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Dal Gazzettino Agosto 1988

Cortina. Trovato il corpo di un alpino

Dai ghiacci del Cristallo riaffiora un eroe della Guerra

Il cadavere di un alpino morto nella prima guerra mondiale è stato trovato da un giovane escursionista nel gruppo del Cristallo. La scoperta è stata fatta da Alberto Buzio, 24 anni, di Cortina d’Ampezzo, in una delle zone in cui si combattè la lunga guerra di trincea tra il 1915 e il 1917. I resti del militare – che non è stato possibile riconoscere, non essendo stata trovata la piastrina personale – sono affiorati, probabilmente per il gran caldo delle settimane scorse, dal terreno impregnato di ghiaccio. Sulla divisa si distinguevano ancora in buono stato di conservazione le fiamme verdi e le stellette. Accanto al corpo c’erano alcune bombe a mano e cartucce. I resti dell’alpino sono stati trasportati dai carabinieri rocciatori della compagnia di Cortina al sacrario di Pocol, dove riposano 6500 soldati caduti sul fronte dolomitico. Il corpo si trova ora a disposizione dell’autorità giudiziaria. E’ questa la seconda volta, nel giro di pochi anni, che dai ghiacciai del gruppo del Cristallo emergono i resti di un caduto nella Grande Guerra.


Dal Gazzettino Agosto 1988

Trovate a Cortina le spoglie di un soldato del ‘15-’18

Dopo il ritrovamento di qualche giorno fa da parte dello studente Alberto Brizio nel gruppo del Cristallo, altri resti umani sono riaffiorati in alta montagna, a nord di Cortina, sul monte dell’Ancona a 2060 metri di quota. La squadra del soccorso alpino della compagnia dei carabinieri di cortina, con l’ausilio dei suoi rocciatori, è intervenuta in località "Zoghe" nei pressi di forcella Lerosa, nel gruppo della Croda Rossa, per recuperare lo scheletro del soldato della Grande Guerra. L’operazione è stata eseguita in seguito alla segnalazione del ritrovamento pervenuta dal ricercatore Loris Lacedelli. Questa volta è stata rinvenuta parte della piastrina di riconoscimento in cui si legge: "Jury Gi…srl… matricola 817 J….". Nel teschio è praticamente visibile il foro di entrata e di uscita della pallottola. Intorno alle ossa, 50 cartucce e moschetto ’91. Lacedelli aveva scorto una scarpa riaffiorare dal terreno, smosso probabilmente dai recenti temporali. All’interno della scarpa c’erano ossa umane. Sul posto sono intervenuti gli uomini dell’Arma che hanno rinvenuto i resti del corpo a 50 centimetri di profondità. In seguito è intervenuto anche un elicottero del 4° corpo d’armata e alcuni artificieri dell’artiglieria di Mestre che hanno fatto brillare qualche centinaio di cartucce, 12 bombe a mano e un proiettile calibro 75 dell’esercito. I resti dello scheletro sono stati traslati al sacrario di Pocol, sopra Cortina, dove riposano migliaia di caduti.


Dal Gazzettino Ottobre 1988

Facevano parte della Edelweiss

Trovati 2 scheletri di soldati austriaci

Scoperti dopo 70 anni da boscaioli di Asiago

Da sett'ant'anni erano lì, all'imbocco di un cunicolo ricoperto di vegetazione, in mezzo a un bosco di faggi e abeti. Nessuno li aveva mai notati. Due scheletri, e accanto gli elmetti, le scarpe, le borracce e le maschere antigas. Settant'anni fa in quella zona imperversavano le battaglie della Grande Guerra e quelle carcasse sono di due soldati austriaci. Facevano parte della "Edelweiss" impegnata nel Giugno 1918 nella cosidetta "battaglia dei tre monti", combattuta furiosamente sul monte Valbella, che ora è una nota località sciistica, Col d'Echele e Col del Rosso. Ed è sulle pendici di quest'ultimo monte che tre boscaioli hanno scoperto i resti dei due soldati. La sicurezza che si trattava di appartenenti all'esercito austriaco si è avuta grazie all'elmetto e alle borracce, in quanto non sono state rinvenute le piastrine di riconoscimento. Causa della morte quasi certamente una granata lanciata dagli italiani: a poca distanza dal cunicolo infatti c'è un piccolo cratere. I boscaioli autori del ritrovamento sono i fratelli Ettore ed Elso Pesavento di Asiago e Giovanbattista Rossi della frazione Sasso. Erano al lavoro nei boschi che chiudono a sud la piana di Asiago quando si sono accorti degli scheletri. E' stata avvertita la direzione del sacrario militare di Asiago che ha inviato alcuni suoi uomini a recuperare i resti e gli oggetti. L'elmetto, le scarpe, le borracce e le maschere antigas sono già state esaminate da alcuni esperti: verranno destinati ad un museo, probabilmente al "museo della guerra" di Canove di Roana. Ora i due austriaci sono accanto ai loro ventimila connazionali e ai sessantamila soldati italiani - la maggior parte dei quali non ha un nome - che riposano nell'ossario asiaghese, il grande monumento all'olocausto della prima guerra mondiale che domina il paese dall'alto della collina del Leiten. Scampoli di storia che riemergono, dunque, memorie di un tempo che quest'anno viene rievocato in tutta Italia ma del quale molti leggono sui libri come fatti lontani, lontanissimi. In questo campo l'altopiano di Asiago è invece un autentico museo naturale, un testimone prezioso: ad ogni passo , tra le sue montagne, si trovano trincee, camminamenti,fortini, cimeli di ogni tipo e anche molte ossa. Tanto che vicino alla chiesetta di cima Lozze, ai piedi dell'Ortigara, è stato predisposto un grande recipiente per i resti trovati dagli escursionisti. Meno frequente è tuttavia il ritrovamento di scheletri integri: un paio d'anni fa ne venne ritrovato uno, anch'esso di un soldato austriaco, nella zona del forte Corbin.


Da L'anello del Comelico di Italo de Candido (Tamari Editori in Bologna)

L'Alpino del ghiacciaio

L'estate del 1983 in Comelico è stata caratterizzata da due importanti avvenimenti legati alla sua montagna : il rinvenimento di un Alpino chiuso nella bara di ghiaccio del ghiacciaio inferiore di Popera, conservato per 67 anni quasi intatto dopo esservi caduto trascinato forse da una valanga nell'arduo svolgimento del dovere. Uno dei Mascabroni del Cap. Sala protesi alla conquista del Passo della Sentinella? (.....) La salma è stata tumulata nel cimitero di guerra di S.Stefano del Cadore il 13 Agosto alla presenza del Presidente della Repubblica. Il 22 Luglio 1984, sessantesimo anniversario della costruzione del cimitero, il Comune di S.Stefano, alla presenza di numerose autorità anche austriache (nel cimitero riposano 109 caduti austriaci), porrà una targa di bronzo a ricordo dell'Alpino ignoto. A circa un mese di distanza dal rinvenimento dell'Alpino, proprio in Vallon Popera venivano rinaugurate le strutture portanti ed il tetto del nuovo rifugio Olivo Sala al Popera (.....). E pensare che quell'Alpino del ghiacciaio ha eseguito gli ordini partiti probabilmente dal Comando italiano che aveva sede in quel manufatto, lì costruito perchè defilato al tiro e mimetizzato all'osservazione nemica. La salma per scendere a S.Stefano vi è passata davanti... come a tesimoniare: "missione compiuta!".


Da Il Corriere della Sera , 13 agosto 1952

Un articolo di Dino Buzzati

Degna sepoltura

"Per dar loro degna sepoltura si è subito sentito dire a proposito degli alpini scoperti sull'Adamello, chiusi nel ghiaccio, dopo trentacinque anni. Degna perchè? Forse che quella avuta finora è stata indegna?

Che mentalità strana. Appena si è saputa la notizia, il primo pensiero - a giudicare dalle cronache - è stato quello di salire lassù, di rompere la meravigliosa bara, di estrarne i corpi intatti e di portarli a seppellire giù in pianura, affinchè finalmente si trasformino in vermi, polvere e bruttura.

Ma perchè? Allo scopo di onorare i santi, i re, i saivatori della Patria, si è sempre cercato di conservare, con complicate manipolazioni, le loro spoglie corruttibili. Gli egiziani facevano le mummie, i comunisti hanno imbalsamato Lenin, gli argentini stanno facendo io stesso con Evita. Ma con gli alpini, questa volta, no. Anzi, il contrario. La montagna li ha miracolosamente preservati, gli ha procurato un sonno puro e silenzioso, nella massima serenità e bellezza che mente umana possa concepire. E non c'è stato bisogno delle miserande manipolazioni mortuarie che arrestano si la decomposizione ma alterando i lineamenti, cambiando l'amato volto in un altro volto sconosciuto. Un prodigio che ha pochi precedenti ha detto al tempo: fermati, e l'ha lasciato là, immobile, sospeso sul ciglio dell'abisso dove intanto precipitavano giù, uno sull'altro, trentacinque anni.

Si può dire di più: a titolo di prova facciamo a gara nell'immaginare, per degli alpini morti in guerra, il sepolcro più splendido, nobile e geniale, in uno stile che vada bene a loro, e senza limiti di spese. Quale sarebbe il risultato? Né architetto né scultore, per quanto originale e ispirato, potrebbe sicuramente inventare una tomba meglio di quella che la natura ha fabbricato. Ed è la tomba che essi stessi, gli alpini, avrebbero di certo preferito.

Ebbene, no. Invece di pensare, se mai, a rafforzare la vitrea corazza che chiudeva i cinque corpi, a preservarla dal sole, a garantirne la conservazione, noi no; noi immediatamente si è pensato a profanarla, a estrarne i cinque alpini, a toglierli da quel sublime esilio e portarli giù con noi, nella comune miseria della polvere, della terra, del bitume e della sudicizia.

Perchè dunque questo gusto di rovinare ciò che è bello, giusto e puro? Per sapere chi sono i cinque morti? Ma non facciamo ridere! Dopo trentacinque anni! Forse allora per la consolazione dei parenti? Ma se non si sanno neanche i nomi! E poi, anche ammesso che vivano ancora le madri e i padri e che costoro siano ancora capaci di piangere, non avrebbero detto loro stessi "Lasciateli lassù, che la montagna ancora li conservi ? Dovrebbero forse preferire che i loro figli, da gelide stupende statue di cristallo, si mutino in brandelli putrefatti?

Il fatto è un altro. Per quanto possa riuscire amaro a dirsi, per quanto gli uomini siano animati certo da ottime intenzioni, il fatto è che questi alpini, finchè fossero rimasti chiusi nel ghiacciaio, sarebbero stati troppo incomodi. Essi non si potevano definire ancora morti. Diciamo pure: continuavano a far parte del mondo, a risultare ancora "in forza al battaglione, continuavano a difendere la Patria. Erano vivi, e a noi quaggiù, sapendolo, dimenticarli era proibito. Ma gli uomini, e specialmente gli Italiani si direbbe, sono invece smaniosi di dimenticare e quando un eroe muore loro vanno dietro ai funerali, piangono un poco, presentano le armi ma tre giorni dopo non ne vogliono sentir parlare più. Si è impazienti di dimenticare coloro che hanno meritato bene della Patria, perchè ricordo vuoi dire debito morale e i debiti si preferisce non pagarli. Fin che rimanevano lassù, nella loro garitta di diamante, i cinque alpini continuavano a guardarci e quegli sguardi avevano forse una vaga luce di rimprovero.

Meglio toglierli di là, vero?, i bravi soldatini morti combattendo in quella strana guerra, così lontana che si stenta a crederci. Meglio portarli qui con noi, alla nostra bassa quota, seppellirli, sia pure tra bandiere e trombe, metterli a dormire sottoterra. Dopodichè ci sarà permesso di dimenticarli subito. E andremo a dormire senza rimorsi di coscienza.


Dal Gazzettino,Giovedì, 14 Dicembre 2000

di Antonio Merlo

Singolare ritrovamento a Maserada. Il Piave restituisce i resti di un soldato

Risale alla prima guerra mondiale

Dopo le recenti piene torrentizie e dopo più di ottant'anni, sulle grave tra Maserada e Candelù, il Piave, fiume sacro alla Patria, consegna una sua imperitura memoria: lo scheletro pressochè completo di un soldato austriaco combattente nella Grande Guerra è affiorato dallo strato di limo e sabbia che lo ha contenuto e conservato per tutto questo tempo. I segni inequivocabili dell'appartenenza del giovane caduto all'esercito austro ungarico, sono dimostrati dalla quantità e qualità dei reperti appallottolati sul corpo: scellini del 1912, cinturone, fibbie, medaglia d'oro al valore militare con dicitura latina del principe Carlo ("vitam et sanguinem" "princeps et patria") e medaglietta "porta fortuna" di Sant'Alfonso. Ciò che impressiona è la quasi integrità dello scheletro osseo: femori, omeri, mandibola, denti, scatola cranica, bacino. A ritrovare il corpo del giovane austriaco sono stati Roberto e Michele Gemionite, padre e figlio residenti a Maserada e grandi appassionati delle vicende storiche e umane legate al Piave. "Dopo una delle piene novembrine - affermano - ci siamo recati sul greto del fiume. Il luogo, caratterizzato da una certa profondità rispetto al piano campagna, è stato teatro di aspre battaglie nel primo conflitto mondiale. L'esperienza ci insegna che dopo una piena vengono a galla residuati di ogni tipo. Entrati nell'acqua (livello di circa 80 centimetri), abbiamo notato del materiale ruggine emergere dal fondo. Dopo aver operato pazientemente un primo scavo con un piccolissima piccozza, sono saltati fuori alcuni oggetti personali e subito sotto lo scheletro, attorcigliato a quel che restava del filo spinato". "Purtroppo - continuano padre e figlio - nel tentativo di rimuoverlo quasi integralmente, la corrente dell'acqua ha portato via alcuni frammenti importanti del cadavere. Il resto è stato recuperato con estrema difficoltà visto le condizioni proibitive". "Il rinvenimento del cadavere è stato subito segnalato ai Carabinieri, e sono state eseguite le perizie medico legali del caso che attestano la giovane età del militare caduto e il periodo della sua morte avvenuta intorno al 1918. Abbiamo voluto far partecipe della scoperta anche il Comune, donando tutte le ossa in nostro possesso affinchè abbiano degna sepoltura nel camposanto paesano. Sarebbe un nobile gesto se l'ignoto austriaco venisse tumulato accanto ai numerosi caduti italiani e maseradesi quale simbolo di riappacificazione storica fra chi, in gioventù, è stato costretto ad affrontarsi tragicamente sui campi di battaglia"


 

TESTIMONIANZE DI SCRITTORI da "La nostra guerra 1915-1918"

I buchi oscuri, lassù

di Paolo Barbaro

Per anni ho fatto il tecnico in montagna, per costruire strade, ponti, gallerie. Spesso mi è toccato di lavorare tra i camminamenti della guerra, di incrociare le vecchie gallerie coi nostri nuovi tunnel. I nostri tunnel vanno via dritti allo scopo: che è convogliare l'acqua alla giusta velocità verso la centrale, o il traffico previsto verso il paese vicino. Tracciati semplici, lineari, con poca immaginazione e quasi niente fascino.I tunnel della guerra sono un labirinto, tra visibile e invisibile. Ora si affacciano improvvisi sulla curva del torrente; ora s'avvicinano dal cuore della roccia alle grandi pareti senza toccarle: come a sentire presenze, colpire e sparire. Il fatto è che noi foriamo le montagne per andare incontro - crediamo -a un preciso bisogno. I nostri padri qui costruivano per la guerra, l'antica vicenda umana di orrore e dolore. Tanto sforzo, fatica, sofferenza. per difendersi, attaccare, uccidere. Passa la morte con noi, tra questi camminamenti oscuri. Ecco un "passo-uomo" improvviso, segreto: un vero passaggio da manuale. Ci si infila lì dentro tra i blocchi di roccia solida ma con gli orli polverosi, slabbrati, che confondono le tracce e le idee. Dopo un attimo si è già al buio, in un'angusta caverna, in un chiarore incerto: ci avviciniamo all'osservatorio, una lunga spia sulla valle. La roccia qui è sempre in ombra, il tratto di parete obliquo, a strapiombo: siamo invisibili a chi passa sotto di noi, ma quel che conta laggiù è bene in vista. Passa un pastore con le mucche: cammina tranquillo sul viottolo, è tardo Agosto, si torna a casa. Bisogna fare attenzione a muovere anche un sasso: può essere mortale.

