicocca, sono entrato nella libreria e mi sono fatto portare i libri di levinas che erano disponibili..ho acquistato TOTALITA’ E INFINITO, JACA BOOKETICA E INFINITO (conversazioni con philippe nemo), città apertala potenza della nostra antologia è già ora questa: una apertura della mente su sentieri che non avrei percorsoil caso ha voluto che nello stesso momento ho acquistato anche: BERNARD LEWIS, LE ORIGINI DELLA RABBBIA MUSULMANA, millecinquecento anni di confronto tra islam e occidente, MONDADORI 2009.e così rimango nella mia contraddizione insuperabile: comprendere la questione che levinas propone (e che cacciari, in altra prospettiva sottolinea) e nello stesso tempo osservare l’islamico estremista o cosiddetto moderato che vuole la mia morte fisica o culturale.da questa contraddizione, in vita, non ne escobuone giornate

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