Tra poco, in montagna, è inverno. Con la prima neve quell' infilata di buchi oscuri nelle pareti imbiancate, lassù sopra il nostro cantiere, ci ossessionano. Continuano a spiarci, e noi non possiamo raggiungerli. Come hanno fatto in quegli anni, ci diciamo: e aspettiamo con più impazienza del solito la primavera. Il momento che ci lascia più sospesi è il disgelo. Se muoviamo una pietra in terra, appaiono schegge nere, minute: granate, secondo il capocantiere Pinìn. Raccoglie le schegge. "Nella mia soffitta "dice "conservo la guerra: non per soldi, per ricordo". Spalanca la porta della soffitta: muri tappezzati di bossoli, caricatori, lamiere contorte, vecchie lampade. Ecco una piastrina di riconoscimento, n. 174... o forse 074..., con un tratto di catenella schiacciato. La riconosco perchè ricordo quella di mio padre: me la mostrava con un sorriso amaro, lui che sorrideva sempre con dolcezza. In questa non si legge più neanche il numero; eppure era un uomo.C'è anche un vecchio disegno appeso al muro: un povero fante con la faccia sperduta da contadino. Trovato in una casera qui accanto, tra "rose" di bossoli. E c'è anche una lampada da miniera, come le nostre: affiorata l' anno scorso in questi giorni, entro un passo-d'uomo mai scoperto prima. Pare impossibile, dopo tanti anni: la primavera è la stagione buona per ritrovare queste cose; poi viene l'estate e non si trova più nulla. La primavera fa rifiorire oltre all'erba e alle piante anche le schegge, i bossoli, quel povero viso del fante sperduto, il sorriso amaro di mio padre. Rimettiamo ogni cosa al suo posto, appesa al muro, dove ha deciso Pinìn: la guerra va conservata "per ricordo", perchè non si ripeta mai più.


Da Il Gazzettino Novembre 1988

Furono gli Alpini e i Fanti a inventare i primi sentieri attrezzati delle Dolomiti Orientali

Lungo le strade del sangue

Di Sergio Sommacal

Tra fortificazioni e trincee devastate dal tempo e dagli uomini. Dove, talvolta, più che le granate nemiche ha potuto la fame di ferro, prima durante e dopo la seconda guerra mondiale. Ma anche dove i profili della montagna sono stati ridisegnati dal piccone e dalle mine, dove l' artiglieria ha martellato per mesi ed anni, dove i cecchini hanno consumato gli occhi nell' attesa. Luoghi di eroismi e di lacrime, mulattiere di guerra per combattenti di diciannove nazioni. E' adesso - ma niente retorica, non sulla pelle di chi è finito sotto una croce e di chi non ha avuto nemmeno quella - percorsi di pace. Loro, gli alpini e i fanti di parte italiana e di parte austroungarica, hanno inventato i primi sentieri attrezzati delle Alpi Orientali. Trascinando obici, carichi di munizioni, ubriachi di fatica e di paura. Ferrate che risalivano calcare e granito, gallerie che svuotavano i costoni, camminamenti che percorrevano le creste, scale e ponti che superavano canaloni, baracche in forma di villaggio tra ghiaione e parete. Sono stati loro, pionieri e zappatori. Erano, quasi sempre, povera gente mandata a combattere controvoglia. C'era chi sapeva qualcosa di montagna -perchè vi era nato, perchè vi aveva inseguito il suo camoscio, perchè i suoi abitavano nel paese che talvolta si riusciva a vedere in fondo alla valle, e allora poteva dare un senso al suo trovarsi con un moschetto in mano tra quelle crode - ma c'era anche chi affrontava neve e ghiaccio per la prima volta, e non capiva. Non l' escursionismo avventuroso di Dèodat de Dolomieu; non l'eccentrico e stravagante interesse degli inglesi del primo Ottocento; non la tecnica e la voglia di cime dei tedeschi nè degli altri che delle Dolomiti avevano fatto palestra di esplorazione. Era gente venuta magari dal sud dell' Italia, o dalla Galizia. Contadini, artigiani, studenti. E qualcuno di loro può ancora raccontarlo. Qualcuno dei 415 Cavalieri di Vittorio Veneto di Siracusa che erano ancora in vita alla data del 31 Gennaio scorso, o dei 630 di Trapani, o dei 1692 di Palermo, o dei 353 di Teramo. Ma possono raccontarlo soprattutto i nostri cavalieri superstiti: quelli che sono rimasti degli ultimi 322 di Belluno, dei 309 di Bolzano, dei 173 di Gorizia, degli 884 di Padova, dei 352 di Pordenone, dei 350 di Rovigo, dei 51 di Trento, dei 914 di Treviso, dei 132 di Trieste, dei 935 di Udine, dei 681 di V enezia, dei 1217 di Verona, dei 685 di Vicenza. Qualcuno di loro può ancora - o avrebbe potuto - raccontare dei mesi vissuti a scavare il Castelletto o il Lagazuoi, delle slavine che uccidevano più delle pallottole, degli inverni a tremila metri. "Noi oggi - annotano in prefazione Walter Musizza e Giovanni de Donà, autori di un recentissimo agile Strade e sentieri di guerra in Cadore, Ampezzano e Comelico, edizioni Ribis - ripercorriamo, spesso senza accorgercene, strade e sentieri nati per la guerra. Le nostre escursioni nel silenzio della pace sgranano i pazienti tornanti concepiti per i medi calibri e i nostri gratificanti panorami dai rifugi e dalle forcelle sono gli stessi che occhi strategici e tattici scrutavano con ben altri pensieri e motivazioni". Dal Monte Piana all'Adamello , dal Pasubio al Cristallo, dall'Ortigara ai Lagorai, dal Cevedale alla Marmolada al Paterno a tutti quei luoghi in cui le storie dimenticate di sconosciuti ragazzi con le stellette hanno fatto la Storia, in una guerra di attese e di pidocchi, di freddo e di fango. L'inserimento di truppe e di materiali raggiunse ad un certo punto proporzioni mastodontiche - scrive Walter Schaumann presentando La Grande Guerra 1915-18. Storia e itinerari, Ghedina e Tassotti editori; - fu allora che si affermò il ricorso all'ausilio di mezzi tecnici onde snellire il più possibile le operazioni di rifornimento e di rincalzo. Si costruirono strade militari in zone sin allora impervie, e laddove queste cessavano ecco sorgere un\rquote intera rete di funicolari per un complesso di parecchie migliaia di chilometri (...). Ciò nonostante, in numerosi settori del fronte, le colonne dei portatori rimasero l'unica possibilità di collegamento. I soldati marciavano, notte e giorno, esposti a tutte le intemperie, su tratti spesso estremamente pericolosi, portando i loro pesanti sacchi di rifornimenti. Le perdite fra le colonne di portatori erano talvolta più numerose di quelle registrate fra le truppe impegnate direttamente sul fronte". Tra Rovereto e monte Zugna nell'Ottobre dell'anno scorso è stato inaugurato il primo tratto di un Sentiero della Pace che per 350 chilometri, tra Stelvio e Marmolada, ripercorrerà il tracciato del fronte. Si è lavorato ancora quest'anno e si continuerà a lavorare l'anno venturo. Trento ha già lanciato al Veneto e al Friuli la proposta di proseguirlo fino a Caporetto. Sui cartelli indicatori, una colomba. E' un impegno.


Dal settimanale Oggi

Un cappello riapre (e forse risolve) il giallo della Grande Guerra

"Ma quale cecchino nemico, al generale spararono i nostri"

di Anna Checchi

Cortina D'Ampezzo(Belluno), Agosto

Il berretto sembrava scomparso. Nessuno lo vedeva più da 83 anni, cioè dal giorno in cui, a Cortina, si erano svolti i funerali del generale Antonio Cantore. Era suo, il berretto. Cantore, l'eroe delle Tofane, medaglia d'oro al valore militare, il primo generale italiano caduto nella Grande Guerra, non se ne separava mai. Il 20 luglio 1915, mentre da una postazione sulle montagne sopra Cortina osservava la trincea nemica, una pallottola gli trapassò il cranio, forando la visiera del famoso berretto. E fu subito giallo. Chi aveva ammazzato il valoroso Cantore? Un cecchino austriaco, come recita ancora oggi la versione ufficiale, o invece, secondo la vox populi che da subito prese piede, ad ammazzare il generale erano stati i suoi stessi ufficiali, esasperati dalla sua spietata durezza? Ai tempi, sarebbe bastato poco per rispondere alla domanda. Austriaci e Italiani usavano proiettili di calibro diverso, otto millimetri e mezzo quelli austriaci, più grandi, e sei millimetri e mezzo i nostri, più piccoli. Dunque, misurando il foro nel berretto, si sarebbe potuto capire da quale arma proveniva. Ma c'era la guerra, la gente moriva, non cera il tempo di giocare a Perry Mason. Così, il cappello dei misteri venne deposto sopra la bara del generale durante i funerali, poi fu restituito alla famiglia e nessuno lo vide più. Solo oggi, 83 anni dopo, quel berretto è tornato a Cortina. E' successo infatti che il nipote del generale Cantore, l' ingegnere Antonio Cantore (omonimo del nonno), un simpatico signore di 80 anni che vive a Torino, ha deciso di prestarlo alla mostra in corso a Cortina, in occasione dell'ottantesimo dalla fine della Grande Guerra. La mostra, organizzata da Loris Lancedelli, un'appassionato di storia che da anni raccoglie materiale sulle battaglie dell'Ampezzano, è molto bella. L'ingegner Cantore l'ha vista, gli è piaciuta e ha deciso di prestare il berretto del celebre nonno. Subito, di nuovo, si è scatenata la polemica. Perchè il foro sulla visiera, come ora si vede a occhio nudo, corrisponde alla misura del proiettile italiano ed è troppo piccolo per quello austriaco. E' la prova finale, dicono gli ampezzani, che furono gli italiani ad ammazzare Cantore. Ma èdavvero così ? Possibile che il primo grande eroe della Grande Guerra sia morto non per mano nemica ma per il tradimento di ufficiali ribelli? Quel cappello non rappresenta una prova definitiva, dice Paolo Giacomel, storico di Cortina, da sempre studioso delle battaglie ampezzane. La visiera bucata dal proiettile èdi cuoio e il cuoio, come è noto, col tempo si restringe e si irrigidisce. Difficile , oggi, dopo tanti anni, dedurre il calibro di una pallottola da quel foro. Ma qui a Cortina da sempre si dato per certo che a uccidere Cantore siano stati i suoi uomini. Sono talmente tante le voci e le dicerie in proposito, che un fondamento devono pur averlo. Di sicuro quell a morte fu misteriosa. E oggi questo foro a misura di calibro italiano, aumenta i misteri. Ma che persona era il generale Antonio Cantore? Davvero era così odiato dai suoi uomini? Il professor Giacomel, che all'argomento ha dedicato l'ultimo dei suoi libri, Arrivederci- Aufwiedersehen, lo descrive come un soldato tutto d'un pezzo: Era il più ammirato e il più temuto. Aveva 55 anni quando, nel giugno del 1915, arrivò a Cortina, come generale di divisione. Aveva fatto la guerra di Libia, distinguendosi per l'ardimento e il coraggio. A volerlo a Cortina era stato Cadorna in persona, che l'aveva chiamato per sostituire il generale Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo lento e prudente. Lo chiamavano el vecio, e anche il papà degli alpini. Ancora oggi, per loro, Cantore è il mito, l'eroe per definizione. Era un bell'uomo, molto alto, uno che faceva impressione, una specie di John Wayne, con una forte personalità. Il suo coraggio era leggendario. Ma coi subalterni era spietato. E qui a Cortina i rapporti coi civili e coi suoi stessi uomini furono subito burrascosi. Ho raccolto in proposito molte testimonianze. Una donna, allora bambina, ricorda di averlo incontrato in chiesa, coi suoi ufficiali. E ricorda di aver avuto allora la sensazione che questi si facessero sberleffo di lui, che tramassero alle sue spalle. Sul fronte dolomitico la situazione era tesa. Le Tofane, le tre colossali piramidi che dominano Cortina, erano controllate dagli austriaci. Bisognava organizzare un assalto. Il generale decise che avrebbe sfondato a Fontananegra. Ed era evidente che un simile attacco sarebbe costato molte vite umane. Era un'operazione spericolata. Le trincee austriache erano a 1.800 metri, le postazioni dei nostri soldati erano a 1.300. Per sfondare, quindi, dovevano coprire un percorso di 500 metri salendo dal basso verso l'alto: per gli austriaci sarebbe stato un facile tiro al bersaglio. Ma Cantore voleva fare quell'attacco. Era là per sfondare il fronte nemico, per fare in fretta, per vincere. D'altra parte Cortina era una cittadina di montagna che da 400 anni era sotto gli austriaci. L'arrivo delle truppe italiane era stato accolto più come un'occupazione che come una liberazione. Gli austriaci si erano sempre comportati bene, nelle scuole si insegnava la lingua italiana, il clima era di grande rispetto per la nostra cultura. Austriaci e italiani, qui, erano sempre stati amici. Così, questo generale così ardimentoso e temerario non era guardato con grande simpatia. In alcune testimonianze si racconta che il generale avesse intenzione di far sgomberare Cortina da tutti i civili. Gli ufficiali si erano opposti ferocemente al progetto. Sgomberare il paese da mamme e bambini voleva dire dare agli austriaci l'alibi per distruggere la città , per distruggere i grandi alberghi. Cortina, già allora, era famosa in tutto il mondo come centro turistico. Sarebbe stato un disastro . Morale, la paura cresceva. Naturalmente Antonio Cantore, generale valoroso e geniale, era lì pe r vincere la guerra, non per promuovere il turismo ampezzano. Ma resta il fatto che, nei suoi confronti, ufficiali e civili nutrivano sentimenti sempre più rancorosi. Ed ecco che si arriva al giorno fatale del berretto e del proiettile, il 20 luglio 1915. "Di mattina" , ricostruisce il professor Giacomel, "il generale esce dal' Hotel Posta, dove dormivano gli ufficiali, e va al villaggio di Vervei, sulle Tofane un paesino costruito dai soldati italiani, che erano bravissimi a costruire strade e villaggi. Va là per incontrare i vari generali di brigata ed esporre il piano di battaglia. Lungo la strada, trova un ufficiale della Brigata Como, la prima che era entrata in Cortina, e gli dà 10 giorni di consegna per essersi allontanato dal suo reggimento . Una punizione del genere rappresentava un fatto insolito, nei confronti di un ufficiale. Poi, entrato nel villaggio, vede i militari seduti in mensa a mangiare, fa interrompere il pranzo e pronuncia con tono veemente una frase storica, -Domani sarete tutti lassù-. E quel lassù poteva significare lassù a Fontananegra, dovè era previsto l'assalto, ma anche lassù in cielo, visto che ci sarebbero stati molti morti ". Ancora una volta, quindi, il clima non era dei migliori. A questo punto la storia prosegue e ci sono le due versioni, quella ufficiale e quella della gente di Cortina. Secondo la versione ufficiale il generale Cantore, finita la riunione coi generali, sale con quattro alpini verso la postazione più avanzata di Fontananegra. Gli austriaci sono sopra, a circa 200 metri. Lui, berretto in testa e cannocchiale in mano, si sporge col torace da una roccia per vedere l'esatta posizione della mitragliatrice nemica, per organizzare meglio l'assalto. Un primo colpo di proiettile lo sfiora appena. Gli ufficiali gli dicono di stare indietro, ma Cantore è impavido, non ha paura di niente, insiste, si sporge di nuovo. E il cecchino austriaco stavolta non sbaglia la mira. Questa la versione ufficiale. Ma subito, alla notizia della morte del generale, oggi sepolto nel sacrario di Pocol, sopra Cortina, si diffondono voci diverse." Ho raccolto testimonianze incredibili", dice Paolo Giacomel." Molti allora sostennero che il generale era stato ucciso altrove, forse nel villaggio di Vervei, e solo dopo era stato portato a Fontananegra, per coprire la verità e inscenare l'agguato austriaco". E ancora" Una maestra mi ha raccontato che 10 anni fa un alpino della vallata, che oggi ha 101 anni, le avrebbe assicurato di aver fatto parte del plotone di alpini da cui sarebbe partito il colpo. Invece un altro signore, Attilio Berlanda, che ai tempi militava nelle file asburgiche, intervistato alla fine degli anni Sessanta da un giornalista trentino, ha confessato di essere lui il cecchino austriaco che aveva centrato il cranio del generale. E che per questo aveva ricevuto la medaglia d'oro dall'Imperatore d'Austria. Ma da indagini successive si è appurato che Berlanda aveva sì avuto la medaglia, ma per un'azione bellica del 1914 in Galizia".Verità e bugie. "I quattro alpini che accompagnavano il generale nel giorno dall'agguato", dice ancora Giacomel, " non sono mai stati rintracciati. Non si conosce il loro nome. Se ci fossero stati sospetti sulla morte di Cantore, visto che sparare al proprio generale comporta la fucilazione, qualcuno di loro sarebbe stato quanto meno interrogato". Eppure, tuttora, molti si dicono certi che non fu il nemico a uccidere Cantore. Un vero giallo. Che sconcerta non poco il nipote del generale, l'ingegner Antonio Cantore. Lui, per amore del nonno, e della storia, e di quel bel museo che ricorda i tanti morti della Grande Guerra, ha prestato volentieri il berretto dei misteri agli ai ampezzani, ma poi c'è rimasto male a leggere, sui giornali, della diatriba del proiettile." Hanno scritto che ai funerali di mio nonno", dice, " l'unico davvero triste fosse il suo cavallo bianco. E che gli alpini fecero festa alla sua morte. Dubito che potessero fare festa, e poi c'era la guerra, c'erano morti e feriti, c'era poco da festeggiare. E poi questa è un'offesa per tutti i caduti in battaglia. Nessuno fa festa, mai, quando un proiettile ammazza un soldato. Mio nonno non l'ho conosciuto, sono nato cinque mesi prima che lui fosse ucciso. Ma so che èstato un grande generale. Non era affatto odiato dai soldati. Durante la guerra di Libia scriveva personalmente ai familiari dei caduti e mio padre mi ha mostrato molte lettere di gratitudine mandate dai figli e dalle mogli di quei soldati. I generali che combatterono a Tripoli, al suo fianco contro i turchi l'hanno sempre ricordato con ammirazione. E poi se davvero a ucciderlo fossero stati ufficiali italiani, si sarebbe saputo: come nascondi una cosa simile davanti a tanti soldati?". Giusto. Ma intanto, ora che il famoso berretto è torn ato a Cortina, tutti ampezzani e turisti che hanno seguito la vicenda sul quotidiano locale, fanno la fila davanti al museo per osservare da vicino il prezioso cimelio. Guardano il foro, guardano gli esemplari di pallottole esposte là accanto, fanno la prova, vedono che quella austriaca non passa dal buco, l'altra si, e scuotono la testa allibiti. Sarà anche vero che il cuoio si stringe, però... E il giallo continua.


Dal Gazzettino, Venerdi 24 Agosto 2001

Brucia il Carso, riemergono le trince

I rovi avevano nascosto per decenni i camminamenti scavati nella roccia durante la Grande Guerra

Redipuglia

Coperte per decenni da cespugli, boscaglia, pinete e altra vegetazione tipica del Carso goriziano, vecchie trincee della Prima Guerra Mondiale sono "riemerse" alla luce in seguito all'incendio che ha distrutto oltre 120 ettari fra i comuni di Doberdò del Lago, Monfalcone e Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia. Il fuoco, alimentato da un forte vento di nordest e agevolato dal clima secco, ha distrutto la vegetazione che da decenni caratterizza questa parte del Carso goriziano e alle sue spalle ha lasciato il paesaggio brullo e pietroso di quello che doveva essere il Carso nel corso della Grande Guerra. In una vasta area fra Sagredo, Ronchi dei Legionari e Monfalcone, a non più di tre-quattro chilometri in linea d'aria dal Sacrario di Redipuglia (dove sono sepolti centomila soldati italiani caduti nella Prima Guerra Mondiale), in quello che è stato uno degli scenari più cruenti del primo conflitto mondiale, sono così riemerse vecchie trincee, dimenticate da decenni. -Da terra - hanno riferito gli uomini della Protezione Civile che hanno operato sul posto - le trincee non sono immediatamente visibili (molte sono coperte da detriti, terriccio e altro materiale), ma dall'alto (in particolare dagli elicotteri che hanno operato nella zona per spegnere le fiamme) le loro linee appaiono con evidente chiarezza. Durante la notte - hanno riferito sempre gli uomini della Protezione Civile - si sono sentite anche alcune esplosioni, probabilmente di vecchie granate abbandonate, soprattutto nella zona del poligono di tiro di monte Debeli, vicino a Selz frazione di Ronchi dei Legionari, mentre l'incendio è scoppiato a Jamiano frazione di Doberdò del Lago. Alle operazioni di spegnimento del fuoco (che ha avuto un perimetro di sei-sette chilometri e ha determinato la chiusura, per oltre due ore, dell'autostrada A4 Venezia-Trieste, nel tratto fra l'uscita di Redipuglia e la barriera del Lisert, a pochi chilometri da Trieste) hanno partecipato oltre 120 uomini. L'incendioè divampato nella zona di "Selz" di Doberdò del Lago e, spinto dal vento, si è rapidamente esteso fino a lambire l'autostrada, nei territori dei comuni di Ronchi dei Legionari e Monfalcone, in provincia di Gorizia, dove in alcuni momenti ha anche minacciato alcune abitazioni


Dalla Nuova Venezia , Mercoledi 28 agosto 2002

Marmolada, spuntano le ossa di fanti italiani

Lo scioglimento del ghiacciaio porta alla luce nuovi resti umani

Belluno. È’ stata forse individuata nella Città di ghiaccio austro-ungarica, sulla Marmolada, a 3000 metri di quota, la tomba dei 15 fanti italiani fatti saltare in una galleria da una mina austriaca il 26 settembre 1917. La scoperta è stata compiuta dal bergamasco Matteo Annoni.

Insieme ad altri 22 volontari Annoni ha lavorato nella galleria Rosso per ripulirla dal ghiaccio che minaccia di ostruirla. Ha compiuto poi un sopralluogo sotto Forcella a “V” dove esisteva la galleria italiana, ed in un profondo crepaccio ha individuato un cumulo di ossa presubilmente umane: potrebbero essere di uno dei 15 fanti morti lassù, nella ormai lontana azione di guerra di mine italo-austriache. Poco distante emergono i resti di 4 baracche austriache della mitica Città di ghiaccio. E’ probabile che nello stesso lungo crepaccio, o nelle immediate vicinanze, siano sepolti i corpi o i resti degli altri fanti travolti dall’esplosione della mina e poi sommersi dalla neve per 85 anni. Il ritiro del ghiacciaio e lo scioglimento delle nevi continuo ha portato alla luce nuove trincee e crepacci che furono teatro di battaglie in guerra. La ricerca dei fanti, voluta dall’ex Intendente del museo, il dr. Mario Bartoli, farmacista padovano trapiantato per molti anni sulla Marmolada per amore di questa montagna e proseguita dall’attuale direttivo del centro studi, è stata di recente finanziata dalla Regione Veneto (25 mila euro). I1 luogo dove sono state rinvenute le ossa è zona monumentale. Per la ricerca ed il recupero dei corpi dei 15 fanti è in atto un accordo operativo tra Onor Caduti (Roma) e il direttivo del museo Marmolada. Il crepaccio dal quale sono affiorate le ossa, corre parallelo alla pista da sci “La Bellunese” nel tratto più elevato e potrebbe essere agevolmente raggiunto con l’intervento di un gatto delle nevi. La stagione potrebbe costituire per il tentativo di recupero delle ossa un ostacolo insormontabile in caso di nevicata non insolita a 3000 metri di quota.

Nota del WM : in un trafiletto di alcuni giorni dopo veniva data notizia che le ossa ritrovate molto probabilmente erano le ossa di qualche animale caduto nel crepaccio.


Dal Gazzettino , 24 Dicembre 2002

Il ritrovamento da parte di tre speleologi in una grotta a 1850 m.

L'Ortigara restituisce i corpi di 4 soldati

Asiago. I resti umani di 4 soldati della Prima Guerra Mondiale sono stati trovati in una grotta tra Monte Colombara e Monte Zebio, nella zona più a nord del comune di Asiago, a quota a 1850 metri, a 10 chilometri dal Monte Ortigara, che ha ospitato le battaglie più cruente del conflitto 1915-1918. E probabile che si tratti di militari italiani (lo farebbero pensare gli scarponi da ghiaccio trovati vicino ai corpi) anche se gli inquirenti non si sbilanciano: la zona attorno all’Ortigara restò in mano austriaca per lungo tempo e questo induce a prudenza, soprattutto da parte degli storici. La prima ipotesi che scaturisce dalle indagini dei carabinieri di Asiago (l’inchiesta è condotta dal procuratore di Bassano, Mario Milanese) è che i quattro militari possano essere stati uccisi da un colpo d’artiglieria nemica, mentre erano intenti a costruire un “ricovero sotterraneo” o una feritoia per avvicinarsi al nemico. Nelle vicinanze sono stati infatti rinvenuti picconi, badili e altri oggetti che venivano utilizzati per scalfire la roccia. Nella caverna sono emerse anche delle bombe a mano modello Sipe, munizioni di vario tipo e frammenti della bomba d’artiglieria che potrebbe aver ucciso i militari. A fianco dei resti, invece, non sono stati rinvenuti nè armi nè oggetti personali e questo potrebbe far pensare che i commilitoni abbiamo deciso che lo stesso luogo diventasse la “tomba” dei quattro soldati. Il ritrovamento è avvenuto nei giorni scorsi da parte di tre componenti (due residenti ad Asiago e uno a Gallio) del Soccorso Alpino e Speleologico Sette Comuni, che già nei mesi scorsi avevano scoperto la grotta, mai censita. Lo stesso terzetto ha poi dovuto attendere la fine del piogge e che il freddo gelasse il terreno per penetrare nella cavità, un cunicolo verticale e molto stretto: lo scopo era l’esplorazione della grotta, poi invece è avvenuta la scoperta delle ossa umane. Una volta conclusa l’indagine e qualsiasi sarà l’esito degli esami del medico legale, i resti umani dei quattro soldati saranno conservati, nell’Ossario del Laiten di Asiago, che già ospita migliaia di corpi senza nome. A distanza di oltre ottant’anni sono ancora numerosi i ritrovamenti di residuati bellici ma anche di resti umani nel comprensorio altopianese.


Dal Gazzettino, 9 Febbraio 2003

Bassano. Scavata nella roccia in Valbrenta. Il ritrovamento ad opera degli speleologi del Gruppo grotte "Giara" di Valstagna

Scoperta l'antica osteria dei soldati

Rinomata nel 1800,usata dalle truppe della Grande Guerra e poi abbandonata. Diventerà museo

Scoperta in Valbrenta un'antica osteria incastonata nella roccia. Verrà trasformata in museo della prima guerra mondiale. Durante una delle consuete ricerche alcuni speleologi del Gruppo Grotte Giara di Valstagna, in località "Grottella", nei pressi dello sperone roccioso che incombe sulla statale 47 della Valsugana, tra le contrade di Rivalta e San Marino, hanno riportato alla luce quella che negli anni della Grande Guerra, ma ancor prima per tutto l'800 era stata una singolare, rinomata, osteria di confine.Risalendo il corso di una sorgente tra rovi e detriti, seguendo uno zampillo d'acqua, in una zona degradata e ricoperta di arbusti si è arrivati al locale, con evidenti tracce del suo passato di accogliente punto di ristoro per le truppe che combattevano in quella zona. L'intero manufatto, una volta recuperato all'uso, diventerà un piccolo museo della Valbrenta, con reperti della prima guerra mondiale.


Dal Gazzettino, Maggio 2003

Il Grappa restituisce sedici scheletri

l'identificazione è avvenuta grazie ai bottoni delle giubbe,alle giberne,alle mostrine,ai caricatori

di Alessandro Tibolla

Erano là da più di ottant'anni. Sepolti, uno sopra l'altro senza distinzione di nazionalità e grado. Nessuno sapeva che fine avessero fatto quei soldati che durante le cruente battaglie della Grande Guerra , avevano combattuto lungo le pendici del Monte Grappa. Erano morti per la loro Patria ma nessuno per quasi un secolo si era curato di loro.Nessuna ricerca, erano scomparsi nel nulla. Solo il caso e la caparbietà di un escursionista e poi degli uomini del Corpo forestale della stazione di Feltre (Belluno), ha fatto sì che gli scheletri di ben 16 militari, 14 germanici, un austriaco e un italiano, venissero alla luce. Erano sepolti in una sorta di fossa comune sul Monte Grappa nel territorio di Alano di Piave (Belluno). Accatastati uno sopra l'altro.Per riportare alla luce i reperti, gli uomini della Forestale hanno lavorato per ben due giorni, coadiuvati dal professor Renzo Barbazza, primario di Anatomopatologia del Santa Maria del Prato di Feltre che ha effettuato la perizia necroscopica. Un aiuto indispensabile visto che la lunga inumazione aveva reso quasi indistinguibili gli scheletri. Per capire che nella fossa i militari sepolti erano sedici, è stata necessaria la conta dei femori. L'attribuzione della nazionalità e l'appartenenza ai diversi eserciti sono state possibili grazie al ritrovamento di una serie di effetti personali inequivocabili. Per capire che dodici eroi erano germanici, la Forestale si è basata sui bottoni delle giubbe che avevano impressa la Corona Prussiana. Sono state ritrovate anche due placchette con i nomi e i gradi. Il militare austriaco aveva con se una pipa in ceramica di chiara fattura d'Oltralpe con l'aquila tirolese. Sul cranio l'elmo del suo esercito e vicino le mostrine. Per identificare l'italiano ci si è basati sulle giberne che lo cingevano alle quali erano appesi cinque caricatori con le pallottole per il fucile Novantuno. Reperti e scheletri sono stati quindi trasportati nella cella mortuaria del cimitero di Alano di Piave a disposizione dell'autorità giudiziaria. Il pubblico ministero di Belluno, Gianni Griguolo, ha disposto l'esame autoptico repertando quindi gli oggetti ritrovati.


Da La Repubblica 21 Luglio 2003

Le ultime ore degli alpini

le fucilazioni di Cercivento novant'anni dopo

di Luca Fazzo

Cividale del Friuli - prima di diventare l'opera teatrale che debutta stasera tra gli eventi collaterali del Mittelfest di Cividale,la storia dei fucilati di Cercivento esisteva già. Era la storia che viaggiava di bocca in bocca tra la gente della Carnia, tramandata lungo quasi novant'anni che ci separano da quei tragici avvenimenti. Una storia che non trova spazio sui libri di scuola nè dell'epoca fascista nè di quella repubblicana, tanto era incongrua con l'ufficialità e la retorica della Grande Guerra. Perchè le fucilazioni di Cercivento sono l'episodio più simbolico di quel massacro continuo che, durante la Prima guerra, fu costituito da decimazioni e condanne a morte sbrigativamente emesse dai comandi per fronteggiare atti di indisciplina e insubordinazione. Il dramma scritto da Carlo Tolazzi s'intitola Prima che sia giorno, prodotto dal Teatro Club di Udine e dal Mittelfest, e va in scena nella sala grande della chiesa di San Francesco a Cividale. proprio in una chiesa, d'altronde, si celebrò a Cercivento, nell'estate del 1916, il processo sommario ai quattro soldati della 109a compagnia della XXVI divisione alpina accusati di avere guidato l'insubordinazione del reparto, quando, il 24 giugno, il loro comandante aveva ordinato di andare per l'ennesima volta all'assalto del monte Cellon, a quota 2238, una delle tante cime che nel corso della guerra italiani e austriaci si strappavano periodicamente: e ogni volta era un macello. La 109a compagnia era fatta tutta di friulani, gente che conosceva le montagne come le proprie tasche, che sapeva distinguere un assalto con possibilità di vittoria da un massacro inutile. I quattro alpini che i comandi scelsero come capri espiatori erano Giovan Battista Coradazzi, di Forni di Sopra, Angelo Massaro di Maniago, Basilio Matiz di Timau e Silvio Ortis di Paluzza. Per il testo, tolazzi ha scelto di raccontare le ultime ore di vita di due di loro, Massaro e Matiz, nella canonica di Cercivento trasformata in death row. il processo, gli interrogatori dei due alpini, a chi vedrà lo spettacolo, potranno sembrare sommari ai limiti del grottesco. Ma il processo, quello vero del giugno 1916, fu una farsa, due giorni d'udienze con una sentenza scritta sotto lìimpulso del generale Salazar, comandante della XXvi divisione, deciso a impartire una lezione a una truppa sempre più insofferente verso la dissenata conduzione della guerra: conduzione che l'anno dopo sarebbe sfociata nella catastrofe di Caporetto. I quattro alpini - dopo un'esecuzione ripetuta due volte, perchè una parte del plotone tirò a vuoto - vennero sepolti in freytta e furia accanto alla chiesa, e sul luogo dell'esecuzione sorge oggi l'unico monumento ai Caduti, tra le migliaia sparsi in tutta Italia, dedicato a soldati uccisi non dal nemico ma dai propri comandanti. Ma la loro storia divenne rapidamente un pezzo della memoria collettiva della gente di questa parte di Friuli, tramandata nel dialetto della Carnia o nello strano patois friulano che si parla intorno a Timau, il paese da cui veniva Basilio matiz. Di inserti di quei dialetti è fitto il testo scritto da Tolazzi, che dopo la "prima" di questa sera e la replica di domani verrà portato in scena a Cercivento e, subito dopo, a Bovec, aldilà del confine con la Slovenia. e magari anche quest'opera teatrale porterà un contributo alla battaglia civile che da anni i discendenti dei quattro alpini, il Comune, la Chiesa, i circoli di paese stanno conducendo per ottenere un processo di revisione che restituisca l'onore ai quattro soldati giustiziati senza motivo.


Da Il Giornale di Vicenza Lunedì 8 Luglio 2002

"Un omaggio a Pieropan"

di Roberto Belvedere

Vicenza. Sabato 29 giugno mi sono recato di buon mattino a piazzale Lozze, punto di partenza del sentiero per Monte Ortigara, per partecipare alla benedizione della targa dedicata al nostro indimenticabile Gianni Pieropan. Nel giro di un quarto d’ora il parcheggio si è quasi riempito di automezzi; questo mi ha dato la misura di quanto lo scrittore vicentino fosse amato. Senza aspettare nessuno, mi sono incamminato di buon passo lungo il sentiero tricolore e nel giro di un’ora ho raggiunto la cima del monte: ero tutto solo in quell’ambiente che, anche per me, emana qualcosa di magnetico e provoca forte commozione. In quel preciso momento ho sentito la necessità di commemorare a modo mio Gianni Pieropan e, fatti echeggiare un paio di tocchi alla campana, mi sono diretto verso il monte Campigoletti e il monte Chiesa Ma invece di seguire il sentiero segnalato, mi sono infilato nella trincea austriaca che, partendo dalla Valle dell’Agnella, risale tutto il costone dei Campigoletti; le difficoltà dovute ai sassi che ingombrano lo scavo non sono insuperabili e questo mi ha fatto tornare in mente quanto Pieropan stesso caldeggiava ancora qualche decina di anni fa nella sua "Guida al campo di battaglia": il recupero di questo itinerario storico/paesaggistico di straordinario interesse e bellezza. I manufatti, le caverne, le trincee, le postazioni per mitragliatrici, ecc. sono ancora in buono stato grazie soprattutto alla natura morfologica del luogo essendo stati scavati nella viva roccia e pertanto i lavori di ripristino non dovrebbero essere particolarmente gravosi. Considerando che migliaia di turisti ogni anno si recano in vetta all’Ortigara, sarebbe straordinario far conoscere e visitare, in tutta sicurezza, questo interessantissimo tratto di prima linea austroungarica che gli italiani non riuscirono a conquistare talmente era dominante e ben organizzato. In considerazione di quanto già fatto alle trincee di Monte Zebio e di quanto previsto dalla legge 7 marzo 2001, n. 78 "Recupero e valorizzazione delle testimonianze della Grande Guerra sul fronte italiano" auspico un altrettanto fattivo interessamento di quelle organizzazioni che potrebbero dar seguito all ’intervento di restauro (Comuni dell’Altopiano, Provincia, Regione, Ministero della Difesa, A.N.A. e non ultima la folta schiera di appassionati che potrebbero dare gratuitamente il proprio apporto con pale e piccone, compreso naturalmente anche il sottoscritto). A mio modesto parere, il ritorno di immagine per l’Altopiano di Asiago/Provincia/Regione, anche a livello internazion ale, sarebbe notevole.


Da La Nuova, 5 Agosto 2003

Le trincee della Grande Guerra conducono sulla via della pace

di Francesco dal Mas

Cortina. Il Veneto in prima linea. Una trincea lunga 100 chilometri. Un "museo all'aperto" il più alto e il più esteso d'Italia,che parte ai piedi delle Tre C di Lavaredo e finisce sull'Altopiano di Asiago. "Chi lo percorre, rivive le sofferenze della prima guerra mondiale, ma proiettandosi esclusivamente verso la pace" spiega l'assessore regionale al turismo, Floriano Pra, bellunese. Sarà Pra ad accompagnare, giovedì il presidente della giunta regionale del Veneto, Giancarlo Galan, alla posa della prima pietra (ore 11 in località Pontechiesa, presso il magazzino dell'ex segheria). Sarà, per la verità, la prima del Centro Polivalente e sala congressi di Cortina. Ma proprio qui si troverà sede il "punto informativo" sugli itinerari della grande Guerra. Cortina non ha mai avuto un centro congressi. Il nuovo cantiere (da 5 milioni e 250 mila euro) permetterà alla "regina delle Dolomiti" di poter contare entro il 2006, su 650 posti (in 3 sale modulari). Qui troveranno aspitalità anche il Parco delle Dolomiti d'Ampezzo e il centro studi sulla Flora e la Fauna. Tutto merito del programma europeo Interreg con l'Austria. Gli austriaci, infatti, sono stati i primi ad insistere per i "sentieri della pace", come li ha ribatezzati Mario Rigoni Stern. Sul Lagazuoi e sulle Cinque Torri, i percorsi sono già frequentati da anni. Trincee, camminamenti, gallerie, postazioni; chi vi sale ha tutte le descrizioni sull'impossibile vita che vi conducevano i soldati della grande guerra. " Non c'è nessuna passione necrofora che ti coglie in questi momenti - spiega Iacopo da Val, uno degli architetti che hanno messo a punto il progetto - semmai sentimenti del tutto opposti: basta guerre, impegnamoci per la pace". percorsi didattici, quindi, tanto che le scolaresche che hanno chiesto di visitarle, nei mesi liberi dalla neve, hanno fatto saltare ogni più ottimistica previsione. Il museo all'aperto comincia con le trincee del monte Piana, proprio davanti alle Tre Cime di Lavaredo. pèrosegue con i forti di Pian dei Buoi, da una parte (tra Auronzo e Lozzo di Cadore) e le Tofane dall'altra. In mezzo c'è il monte Rite col "museo nelle nuvole2 di Reinhold Messner. Di questo forte trsformato in laboratorio d'arte c'è un'unica saletta visitabile senza pagare: è appunto quella con la lanterna che usavano i militari nelle notti senza luna. giovedi sarà inaugurato anche il museo di Val Parola, poco distante dal Passo Falzarego. anche questo un forte recuperato a museo. " Basterà pigliarsi un'autoguida ai vari sportelli informativi - consiglia Da Val - per farsi il giro dei diversi siti e immedisimarsi nelle situazioni vissute al fronte. Sul posto, inoltre c'è una cartellonistica così puntuale che permette dei veri e propri percorsi didattici". Il col di Lana sarà un'altra tappa, poi il castellodi Andraz. E già si para davanti il massiccio della Marmolada. Lassù a 3 mila metri di Forcella V, sta riemergendo la "città di ghiaccio", costruita dagli austroungarici a 50 metri di profondità. le nevi si sciolgono e vengono alla luce perfino delle bombe inesplose. I responsabili del museo della grande guerra, a Serauta (dove arriva il secondo tronco della funivia) sono preoccupati: troppi infatti, gli appassionati che nottetempo recuperano gavette, scarpe, chiodi, armi per conservarli come cimeli. Giù dalla Marmolada si finisce in Val Imperina, con le vecchie miniere in recupero, all'inizio dell'Agordino. Un breve volo e si plana sulla cima del Grappa. E' la penultima tappa del percorso, con i camminamenti che danno sulla pianura veneta. Ma la prima linea saliva anche sull'Altopiano di Asiago. " Se le alte vie alpinistiche sono in crisi, questo è il futiro" chiosa l'assessore Pra, che ha stanziato 5 milioni di euro solo per le prime opere".. In effetti - ha testimoniato Rigoni Stern in un recente convegno ad Arabba - " i giovani hanno molto interesse verso queste cose". Il motivo? " il sentiero della pace diventa anche un momento di unione. Di aggragazione tra i popoli. Ho visto percorrerli molti austriaci".


Dal Gazzettino, Ottobre 2003

Sante Del Sal, di Cesarolo, era deceduto nel Maggio del 1916 in Val Posina

Lo pensavano disperso in guerra, trovano i suoi resti all'ossario di Schio

Di M.Mar.

San Michele. Che fosse morto in guerra, 87 anni fa era certo, ma dove? Sante Del Sal, cittadino, decorato con la medaglia d'argento e croce di guerra, nato il 27 settembre 1888 a Cesarolo, frazione di San Michele, terzo di 11 fratelli, sposato con due figli, Elia, ancora vivente a S.Daniele del Friuli, e Alice oggi scomparsa, era considerato ufficialmente "disperso". Eppure lo avevano cercato, quel padre di famiglia morto per difendere la Patria. Non sempre con costanza, però, anche perchè erano tempi duri e la moglie, quando Elia aveva sette anni, ha pensato di risposarsi, giusto anche per dare un futuro a quei due figlioli rimasti orfani. Non lo cercava certo lo Stato italiano, forse il più disattento, nonostante sia stato il maggior beneficiato dal sacrificio di Del Sal. Eppure a Cesarolo del povero Sante non si erano dimenticati: prima, nel 1953, tentarono invano di intitolargli la scuola elementare, su interessamento del maestro Iginio Bianchin, ma in quel caso la spuntò "Giovanni Pascoli"; poi, nel 1972, il consiglio comunale all'unanimità, sempre su proposta del maestro Bianchin, diventato consigliere comunale, riconobbe i suoi meriti e gli intitolò la strada dietro il mulino, tra via Conciliazione e via Manuzza. " Gli abitanti dell'ex via Dietro il Mulino - disse in quell'occasione il maestro Bianchin - chiedono che la loro via venga definitivamente nomata Via Sante Del Sal, medaglia d'argento, combattente della guerra libica e della prima guerra mondiale, morto sul campo il 24 aprile 1916". Una dat di morte sbagliata, come emerso recentemente, essendo deceduto in realtà il 29 maggio 1916 a Sagli di Campiglia in Val posina. A voler dare una svolta alle ricerche dei resti mortali sono stati recentemente le associazioni combattentistiche del paese: l'Associazione ex combattenti e reduci di Cesarolo e l'Associazione fanti d'arresto di San Michele. L'occasione arrivò con il Console Onorario d'Austria, Mario Eichta, presente a San Michele, lo scorso 24 maggio, per la cerimonia di commemorazione nel cimitero austro-ungarico, dopo i lavori svolti dai volontari della Croce Nera austriaca. " Il console Eichta - ricorda Angelo Zamparo, presidente degli Ex combattenti di Cesarolo - ci disse che aveva appena ritrovato i resti di due dispersi. Per noi fu come un'illuminazione: avevamo trovato l'uomo giusto in grado di fare le ricerche. Fu così che dopo avergli fornito il foglio matricolare di Sante Del Sal, recuperato nel 1992 dal figlio Elia, per chiedere la pensione come orfano di guerra, il console avviò le ricerche che ebbero fortuna: i resti di Sante Del sal sono conservati nell'ossario di Schio, dopo essere stati trasferiti dal piccolo camposanto della Val Posina, dove erano stati inizialmente sepolti". "L'avere individuato nell'ossario di Schio il luogo dove riposa il nostro concittadino - spiega il sindaco Sergio Bornacin - ci dà la possibilità di organizzare per il prossimo marzo 2004, assieme alle associazioni combatettistiche, e in collaborazione con gli amministratori di Schio, una cerimonia commemorativa". Felice del ritrovamento dei resti mortali del padre anche Elia Del Sal, 88 anni fra qualche giorno, che da San Daniele manifesta ancora rammarico. " Ho saputo - dice - che c'era la possibilità di avere una pensione come orfano di guerra quando avevo 76 anni. L'ho ottenuta in ritardo e va bene. Ma vorrei tanto che mi fossero restituiti la medaglia d'argento e la croce di guerra di papà che nel 1953 consegnai per l'intitolazione della scuola di Cesarolo: so che furono inviati dal Comune al provveditorato agli studi, ma poi non sono più tornati indietro. Chi se li è tenuti?".


Dal Corriere della Sera, 1 novembre, 2003

L' ultimo fante della Grande Guerra «Non dimenticate il nostro sacrificio»

Carlo Orelli, 109 anni, soldato dal 1915: il 24 maggio ci portarono al fronte e cominciò l' inferno «Ora i miei nipoti in Austria ci vanno a sciare. Stimo Ciampi, è giusto celebrare il 4 novembre» Ha combattuto nelle trincee della Prima guerra mondiale, è sopravvissuto alle mitragliatrici, ai cecchini e ai colpi degli obici austriaci. Oggi, a 109 anni, racconta: «Abbiamo fatto la guerra senza amarla, ma senza fare storie. Il nemico? Ci univa un odio involontario»

Di Aldo Cazzullo

ROMA - «Voi non avete la minima idea del suono che fa un obice austriaco da 420». Lui sì. «E' tutto diverso da quello che immaginate». Gli rimbomba nelle orecchie da quasi un secolo. Aveva vent' anni. Ne ha 109. Il decano della Grande Guerra. «Non è come nei film. Il cannone non fa: bum. Troppo distante dalle trincee. Il cannone fa piuttosto un brontolio, un rombo lontano, poi un sibilo sempre più forte, più vicino. Il proiettile sta per arrivare. A volte non esplode subito. Altre volte non esplode mai. E' la lotteria della morte. Un mio amico di Napoli si era sempre salvato proteggendosi dentro un tubo di cemento. Spuntavano solo le gambe. Centrate da una cannonata. E' morto dissanguato». Carlo Orelli è la voce più antica, la memoria più remota della Prima guerra mondiale. Voci che si stanno spegnendo. Restano in Italia poche decine di cavalieri di Vittorio Veneto. Alcuni sono donne, crocerossine della Carnia. Altri sono ragazzi nati nel 1900, che non spararono un colpo. I combattenti non sono che un pugno. Carlo Orelli è l' unico che possa raccontare il 24 maggio 1915 da soldato. «La guerra era un finto segreto. Sapevano tutti che sarebbe stata dichiarata. Io ero di leva, a Capua, in fanteria. Ci portarono a Napoli, e da lì in treno verso il fronte. Terza Armata, brigata Siena, 32° reggimento, 3a compagnia. L' ordine era di avanzare con cautela in territorio austriaco. Sagrado. L'Isonzo. Il Carso. Il nemico si era ritirato. Entravamo nelle case vuote, chi aveva preso le piattole cercava vestiti di ricambio, a volte vestiti da donna. I combattimenti scoppiarono presto. L' avanzata si fermò nell'estate. Cominciarono gli assalti. Il massacro della trincea delle frasche». La sua famiglia ha fatto tutte le guerre d' Italia. Il nonno materno, Tommaso, con i difensori di Perugia, insorta e domata nel 1849 dai mercenari papalini. Il padre Gabriele richiamato per la campagna d' Abissinia. Il fratello maggiore Alfredo combattente nel 1911 in Libia. Il fratello minore Guglielmo chiamato alle armi dal Duce e fatto prigioniero dagli inglesi in Sicilia nel luglio ' 43. A Perugia Carlo Orelli nasce il 23 dicembre 1894. Entra a scuola nell'anno dell' assassinio di Re Umberto. Si trasferisce a Roma nell' anno della guerra russo-giapponese. «La sorella di mia madre aveva una trattoria in via del Viminale. Io ero operaio aggiustatore meccanico, quando mi chiamarono. Nessuno va alla guerra volentieri. Quella però non era una guerra di conquista. Era una guerra patriottica. Nella mia brigata c' erano soldati di ogni parte d' Italia, contadini del Sud che non sapevano né leggere né scrivere, ma non si lamentavano mai. Morivano in silenzio». I più coraggiosi, «i sardagnoli», i sardi. Contro la trincea delle frasche si sgretola il meglio dell' esercito italiano. «Un giorno siamo usciti all' assalto in 330. Siamo tornati in 30. Non so come mai a me non è toccata. La sera prima dell' attacco portavano in prima linea il liquore, ma io non l' ho mai bevuto. Quella roba faceva passare la paura ma toglieva lucidità, dopo ti buttavi avanti urlando "Savoia!", e morivi. Dall' altra parte urlavano "Hurrah!", e morivano. Io avevo un altro modo per darmi coraggio. Non pensare a niente. Svuotare la testa. Non pensare mai alla casa, agli affetti, agli amori. Non scrivevo, anche perché non c' era tempo. Un giorno ho incontrato mio fratello Alfredo, ci siamo salutati, non l' ho più pensato sino alla fine, l' ho rivisto a casa, ferito ma salvo. Dovevo restare lucido per avere un colpo in più del nemico. Il fucile degli austriaci sparava cinque proiettili; il nostro, sei. La vita era legata al sesto proiettile». Quarto piano senza ascensore di una vecchia casa alla Garbatella. Uno degli angoli più appartati di Roma. Carlo Orelli ha il cranio lucido e gli occhi blu. Sorride di rado. I suoi tratti ricordano quelli di Gustavo Rol. «Mi hanno sempre detto che ho gli occhi magnetici. Nessuno in famiglia ha i miei occhi, tranne Angela, la figlia di mio nipote Carlo». Sui mobili ci sono le foto dei sei figli, tutti vivi, da Lia di 83 anni a Lucia di 68, in mezzo Alfredo, Marcella, Liliana e Maria, che oggi gli è al fianco. Nove nipoti, undici pronipoti, tra cui Christian, militare di carriera, che presto lo renderà trisnonno. «Abbiamo fatto tutti la guerra senza amarla, ma anche senza far storie. Attorno alla Grande Guerra c' erano grandi passioni e grandi personaggi, nelle retrovie passava il re sull' auto scoperta, arrivava la notizia del volo di D' Annunzio su Vienna, si annunciava un proclama del comandante della nostra Armata, il Duca d' Aosta, su Cadorna si leggevano poesie. Gli idealisti arrivavano al fronte e il giorno dopo morivano. Nel mio reggimento c' era Filippo Corridoni». Caduto davanti alla trincea delle frasche il 23 ottobre 1915. Una terra maledetta, cui i fanti davano nomi sinistri, Passo della morte, Buca dei bersaglieri, Sassi rossi, e ancora Ridottino dei morti. «Della guerra colpisce che tutto succede di colpo. Un momento dormi, mangi, ridi; un momento dopo non ci sei più. Un mio amico era appoggiato a un muretto. Parlava. E' arrivato il rombo, è arrivato il sibilo. La granata gli ha staccato la testa di netto. Il corpo è rimasto lì, dritto, innaturale». Eppure è con orgoglio che Carlo Orelli parla della sua guerra. Sollecita le domande con il linguaggio del secolo in cui è nato, «seguiti pure a interrogarmi». Se Maria gli chiede di non affaticarsi la manda a fare una commissione, «ma per uscire copriti bene». Non si rifugia in luoghi comuni quando parla degli ufficiali, «i generali non si vedevano, gli altri però morivano come noi. Il fango? Le malattie? Niente, in confronto all' assalto». Usa un' espressione bellissima per definire il rapporto con il nemico, «odio involontario». «Ci sparavamo addosso, eravamo legati alla nostra bandiera, alla nostra divisa, ma non c' era astio ideologico, non c' era volontà di annientamento. Ognuno sapeva che l' altro stava facendo il proprio dovere. Le trincee erano lontane duecento metri ma noi avevamo l' ordine di non sparare: l' accordo tacito era di far tacere i cecchini, di non molestarci nelle pause tra i combattimenti. Quando riuscivamo a conquistare una trincea austriaca la trovavamo piena di sigarette, vino, pure cioccolata; i prigionieri ce la offrivano, noi avevamo la disposizione di rifiutare, si temeva una trappola, un avvelenamento; così si faceva assaggiare la cioccolata a un prigioniero, poi si faceva a mezzo». «Fino a quando non toccò a me. Gli austriaci si erano trincerati nel parco di una tenuta nobiliare. Assalto. Non arrivammo mai ai reticolati. Una mitragliatrice ci prende d' infilata, le mitragliatrici non si vedono mai, si sentono solo, l' artiglieria aggiusta il tiro. Una granata uccide il comandante della compagnia, il tenente Occhipinti, e ferisce molti di noi. Muore il mio migliore amico, Ercolanoni, umbro come me. I compagni continuano a sparare, ma così si fanno individuare dagli austriaci. Ci tirano addosso come al tiro a segno. Il sottotenente sdraiato accanto a me ha una pallottola in fronte. Io ho schegge in tutto il corpo e una ferita di striscio all' orecchio sinistro, un centimetro più in là e sarei spacciato. Mi portano indietro a braccia, in un casolare. Poi all' ospedale da campo, quindi a Bologna, a Perugia. La mia guerra è finita. Il resto è un' idea sfumata di medicine, odori, letti bianchi, convalescenza. Ricordo bene i versi che studiavo a scuola da bambino, non ricordo nulla della malattia. La gamba destra mi fa ancora male. Non è mai guarita». La guerra è una croce di ferro, esposta in una teca, accanto al diploma di cavaliere di Vittorio Veneto con la firma di Saragat e a una vecchia tessera del Psi, ancora con falce e martello. «Sono sempre stato socialista. Nenniano. Avevo orrore per il fascismo. Ma sarei bugiardo se dicessi che sono stato un oppositore. Semplicemente, non ero d' accordo. Non ho mai preso la tessera, non ho mai preso botte. Sono inorridito quando a Roma arrivarono i tedeschi. Ma ero già nonno, cosa potevo fare? Dopo il congedo mi avevano trovato un posto a Gaeta, alla direzione di artiglieria, dove ho conosciuto mia moglie Cecilia. Poi sono tornato a Roma, capotecnico dell' Atac. Ho badato ai miei pensieri, non mi sono mai arrabbiato troppo, ho cercato di avere buoni rapporti con le persone che incontravo. Cecilia se n' è andata nel ' 69. Mi aspetta al Verano». «Dalla guerra non ho avuto alcun vantaggio. L' unica pensione che ricevo è quella dell' Atac. Ma non ho certo combattuto per un vantaggio, per nulla che non fosse il mio Paese. E a Trieste alla fine ci siamo arrivati. Poi il mio Paese pian piano si è dimenticato di noi. Un po' lo capisco, è passato così tanto tempo. Dei miei vecchi fratelli d' arme, di tutti questi ragazzi che vede nella foto della mia compagnia, non è rimasto nessuno. E' cambiato tutto, c' è l' Europa, i nemici sono alleati, in Austria i miei nipoti vanno senza passaporto, a sciare. Vedo però che il presidente Ciampi è attento a queste cose. Lo stimo perché è uno di noi, ha passato quasi tutte le peripezie del secolo, ha combattuto pure lui una guerra, e non lo nasconde. Spero che vorrà ricordarsi anche del 4 novembre, dell' anniversario della vittoria, per cui si è sacrificata la mia generazione». La trincea della frasche fu presa dalla brigata Sassari il 14 novembre 1915. Nei primi sei mesi l' Italia perse 270 mila uomini tra morti e feriti. Oggi non ci sono superstiti, tranne lui. «Ero un uomo molto forte. Avevo una forza incredibile. Adesso non faccio un passo senza Valentina, la signora ucraina che mi guarda. Se Valentina non mi sostiene, crollo. Chissà quanto dura ancora. Qui alla Garbatella non c' è nessuno che ha l' età mia». Nessuno in tutta Europa, forse. Arriva il momento in cui ci si dice: il più vecchio sei tu. Verrà il momento in cui non ci sarà più nessuno a custodire la memoria, e la Grande Guerra sarà solo degli accademici e degli archivisti. Neppure la memoria è un vantaggio. Ci scusi il signor Carlo se abbiamo risvegliato la sua. «Sono io che mi scuso se non ho detto tutto. Ci sono cose che non ricordo. Ci sono cose che non voglio ricordare».


Da La Gazzetta del sud, 6 Novembre 2003

4 NOVEMBRE: IN RICORDO DELLA BRIGATA CATANZARO

di Mario Saccà

Lo scultore Michele Guerrisi avrà pensato alla Brigata Catanzaro nel progettare ed eseguire il monumento ai caduti che sta dinanzi al tribunale inaugurato nel 1933. Quell'unità militare, nata nei primi mesi del 1915 nell'imminenza della prima guerra mondiale, era composta da due reggimenti di fanteria: il 141° che si formò a Catanzaro Marina (deposito del 48° fanteria), sotto il comando del col. Gaetano Perella e il 142° che sorse a Cosenza ( deposito del 19° fanteria); in entrambi erano arruolati, in grande maggioranza, uomini calabresi. Il precipitare degli eventi bellici fu comunicato al 141° Reggimento della Divisione Militare di Catanzaro alle 19,40 del 22 Maggio. Definiti i preparativi il 31 dello stesso mese la Brigata venne passata in rassegna, a Catanzaro Lido, dal suo comandante maggiore generale Ferruccio Mola. Al 24 Maggio la Catanzaro era inquadrata nella 28a divisione del XIV C.d'Armata. La partenza avvenne il 7 Giugno in sintonia con i reparti provenienti da Reggio Calabria. Pochi giorni dopo il reggimento passava a far parte della Terza Armata, che obbediva agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta, la cui tomba è alla testa dei caduti sepolti a Redipuglia. Il diario del 141°, custodito presso l'Ufficio Storico dell'Esercito che ha sede a Roma, narra con estrema puntualità la fase di formazione del reggimento e il ruolo che esso,unitamente al 142° , ebbe nei combattimenti del conflitto mondiale sul fronte più duro, quello del Carso, con una breve parentesi ad Oslavia e sull'Altopiano di Asiago nel momento più alto della Strafexspedition dell'esercito austro ungarico. Su quei terreni, ancora oggi meta di tanti italiani, gli ufficiali, i graduati ed i fanti dalle mostrine rosso nere si batterono con grande valore e lasciarono sul terreno migliaia di morti, feriti, dispersi e prigionieri. La loro combattività era tanto nota che anche gli scrittori militari austriaci ne fanno menzione in alcuni libri che compongono la bibliografia più importante di quell'immane conflitto. Una pubblicazione del 1919 dal titolo "Brigata Catanzaro", custodita nei civici musei di storia ed arte di Trieste, inizia così : " Fanti del Carso, li ricordate i " rossi e i neri" della Catanzaro? 141° e 142°: i numeri sacri della Calabria eroica! Dalle spiagge solatie del mar Jonio, dai villaggi sperduti tra la Sila e l'Aspromonte, dalle città risorte sulle rovine dei terremoti, questi figli della terra che prima ebbe il nome d'Italia, accorsero cantando nei lunghi treni infiorati e imbandierati alla fronte lontana". E prosegue " ma ogni conquista fu battezzata nel loro sangue,ogni cimitero fu popolato dei loro morti e noi tutti, fanti del Carso, che sapevamo con quanta devozione ciascuno di voi recasse quel voto vi ammiravamo, o eroi della Catanzaro". Il 141° ebbe il battesimo del fuoco nell'ultima decade del Luglio 1915 partecipando alla II battaglia dell'Isonzo per dare l'assalto del trincerone di Bosco Cappuccio e del Colletto di S. Martino che riuscì a conquistare con "slancio ammirevole". Il colonnello Adolfo Zamboni che aveva combattuto nel 141°, nella seconda edizione del suo libro voluta nel 1933 dal catanzarese Guido Mauro ( la prima era stata pubblicata a Padova dall'editore Draghi), ricorda i fasti della Brigata Catanzaro e le battaglie successive alle quali prese parte. Il 21 Ottobre 1915 fu schierata per conquistare due munitissimi fortilizi austriaci denominati "Ridottina Rosso" e "Groviglio" ; il reggimento italiano "perdette oltre i due terzi degli effettivi ma, quando ricevette il cambio il 3 Novembre, potè consegnare alla Brigata Regina quel sistema di trincee difese disperatamente dagli austriaci". A Gennaio del 1916 il 141° combattè ad Oslavia riuscendo a difenderla dagli assalti degli avversari. Nel maggio dello stesso anno, nella notte fra il 18 e il 19, iniziò il trasferimento della brigata sull'Altopiano di Asiago e il 25 fu ordinato di recarsi sul Monte Mosciagh. Il colonnello Thermes che comandava l'unità pronuciò un breve discorso "Figlioli, se occorre,sacrificatevi tutti; pensate, se il nemico riuscirà a superare queste ultime resistenze, in poche ore sarà al piano (pianura veneta ndr). Non dovete permettere tanta infamia". Ecco come i soldati della Catanzaro interpretarono le parole del loro comandante "Di fronte all'impeto dei fanti che, pur di avanzare non si spaventavano delle perdite, gli Austriaci si ritirarono lasciandoci padroni della cima del Monte Mosciagh ma senza abbandonare le due batterie da campagna catturate (agli italiani) nel mattino... occorreva riconquistare i nostri pezzi". L'ordine operativo fu emanato nella mattina del 27 Maggio ed affidato al 141° Reggimento della Brigata Catanzaro, mentre il 142° restava alle spalle come rincalzo. L'assalto fu sferrato attorno alle 21 di quel giorno e guidato dal comandante maggiore Corrado che volle restare al suo posto malgrado una ferita al braccio. Il fuoco austriaco fu micidiale, gli italiani avanzavano usando solo la baionetta e dopo tre ore di scontri sanguinosi riuscirono a riprendere i cannoni agli avversari . L'episodio venne conosciuto in tutta Italia e il 141° ne trasse il suo motto "SUL MONTE MOSCIAGH LA BAIONETTA RECUPERO' IL CANNONE". Dopo altri combattimenti sul Cengio la Brigata tornò sul fronte del Carso e nella prima decade di Luglio conquistò la Cima 1 del Monte S.Michele, con perdite gravissime, catturando due interi battaglioni austriaci. Ad Agosto con un altro grande sforzo bellico fu conquistato il Nad Logem. Il riconoscimento al valore della "Catanzaro" venne direttamente dal Re che con "motu proprio" concesse alla bandiera del Reggimento la medaglia d'oro al valore militare "Per l'altissimo valore spiegato nei molti combattimenti intorno al S. Michele, ad Oslavia, sull'altipiano di Asiago, al Nad Logem, per l'audacia mai smentita, per l'impeto aggressivo senza pari, sempre ed ovunque fu di esempio ai valorosi". Altre battaglie sull'Isonzo videro la Brigata confermare la sua combattività fino a meritare il plauso del Comando Supremo e altre citazioni sul bollettino di guerra. Pertecipò così alla conquista di Gorizia e dopo un periodo trascorso nelle retrovie del Piave fu imbarcata sulla nave "Re Umberto" per entrare a Trieste, con le altre truppe vittoriose. In questa città esiste una lapide nella quale la Brigata Catanzaro rende omaggio alla tomba di Guglielmo Oberdan. A Cima 4, sul Monte S. Michele, vi è il piccolo museo della III Armata: nella parete di fronte all'ingresso è esposta la fotografia di un catanzarese il cap. Ettore Vitale. La bandiera della Brigata Catanzaro è tra le altre bandiere conservate nell'Altare della Patria a Roma. Il colonnello Basilio Di Martino, ha scritto un intero libro su di essa, edito nel 2002 e tratto dal diario di guerra della Brigata, illustrando anche un episodio di decimazione di alcuni suoi componenti per via di un episodio allora individuato come atto di ribellione, ma dovuto, nella realtà, alla confusione esistente nel comando. La storia ricorda il grande tributo che il 141° e il 142° diedero nella Grande Guerra che va ricordato perchè quella storia non fu vana : ancora oggi, pur nella diversità dei tempi, segna il senso di essere cittadini di questo Paese. Concludo con alcune parole contenute nella lettera che Emanuele Filiberto di Savoia il 29 Marzo 1929 inviò al col. Zamboni, autore del libro già citato: "L'omaggio devoto della fervida rievocazione : "DELLE GESTA COMPIUTE DAL 141° REGGIMENTO FANTERIA NELLA GRANDE GUERRA", mi è giunto assai caro, perchè ho sempre nel cuore questa magnifica legione di prodi che dalla terra di Calabria trasse la tenacia e l'anima pugnace...Inchinandomi alla Bandiera del 141° Reggimento Fanteria - medaglia d'oro - che nel trionfo delle armi d'Italia agitò le sue glorie nel sole di Trieste - meta di luce per i fieri combattenti della mia Terza Armata - ricontemplo il sacrificio degli Eroi noti ed oscuri che per virtù d'amore eternamente vivranno nel culto della Patria."

  • BRIGATA CATANZARO - 141° REGGIMENTO FANTERIA (Milano, Bestetti e Tumminelli 1920) storia della brigata pluridecorata con episodi di guerra vissuti anche sull'altopiano di Asiago.

  • Zamboni Adolfo, IL 141° REGGIMENTO FANTERIA NELLA GRANDE GUERRA (Padova, Draghi 1929) ancora sulla brigata Catanzaro

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Da Il Domani - Calabria, 19 Novembre 2003

La storia de La Brigata Catanzaro il reparto italiano formato da soldati calabresi tanto coraggiosi da meritare due medaglie d'oro al Valor Militare

Eroi dalla testa dura

Preferivano ammutinarsi piuttosto che arrendersi

di Bruno Gemelli

Il 4 novembre scorso, in occasione della festa delle Forze Armate, la Rai ha trasmesso in prima serata un documentario per ricordare le varie fasi della prima guerra mondiale, 1915-1918. Attraverso immagini accompagnate da una voce narrante è stat ricordata la grande tragedia del novecento, la cosidetta vittoria mutilata che contò ben seicentomila morti. Tra i tanti episodi del conflitto segnalati dalla trasmissione c'è stato, sibillino, un riferimento all'ammutinamento della "Brigata Catanzaro" che si sarebbe consumato secondo lo storico Pieri Pieri il 15 luglio 1917. Sentendo quell'espressione alcuni telespettatori che masticano un po' di storia si sono chiesti : ma la "Brigata Catanzaro" non fu il reparto italiano più coraggioso tanto da meritarsi due medaglie al valor militare? E non è forse vero che la bandiera di combattimento della "Brigata Catanzaro" sia sempre esposta nel Sacrario del Vittoriano a Roma? Gli austriaci, nostri nemici in guerra, provarono sempre grande ammirazione per gli assalti alla baionetta dei fanti calabresi. In realtà quello che la storiografia liquida come ammuttinamento, con un po' di residuo retorico d'annunziano, in realtà furono episodi di ribellione dovuti al caos che pervase gli alti comandi militari che si trovarono spiazzati davanti al coraggio dei fanti calabresi che, andando incontro alla morte, certamente non arretravano di un millimetro di fronte alle ottusità di taluni comandanti. Furono, quelli, eroi dalla testa dura che oggi vanno rivalutati come dimostrano i recenti studi di Mario Saccà, ricercatore di storia patria catanzarese. Nel 1999 la compagnia "Krypton" presentò al Teatro Valle di Roma un lavoro di Francesco Suriano, "Rocco u' stortu", che è la storia di un bracciante calabrese che partecipa come fante di prima linea della "Brigata Catanzaro" sul fronte del Carso e poi viene fucilato per rivolta e insubordinazione a Santa Maria la Longa. C'è, dunque, tutta un'epopea che va rivisitata per ridare l'onore a quei soldati che furono decimati nonostante il loro sangue venisse copiosamente versato sulle trincee. " Nomen omen", nel nome il destino. La "Brigata Catanzaro", il cui motto era "Per la Patria", nacque il 1 marzo 1915 e fu sciolta nell'isola di Pantelleria il 27 maggio del 1995. La brigata gemella, la "Sassari", è ancora attiva tant'è che alcuni suoi uomini sono morti nella recentissima strage di Nassrya. La "Brigata Catanzaro" era composta da due reggimenti di fanteria, il 141° di stanza a Catanzaro Marina e il 142° di stanza a Cosenza, i soldati erano quasi tutti calabresi, conosciuti negli ambienti militari del tempo con l'appellativo " i rossi e i neri" per via delle mostrine che erano appunto rosso-nero. Uno dei suoi giovani ufficiali, Adolfo Zamboni, sottotenente di complemento nel 141° reggimento fanteria della "Brigata Catanzaro" scrisse un libro, edito da Guido Mauro di Catanzaro, per ricordare i fasti e le glorie di quelle battaglie, "Sul Monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone" recita il frontespizio del volume. La città capoluogo ha storicizzato quegli eventi affidando il ricordo perenne al monumento ai caduti che sorge davanti alla Corte d'Appello: esso fu realizzato, nel 1933 da Michele Guerrisi, uno scultore di Cittanova (Rc) che, nel fare il bozzetto, pare si sia ispirato alle eroiche gesta dei fanti calabresi. L'opera, tuttavia, è mancante di un pezzo, infatti nell'angolo posteriore destro della piattaforma che rievoca l'assalto c'era la statua di una donna piangente che rappresentava tutte le mamme dei caduti. Non si sa che fine abbia fatto questa scultura bronzea: la vulgata più diffusa sostiene che essa fu danneggiata durante la seconda guerra ondiale e , quindi, riposta in uno scantinato di un ufficio pubblico, lasciandola così al saccheggio degli ignoti che sembra l'abbiano fatta a pezzi e poi venduta come vile metallo. Ma la cosa più strana è un'altra: il libro "Cara Catanzaro" di Beppe Mazzocca e Antonio Panzanella (Rubettino editore, pag 478, 1987) mostra due foto del monumento ai caduti scattate entrambi nel 1935. In una, la donna è posizionata guardando avanti, nella direzione dell'azione, nell'altra, guarda dalla parte del tribunale. Quale fu il motivo della rotazione? Non è dato sapere, sono state fatte al riguardo delle illazioni ma che lascerebbero il tempo che trovano. Da queste colonne lanciamo un appello affinchè venga ricostruito questo dettaglio storico. Non era Cicerone che diceva che la memoria va esercitata?

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Cerimonia in onore dei Caduti nel Cimitero Militare Italiano di Hartkirchen(Austria).

Ricordato il tragico sacrificio del Cap. degli Alpini Enea Guarneri.

( Intervista di Mario Paccher. Articolo gentilmente concesso da M. Eichta )

Venerdì 6 dicembre 2002, nell’ambito delle manifestazioni di contorno previste dal Congresso della Croce Nera Austriaca a Linz, si è tenuta ad Hartkirchen, cittadina a 25 km. da Linz, una commovente cerimonia internazionale a ricordo dei soldati che furono lì sepolti. Durante la Grande Guerra si trovava nel paese limitrofo di Aschach an der Donau, nei pressi del Danubio, un vasto campo di prigionia per soldati russi, serbi e italiani. Tutti i soldati, che vi morirono durante la prigionia, vennero sepolti del Cimitero Militare appositamente predisposto dalle autorità militari austro-ungariche nel territorio del comune confinante di Hartkirchen. Mario Eichta, ideatore degli Incontri italo-austriaci della pace a ricordo dei caduti e delle vittime civili della Grande Guerra ed instancabile sostenitore che la comune tragedia della guerra debba contribuire ad unire i popoli un tempo nemici, ha avuto una ancora una volta una grande idea. Egli era venuto a conoscenza, tramite le vicende di prigionia del Ten. Leone Periz, di cui Eichta ebbe modo di scrivere nel suo ultimo libro, della tragica fine del Cap. degli Alpini Enea Guarneri, nato a Passirano, in Provincia di Brescia. Il Cap. Guarneri aveva progettato e stava concretizzando la fuga dal quel campo di prigionia. Il terreno improvvisamente crollò e travolse il povero Capitano che morì per soffocamento.

Le imperial-regie autorità militari del campo si mobilitarono e si sforzarono encomiabilmente nel tentativo di salvare l’Ufficiale italiano. Il Capitano Enea Guarneri aveva ventiquattro anni! Ogni tentativo risultò inutile! Al Cap. Guarneri le autorità militari austro-ungariche riservarono gli onori militari! Per il suo eroico impegno al fronte in tempo di guerra venne poi decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Eichta convinse il Col. Friedrich Schuster, Presidente della Croce Nera dell’Alta Austria, a svolgere proprio lì la cerimonia di contorno che si doveva tradizionalmente tenere il giorno prima del congresso. Nel contempo cercò tramite internet e poi contattò personalmente i parenti del Cap. Guarneri ed il Sindaco ed il Gruppo Alpini di Passirano. Il 6 dicembre erano tutti presenti ad Hartkirchen ed hanno onorato nel settore italiano del Cimitero Militare, insieme alle numerose ed importanti autorità civili, militari e religiose austriache convenute, tutti i soldati lì sepolti e la memoria del Cap. degli Alpini Enea Guarneri. Erano presenti per la prima volta dopo più di ottant’anni il nipote del Capitano Guarneri che porta lo stesso nome, il Dott. Enea Guarneri con tutta la Sua famiglia, il Sindaco di Passirano rag. Angelo Zinelli ed una folta rappresentanza di Alpini dì Passirano con il loro Capo Gruppo Franco Pagnoni ed il labaro Sezionale. Erano pure presenti tra gli altri il Presidente della Sezione ANA di Feltre cav. Renzo Centa, il Consigliere della Sezione ANA di Trento cav. Giovanni Bernardelli, l’ex Vicepresidente Nazionale ANA geom. Carlo Balestra, il Sindaco di Feltre Alberto Brambilla e il rappresentante di Onorcaduti Ten. Col. Gianvito Mastroleo, accompagnato dal Maresciallo Primo d’Agostino. Impeccabile come sempre l’organizzazione curata da Schuster e da Eichta con la preziosa collaborazione del Col. Alexander Barthou del Comando Militare Austriaco.

Mario Eichta ha fatto sapere con l’occasione che incontrerà tutti i presenti, e con grande piacere, all’Incontro italo-austriaco che organizza quest’anno domenica 18 maggio 2003, nel Cimitero Militare di San Michele al Tagliamento(Prov. di Venezia). Nello stesso giorno poi sono state consegnate dal Col. Schuster alcune importanti onorificenze al merito della Croce Nera Austriaca, tra cui la Croce Nera di II° grado al Cav. Ottorino Brunello, entusiasta ed instancabile Presidente dell’Associazione IV Novembre-Ricercatori Storici. Il Col. Schuster ha voluto insignire di onorificenza, per il grande impegno profuso in tanti anni accanto al dinamico marito cav. Ottorino, anche la gentile Signora Teresa Brunello.

Il Congresso del giorno successivo è stato come sempre molto interessante ed ha visto, come unico intervento ufficiale da parte italiana, quello bilingue e significativo di Mario Eichta.


Da L’Eco di Bergamo, Sabato 9 settembre 2000

Le testimonianze della Guerra Bianca

di Claudio De Cobelli

Cresce l’interesse per i numerosi oggetti che ancora sono racchiusi nei ghiacciai, dall’Adamello alla Marmolada.

Una nuova forma di escursionismo sui percorsi tracciati un tempo dagli alpini.

Ai due inverni, quello del 1915 sul ’16 e quello successivo, durante i quali, sulle Alpi, truppe italiane, austriache e tedesche si sfidarono nelle epiche lotte della Guerra Bianca, spettano tre record metereologici: l’Istituto Centrale Meteorologico Svizzero, sito ai 2.100 metri del San Gottardo, segnala che mai, dal 1847 ad oggi, si sono verificate coincidenze atmosferiche tali (quanto ad altezza della neve: 6,70 metri il 31 marzo 1916; quanto ad inizio della neve stabile: il 21 settembre del 1915; quanto a scomparsa definitiva della neve: il 21 luglio del 1916), da non consentire ad esseri umani “normali” sufficienti margini di sopravvivenza. Eppure lassù decine di migliaia di uomini, normali, ci vissero, e combatterono; lassù costruirono rifugi e teleferiche, aprirono nuove vie alpinistiche, tracciarono sentieri e ferrate, lassù trasportarono pezzi da montagna e legname per baracche, aprirono gallerie per le mine e caverne per il riparo. Ma soprattutto lassù vissero, cioè dormirono, mangiarono, si vestirono e molti morirono, trascinati a valle da una valanga od uccisi da pallottole di fucili cecchini o bombe di bombardamenti a tappeto. Qualcosa vi lasciarono ed oggi, anche grazie alla nefasta ritirata dei ghiacciai, sulla Marmolada, sull’Ortles, sull’Adamello, è possibile rinvenire, negli anfratti delle rocce, nei crepacci improvvisamente aperti, o lungo i comodi sentieri spesso ben riadattati, gli oggetti della vita quotidiana dei combattenti: palle di shrapnel inesplose, reticolati e fili spinati, baionette e racchette da neve, ma anche gavette arrugginite, stracci di capi d’abbigliamento, lembi di lettere alla famiglia. Tutto l’arco alpino centro-orientale, dalle vette del Cevedale e del Gran Zebrù sino alle Alpi Carniche fra Friuli e Slovenia, offre ad ogni tipo di escursionismo l’occasione per visitare i luoghi in cui si verificarono gli eventi bellici. Per il turista abituato a gite tranquille, le salite all’Altopiano di Asiago ed all’antistante Gruppo del Grappa offrono l’occasione di imbattersi in vaste trincee, fortini semidiroccati, strutture di difesa e d’offesa che ospitarono, in due distinte fasi della Guerra (la Strafexpedition del marzo 1916, voluta dal Generale Conrad per allentare la pressione italiana sul Carso e la resistenza italiana dell’inverno 1917 dopo Caporetto) centinaia di migliaia di soldati, di qualunque arma e nazionalità. Se adeguatamente attrezzati, è possibile seguire il tracciato dei percorsi di guerra in parete, le vie aperte dalle pattuglie d’assalto per la conquista di picchi giudicati inaccessibili, come sulla Via Ferrata Lipella in Tofana, o sul sentiero degli Alpini in Croda Rossa di Sesto, ed imbattersi in testimonianze della guerra. Per i cultori della materia, sono stati allestiti veri e propri musei all’aperto, tangibili testimonianze degli eroismi dei combattenti, quali quello sulla Cengia Martini, sulla parete Sud del Lagazuoi, o quello su Cima Serauta, nel complesso della Marmolada. Insieme ai “resti” e grazie ad essi, l’escursionista attento scopre che ad essi sono legati valori che altrove sembra siano spariti: la memoria, la solidarietà, il sacrificio, l’onestà. Valori che sono lì, a portata di mano: i soldati li hanno affidati, ottantacinque anni fa, alla montagna, affinché lei li proteggesse, li conservasse e li tramandasse. Coglierli, per farli propri e tenerseli ben stretti, è opportunità che la montagna offre. Ad una condizione: il rispetto. Occorre ricordare che ciascun oggetto, gavetta, bomba, baracca, teleferica, trincea od elmetto che sia, ha vistola vita del soldato che ha nutrito, che ha ucciso, che ha ospitato, che ha trasportato, che ha protetto: ha visto il suo sacrificio, la sua stanchezza, la sua disperazione, la sua paura, la sua nostalgia, il suo freddo: gli è appartenuta, con lui ha condiviso tre anni di vita. Rispettiamo, non portiamo via, non rubiamo alla montagna. Oggi è dato imbattersi in vere e proprie comitive di sciacalli, spesso tedeschi ma anche italiani, che si definiscono “recuperanti”. Con questo termine si identificarono subito dopo la guerra coloro che, militari e non, si diedero da fare, per interessi privati o per amore della montagna, a ripulire le Alpi da quanto lasciatovi, dagli italiani in fuga dopo Caporetto e dagli imperiali inseguitori. Ora, ad ottantacinque anni di distanza, i loro nipotini salgono le cime, perlustrano le grotte, cercano nei crepacci, armati di mountain bike, con le quali confrontano i loro muscoli d’acciaio, e di lattine di Coca Cola, che regolarmente dimenticano. Ogni ritrovamento è una festa: alle cime vengono sottratti i diari di vetta, nelle grotte vengono trovati reticolati e piccoli depositi di esplosivo, dai crepacci aperti dall’effetto serra vengono asportati (e questa è la preda preferita) cappotti, mantelle e scarponi ancora avvolti intorno al loro proprietario. Rispetto. E qualche consiglio. Anzitutto è necessario documentarsi. Quindi leggere i numerosi testi sull’argomento: studiare le mappe militari e le cartine turistiche, ascoltare le indicazioni di chi quei luoghi conosce; affidarsi alla guida di esperti montanari. Ha più senso, se si sale al Matajur, oggi in Slovenia, davanti a Caporetto, sapere che sul fianco destro di quel monte che evoca disastri e rovine si distinse, per eroismo e ferocia, l’allora tenente dei reparti speciali da montagna del Wurttenberg Erwin Rommel, la futura volpe del deserto. Qualcosa in più si capisce, nella visita alla galleria di mina del Castelletto, sul fianco della Tofana Prima, se si conosce la storia di quella terribile mina, che utilizzò un quarto della produzione annua italiana di esplosivo, fece saltare in aria 6.000 tonnellate di montagna e disintegrò la vita di 220 Kaiserjaeger austriaci. Ancor più comprende, l’escursionista che sale al Presena, se ha letto che nella sera di Natale del 1916 due pattuglie, una italiana e una austriaca, composte da sette intirizziti e tristi soldati, si scambiarono doni: pane, per gli italiani, tabacco, per gli austriaci. Ed i valori si colgono, se ad essi l’alpinista aggiunge il silenzio, il rispetto, la pietas che la memoria reclama.

Articolo gentilmente concesso da www.alpiniazzano.com/Storica/GuerraBianca.htm


Da L'Eco di Bergamo, Sabato 27 ottobre 2001

Sull'Ortles vino e tabacco per gli austriaci

di Claudio De Cobelli

Ad avviare lo scambio gli alpini bergamaschi dopo un capodanno festeggiato col nemico sulla Cima Trafoi.

Nelle pause della terribile Guerra Bianca anche episodi di solidarietà.

Gruppo dell'Ortles, 14 ottobre 1918: mancano tre settimane al termine della prima guerra mondiale, ma su queste cime nessuno ancora lo può immaginare. Quassù, fra i 3.600 ed i 3.900 metri d'altezza, non arrivano né i passaparola né i “si dice”. Nulla immaginano gli osservatori d'artiglieria italiani, appollaiati da mesi sulla cresta della Thurwieser Spitze, tanto sottile da sembrare una lama. Nulla immaginano i Kaiserjaeger austriaci, dentro la grotta di ghiaccio in cima al San Matteo da loro appena riconquistato. Nulla immaginano, mentre affrontano le pareti vetrate della Koenigsspitze (Gran Zebrù), le due corvée d'appoggio ai nidi d'aquila italiano ed austriaco, abbarbicati sulla cima a trenta metri di distanza l'uno dall'altro. Sono le 14, da qualche ora l'aria è stranamente afosa, molle, immobile; la temperatura elevatissima, tanto che il vetrato che ricopre la parete inizia a sciogliersi; il cielo è del colore e del peso del piombo, ed i membri delle corvée faticano più del solito, il loro respiro è affannoso, le gambe deboli. Improvvisamente fucili, corde ferrate, elmetti, proiettili, scarponi chiodati e ramponi, gavette e posate, tutto quanto vi è di metallico, viene percorso da una terribile scarica elettrica. I capelli si rizzano in testa, soldati vengono sbalzati giù dalla parete, le bombe ed i proiettili esplodono. Dal fondo della Val Zebrù, preceduto da un terribile boato, si leva un vento fortissimo che travolge tutto. Si scatena l'uragano. Duemila fulmini e raffiche a duecento chilometri l'ora spazzano per quaranta minuti la montagna e tutto quello che vi si trova: le baracche di presidio sulle cime volano negli abissi, i fili del telefono sono percorsi da micidiali scariche di corrente elettrica, esplodono il deposito munizioni austriaco sul retro dell'Ortles e quello dei razzi segnalatori italiani sulla cima della Trafoier Eiswand; dal passo del Cevedale partono due slavine di ghiaccio e roccia che si abbattono su Solda, radendo al suolo il Centro comando austriaco; la Capanna Milano, sede del Comando Gruppo Arditi della Val Zebrù, prende fuoco. Su queste montagne i soldati dovettero fare i conti con il più temibile dei nemici: il freddo polare, l'enorme quantità di neve, i ghiacciai sempre battuti dal vento, l'elevata altitudine e le continue slavine. Un ambiente che rese quasi impossibile la sopravvivenza. Fu una guerra di pattuglie, di scalatori e montanari, e non mancarono all'appello i bergamaschi. Infatti, su questo fronte di guerra, a fianco di noti personaggi come i milanesi Viola e Bertarelli (poi fondatore dell'Associazione Nazionale Alpini), i valtellinesi Compagnoni e Tuana Franguel (prima guida della leggendaria pattuglia guide ardite della Val Zebrù), il mantovano Arnaldo Berni (il capitano sepolto dal ghiaccio), stanno nomi storici della nostra terra; il capitano Nino Calvi, straordinario organizzatore è guida dei primi reparti “skyatori”; Giacomo Pesenti, che quasi da solo scacciò il presidio austriaco dalla vetta della Cima Trafoi; Renzo Cortinovis, membro della colonna Venturini nell'assalto al San Matteo; Ubaldo Riva, volontario di guerra e poi famoso avvocato; e soprattutto Carlo Locatelli, fratello di Antonio, del quale è impossibile enumerare tutte le imprese: fra le altre, guidò la conquista della Punta Thurwieser e l'assalto al Passo Cevedale; occupò in solitudine l'anticima del Gran Zebrù; attrezzò la parete verticale del Grosse Eiskogeln, e soprattutto visse da solo, isolato per quattro mesi in cima al mondo in una tenda all'Ortlerpass, vera spina nel fianco delle retrovie austriache. Di due bergamaschi meno noti, ma valorosi quanto il Locatelli, vale la pena di ricordare due episodi. Giacomo Perico, tenente, attendente del capitano Berni durante la tragica difesa del San Matteo, aveva nei mesi precedenti partecipato alle imprese sullo Scorluzzo ed il Cristallo. Il pomeriggio del 31 dicembre 1917, alle esterefatte pattuglie italiane che, quasi assiderate, presidiavano la Cima Trafoi, apparve, durante una bufera di neve, la visione di un fantasma carico di doni: questi altri non era che il Perico, il quale aveva voluto rinunciare alla licenza natalizia per trascorrere il Capodanno insieme ai suoi soldati. Scrostatosi il ghiaccio di dosso e abbandonato lo zaino colmo di viveri, e soprattutto vino, proseguì verso la trincea nemica, dove invitò una pattuglia austriaca a partecipare ai festeggiamenti. Venne acceso un fuoco, vennero scambiati doni e pane in cambio di tabacco. Ancora oggi, se da quelle parti balugina un fuoco notturno, la gente del posto pensa sia il Perico, che sfidò con quel gesto le artiglierie di ambo le parti, dando uno schiaffo alla guerra e a tutto quello che essa rappresenta. Vincenzo Gazzaniga, membro di spicco delle guide ardite della Val Zebrù, amico della guida Nino dell'Andrino, di Chiesa Valmalenco, si distinse nell'occupazione della Punta Thurwieser e soprattutto nell'assalto al San Matteo, con la colonna Venturi, durante il quale giunse per primo in vetta al Monte Mantello e forse anche al San Matteo stesso. Eroe di guerra. Nel giugno del 1917 Vincenzo Gazzaniga presidiava la vetta del Cristallo, agli ordini dell'allora tenente Berni. Le postazioni italiana ed austriaca erano divise da una sottile cresta di ghiaccio, lunga un centinaio di metri e larga non più di mezzo. Lungo questa cresta, a 3.500 metri di quota, da due mesi fioriva fra italiani ed austriaci, organizzato dai due bergamaschi, un amichevole scambio di viveri e soprattutto di vino e tabacco. Le scorte di vino calavano paurosamente, cosicché venne organizzato un controllo da parte di una pattuglia dei carabinieri. Giacomo Perico e il collega austriaco vennero colti sul fatto e quest'ultimo fu fatto prigioniero ed ammanettato. Da una buca nel ghiaccio sbucò allora improvvisamente Vincenzo Gazzaniga, il quale, fucile puntato, ordinò di lasciar libero l'austriaco, perché quello “era l'accordo”, disse e aggiunse: “Chi non rispetta gli accordi è meglio che scivoli giù dal canalone”, indicando ai carabinieri l'abisso. Si accomiatò dall'austriaco con un abbraccio.

Articolo gentilmente concesso da www.alpiniazzano.com/Storica/GuerraBianca.htm


Da La Repubblica 22 agosto 2004

Sono a testa in giù, nelle loro divise, a 3640 metri d'altezza. Combatterono la battaglia di Punta San Matteo nel 1918

Il ghiacciaio dei soldati-mummia, Corpi intatti dopo 86 anni

Il direttore del museo che li ha individuati: sembravano rocce: I militari saranno sepolti nell'ossario del Tonale

di Roberto Bianchin

PEJO (Trento) - Dormono appesi, a testa in giù, come pipistrelli, le gambe incastrate nel ghiaccio, la testa fuori, le mani penzoloni. Dormono stretti, uno accanto all'altro, su una parete alta, ripida e dritta come un muro senza fine, a 3.640 metri d'altezza. Sono ancora infilati nei brandelli delle loro divise, uno porta ancora addosso un cinturone di cuoio, un altro ha vicino una borraccia verde, di ferro. Sono tre soldati austriaci del terzo reggimento dei Kaiser Schutzen, una compagnia d'alta montagna che ha combattuto su queste cime durante la prima guerra mondiale. Sono morti il 3 settembre del 1918, nel corso della battaglia, vittoriosa per gli austriaci, di Punta San Matteo. I loro corpi, mummificati, li ha restituiti, 86 anni dopo, il ghiacciaio che si ritira. E' la prima volta che dei corpi di soldati caduti vengono rinvenuti interi. Gli uomini del soccorso alpino di Peio tenteranno oggi con l'elicottero, se il tempo sarà buono, di recuperarli. Poi avranno una sepoltura cristiana nell'ossario militare del passo del Tonale. La scoperta, subito comunicata alle autorità austriache e ai circoli militari di Innsbruck che tengono vivo il ricordo della battaglia del San Matteo come una pagina di "orgoglio alpinistico militare tirolese", si deve a un uomo che da vent'anni cammina su e giù per il ghiacciaio in cerca delle tracce lasciate dalla storia. "Per non dimenticare - dice - e per rispetto di chi è caduto, indipendentemente da che parte stava, per difendere i propri confini". L'uomo è ruvido e forte, di poche parole, ha il passo di uno stambecco e lo sguardo di un'aquila. Magro, bruno, la pelle segnata dal sole, si chiama Maurizio Vicenzi, ha 42 anni ed è sposato, di mestiere lavora negli impianti a fune della valle, è un volontario del soccorso alpino, ma per passione fa il "recuperante". Raccoglie tutto quello che trova, quello che il ghiacciaio sputa fuori, d'estate, quando piano piano un po' si scioglie, si riduce, qualche metro quando fa più caldo, a volte solo qualche centimetro. Quello che ha trovato, insieme a un pugno di amici con lo stesso pallino, lo ha raccolto in un piccolo museo della grande guerra che ha aperto a Peio, in una casetta, l'anno scorso, e di cui è il direttore. Fucili, mitragliatrici, bombe, pistole, munizioni, sciabole, scarpe, guanti, cappelli, vestiti, ma anche piatti, forchette, coltelli, occhiali, pipe, calamai, borracce, badili. I soldati austriaci li ha trovati venerdì. Era tanto che sognava una scoperta così, finora aveva trovato solo ossa spezzate. Ma sapeva che lassù, sotto i ghiacci del gruppo Ortles-Cevedale, dove nel '15-'18 si combatté una delle guerre più lunghe e più folli tra gli austriaci e gli italiani, dentro un freddo cane, sopra i tremila metri, su un fronte lungo cinquanta chilometri, dovevano essere rimasti a dormire dei soldati per tutti questi anni. Perciò come fa spesso, tutte le settimane, è partito presto l'altro giorno, alle sei del mattino, e ha camminato da solo, per cinque ore, verso il ghiacciaio "Dei Forni", uno dei più grandi d'Europa, sulla catena delle "13 Cime" del gruppo dell'Ortles. E' il luogo dove giacciono "color che da opposte sponde per un pugno di sassi hanno pagato la lor vita", come dice una poesia di Sergio Brighenti. Il tempo era un po' incerto, il cielo tappezzato di nuvole grigie. La sorpresa, insieme a un raggio di sole pallido, alle undici del mattino, sotto al Pizgiumel, una delle tredici cime, a 3.640 metri d'altezza. Ramponi ai piedi e racchette in mano, Vicenzi cammina lento, prudente ma sicuro ("è sempre pericoloso"), su un crinale del ghiacciaio, non molto lontano dal vecchio confine austriaco. All'improvviso "sente" qualcosa, come un presentimento. Si allontana dalla "traccia" del crinale e si sporge giù, verso una pendenza che porta a una parete ripida, di ghiaccio, a strapiombo. E' qui, una ventina di metri più sotto, che scorge, sul manto candido del ghiaccio, come una macchia scura. "Sembrava una roccia". Prende il binocolo. Altro che roccia. La prima immagine che gli arriva agli occhi è una mano. "Orco...!". Una mano scura, mummificata, chiusa quasi a pugno, che spunta da un grumo di stracci scuri che sembrano vestiti. L'ha trovato, finalmente l'ha trovato. Il cuore gli batte forte. Decide di scendere lungo la parete ghiacciata. All'indietro, a piccoli passi, con molta attenzione, lentamente, infilando i ramponi nel ghiaccio con colpi secchi e decisi e aiutandosi con le racchette. Dopo una decina di minuti è sul posto, e vede che non c'è solo un soldato ancora mezzo sepolto. Sono tre, tutti austriaci, li riconosce dai brandelli delle divise. Sono appesi, a testa in giù, come se fossero i vestiti a trattenerli, fuori dal ghiaccio si vedono nitidamente due teschi, le schiene, sei mani dalla pelle rinsecchita, come mummificata, e il collo e lo scheletro di un terzo che non ha più la testa. Dentro al ghiaccio, le gambe. Sono ammassati, uno addosso all'altro, come se fossero stati sepolti dai compagni dopo la morte in battaglia. Il "recuperante" è sicuro, sono morti il 3 settembre del '18 nella battaglia di Punta San Matteo (m.3.684), uno dei punti strategici di quella impossibile guerra tra le nevi eterne, quando gli austriaci, in un giorno di nebbia fitta, riconquistarono la cima e il monte Mantello (m.3.537), che avevano perduto, ad opera degli italiani del "Battaglione Skyatori Ortler", meno di un mese prima, il 13 agosto. L'attacco austriaco fu violentissimo, ricorda lo storico Tullio Urangia Tazzoli, con un potente fuoco di artiglieria e lancio di gas asfissianti durato tre ore. Le nostre difese furono completamente distrutte, le gallerie di ghiaccio scavate dai soldati crollarono, e le perdite furono gravissime. "La situazione è terribile - raccontò il tenente Alfredo Egizi, che rimase ferito nella battaglia - la pioggia dei blocchi di ghiaccio continua, ogni proiettile di artiglieria è un tratto di galleria che crolla, un nuovo sepolcro... ". Ma anche la vittoria austriaca fu effimera. Solo due mesi dopo "la travolgente nostra avanzata vittoriosa riconsacrava, per sempre italiane, le due vette testimoni di tanti eroismi". Rimasero a migliaia, di una parte e dell'altra, a dormire sotto quei ghiacci eterni. Ai tre austriaci svegliati dal ghiacciaio adesso sperano di poter dare anche un nome.


Da L'Adige, 22 agosto 2004

Avranno un nome i soldati trovati a Pejo, le operazioni di recupero rinviate per il maltempo

sono stati uccisi durante la riconquista di punta san Matteo, il 3 settembre 1918

Quella mattina del 3 settembre 1918 erano stanchi, i kaiserschützen della compagnia di alta montagna del terzo reggimento. avevano marciato tutta la notte, erano saliti da dimaro per andare a farsi ammazzare a punta san matteo. la compagnia fu il primo reparto lanciato all´attacco per riconquistare la cima presa dagli italiani. l´artiglieria non ebbe pietà di loro. Caddero subito in undici. i cadaveri restituiti l´altro ieri dal ghiaccio a quota 3596, nella zona di piz giumela, appartengono a quattro di questi soldati caduti nella prima ondata dell´attacco. Il direttore del museo della guerra di Pejo, Maurizio Vicenzi, l´uomo che ha trovato i resti degli austriaci, ha già fatto una ricostruzione storica di quanto può essere accaduto sul ghiacciaio. Ha contattato uno storico che, in base al luogo del ritrovamento, è stato in grado di individuare il reparto cui appartenevano i quattro soldati ritrovati. La settimana prossima quei poveri resti potranno avere anche un nome. Gli archivi di Merano, infatti, conservano i dati degli undici caduti in quell´attacco. Si potrebbe giungere a individuarli con buona approssimazione. Quattro vite stroncate dalle follia della guerra 86 anni fa, adesso potranno essere ricostruite. Iresti avvolti in quel sudario di ghiaccio potranno trovare finalmente pace. Dovranno, però, aspettare ancora un po´ di tempo. Le operazioni di recupero delle salme previste per ieri sono state rinviate a oggi a causa del cattivo tempo. L´elicottero non è partito da trento perché per tutta la mattinata sulla zona nevicava e il cielo era coperto. quando il cielo si è aperto, nel primo pomeriggio, era ormai troppo tardi. gli uomini del soccorso alpino di pejo hanno però tentato ugualmente. Verso le due del pomeriggio sono saliti fino a quota 2400 per vedere se era possibile far arrivare fin lassù l´elicottero. Ogni tentativo è stato vano, anche in quota le condizioni non erano favorevoli, così gli uomini del soccorso alpino sono dovuti tornare alla base. La squadra guidata da Vicenzi è formata da otto uomini ed è attrezzata per ogni evenienza. Questa mattina la partenza è prevista alle sette. la squadra aspetterà l´elicottero, ma se non sarà possibile arrivare in cima in volo, gli uomini sono pronti a salire a piedi. Con tutta l´attrezzatura, cioè compressori, pale e altre apparecchiature, per l´ascesa potrebbero servire quattro ore e mezzo. Altrettante dovrebbero servire per scendere con i quattro cadaveri mummificati. Alla fine, comunque, i quattro corpi dovrebbero arrivare nella cappella mortuaria di Pejo. Ieri la cappella è stata preparata da Vicenzi e dagli altri uomini del soccorso. E' tutto pronto per l´arrivo dei quattro soldati. Adesso si deve aspettare la loro destinazione finale. Vicenzi ha già contattato i volontari della schwarzes kreuz, la croce nera, ovvero l´organizzazione che provvede alla cura dei cimiteri di guerra austriaci. Ancora non è chiaro, però, se i resti dei quattro soldati dovranno finire all´ossario del Tonale oppure dovranno essere sepolti nel cimitero del comune in cui sono stati ritrovati, quindi Pejo. In attesa di una soluzione, gli storici locali si sono messi al lavoro per dare un nome ai quattro ed, eventualmente, fare in modo che le famiglie siano informate del ritrovamento dei resti. Non è escluso che vicino ai quattro corpi si trovino anche le spoglie degli altri sette soldati della terza compagnia uccisi quella mattina.


Da L'Adige, 25 agosto2004

«Il loro volto sia monito per la pace» Tanta gente attorno alle bare per l´ultimo abbraccio ai soldati

Ex combattenti provenienti anche dall´Austria alla cerimonia funebre di Pejo. Don Turrini ha ricordato la tragica morte e il dolore delle famiglie dei caduti

di Maria Vender

«Nella serena maestà delle Alpi la morte unisce ed affratella le spoglie dei combattenti dalla guerra divisi e travolti». Così recitano le parole incise sulla pietra del monumento ai caduti nel cimitero militare austro-ungarico di Pejo. Parole che infondono serenità, a colmare il vuoto della morte e il grido delle sofferenze che ieri hanno accolto le spoglie dei tre soldati rinvenuti tra i ghiacci dell´Ortles, nel corso della cerimonia commemorativa officiata da don Fortunato Turrini e dal parroco di Pejo don Piergiorgio Malacarne. Portate a spalla dai giovani del Soccorso alpino, dei vigili del fuoco e degli alpini della sezione di Pejo, alle bare dei soldati è stato dato finalmente l´onore di una sepoltura in terra negata nel momento in cui la loro vita volò via, per lasciarli scivolare nel sepolcro immacolato della neve. E proprio per restituire quella gloria che allora è mancata, una piccola folla ha presenziato alla cerimonia nonostante la pioggia. Tra la gente anche autorità come l´assessore provinciale alle politiche per la salute Remo Andreolli, i consiglieri provinciali Guido Ghirardini e Denis Bertolini, il sindaco di Pejo Alberto Rigo e l´assessore alla cultura di Dimaro Andrea Mochen. La profonda commozione ha abbracciato anche i membri delle associazioni militari, delle 19 sezioni degli alpini della Val di Sole, coordinate dal capozona Giovanni Zanetti, dell´Associazione Nazionale Famiglie dei Caduti, i rappresentanti della Croce Nera Alta Austria. Questi ultimi erano giunti proprio per onorare i vecchi commilitoni morti al di fuori dell´Austria, insieme ai Kaiserschützen di Innsbruck in congedo e al picchetto d´onore del comando militare di Innsbruck in servizio. Centinaia di persone si sono strette a semicerchio attorno ai tre soldati, in un abbraccio ideale che ha voluto accoglierli come se fossero stati ancora vivi, «in nome della fraternità e dello spirito di umanità» come ha invitato a fare don Turrini. Sempre don Fortunato ha poi ricordato «la loro morte, il dolore di famiglie, mogli, fidanzate, che non hanno potuto piangere sul loro corpo». Benedette con l´acqua santa e l´incenso, onorate con un minuto di silenzio e con il suono delle trombe, le salme dei tre soldati sono divenute un monito per l´efferatezza della guerra, nel loro essere «pietose, orribili ma bellissime - come scritto nella poesia «Cimitero di guerra» letta al termine della cerimonia - e soprattutto tremendamente umane». «Non vogliamo ricordarli per suscitare nostalgia - ha dichiarato Udalrico Fantelli, presidente del Museo della Guerra Bianca di Pejo - ma per ridare onore a chi ha dovuto soffrire e morire perché noi continuassimo ad avere una speranza. Non sappiamo ancora chiamarli con un nome, né conosciamo con certezza la loro provenienza. Ma basti il volto drammatico della loro sofferenza, per aiutarci a fare tesoro del passato, a capire che questi momenti possono essere evitati solo con la pace». Un messaggio di fratellanza di cui si è resa portavoce anche Annamaria Wieser, in rappresentanza della Croce Nera Alta Austria, ricordando con grande commozione quelli che ha definito come «eroi» e che con il loro estremo sacrificio hanno permesso di «riunirci sotto la stessa bandiera europea, per dare una lezione di pace e unità a tutto il mondo».


Da Il Gazzettino, 23 Settembre 2005

Sul Monte Grappa

Ritrovati dai volontari de "Il Piave 15-18" i resti di due fanti austroungarici e uno italiano

San Donà

Sono stati una decina di membri dell'associazione sandonatese "Il Piave 15-18", uniti dalla passione per la Prima Guerra Mondiale, a scoprire i resti di tre fanti, due austrungarici e uno italiano. La sensazionale scoperta è stata fatta mercoledì in un tratto di trincea di circa 400 metri, a San Giovanni sui Colli Alti, nel comune di Solagna, sul massiccio del Grappa, in provincia di Vicenza. La manutenzione della trincea, da quattro anni, è affidata alle cure dei volontari del gruppo sandonatese che vi svolgono attività didattiche, ospitando scolaresche e studiosi delle vicende belliche. Accanto ai corpi sono stati rinvenuti elmetti, scarponi, una baionetta, una fibbia da cinturone asburgica, recante l'effige dell'aquila a due teste ed alcuni oggetti personali dei militi. Ai tre mancavano, invece, le piastrine di riconoscimento, per cui per ora non è stato possibile identificarli. "Curiose le modalità della scoperta - ha spiegato il presidente dell'associazione Alfredo Tormen - a seguito di uno smottamento causato dalla pioggia, abbiamo compiuto un sopralluogo per verificare se fossero emersi degli ordigni, i metal detector, infatti, hanno iniziato a suonare e scavando abbiamo portato alla luce i corpi. Un ritrovamento importante, di alto valore spirituale, che consente di dare sepoltura a questi caduti della Grande Guerra e ripaga tutti i volontari degli sforzi sostenuti". Il gruppo ha avvertito le autorità locali che sono intervenute immediatamente sequestrando i reperti. "Nel giungo del '18 - continua Tormen - questa zona era teatro di operazioni belliche, gli austrungarici superarono ben quattro linee del fronte italiano, giungendo a minacciare la pianura. Furono gli Arditi del 9. reparto d'assalto, con l'appoggio degli Alpini, a riconquistare il terreno. Impresa epica, compiuta in 24 ore, con gli italiani che giunsero fino al celebre Col Moschin. La battaglia costò migliaia di morti e la posizione dei corpi dei tre fanti suggerisce che siano caduti combattendo durante quei drammatici frangenti". Altra particolarità del luogo è che, nelle vicinanze, si trova la casa-museo di Luciano Favero, uno degli associati che consente la visita gratuita della sua raccolta personale. Per tutti gli interessati offre anche un particolare approfondimento con riferimenti storici e delucidazioni tecnico-scientifiche, che da oggi sarà arricchito dal racconto del nuovo ritrovamento. Per informazioni 0424.556008.D.D.B.


 

Annuario sezionale. S.A.T. Care' Alto

Carè Alto mt. 3462 , 17 Luglio 2005 , difendiamo i luoghi della memoria / Grande Guerra 15/18

Che i reperti restino al loro posto.

Dopo l’approvazione nel gennaio 2005 da parte della SAT Centrale del documento relativo alla salvaguardia dei Manufatti e Vestigia della Iª Guerra Mondiale, la sezione Carè Alto crea al suo interno il Gruppo Ricerca Storica.
Viene intitolato simbolicamente alla memoria del primo tenente dei Kaiserjäger Felix Wilhelm Hecht von Eleda, e segue le linee guida definite dal citato documento. Il 2005 comincia bene dunque, sull’onda delle soddisfazioni avute grazie alle serate proposte presso la sala del centro scolastico di Darè: una con video e diapositive riguardanti il Carè Alto della coppia Marco Gramola e Giorgio Salomon e l’altra con diapositive sul sentiero della pace illustrate da Marco Patton e Claudio Fabbro. Il gruppo aumenta pian piano di numero e ci si trova volentieri circa una volta alla settimana. Proposte, punti di vista, gite da programmare e gente da contattare riempiono le “riunioni”. C’è sempre grande fermento comunque. Non si vuole perdere di vista il motivo trainate che ha portato la nostra sezione fino agli uffici della sovrintendenza ai beni culturali della PAT: il prelievo dei Manufatti della Prima Guerra Mondiale dalle nostre montagne. Sempre attenti e vigili dunque!!
Quello che Marcello nel ‘99/2000 aveva premesso, con il prezioso articolo dell’annuario sezionale: “...Quello che mi preme è che la nostra sezione, sempre attiva e propositiva, possa realizzare un documento-petizione da far sottoscrivere alle altre sezioni SAT, alle associazioni culturali, alle amministrazioni comunali e a chiunque lo desideri. Documento che dovrà esprimere la nostra comune posizione in merito alla modalità di recupero e conservazione dei reperti della Grande Guerra e alla opportunità di valorizzare un intero territorio di montagna grazie magari alla presenza di un cannone monumento e monito alla pace (Cresta Croce insegna..). Documento che dovrà altresì chiedere che la Provincia non si limiti alla spoliazione delle nostre cime e della nostra storia, ma spenda almeno il doppio per il ripristino dei camminamenti, trincee e manufatti del ‘15/’18 in quota, aiutando il decollo di un particolare turismo di montagna che potrebbe portarci notevoli soddisfazioni.” È stato realizzato con la soddisfazione di tutti!!
Servendo un’ulteriore sforzo da parte di tutti noi per far conoscere alla maggior parte possibile della gente quanto in atto sulle montagne del Trentino occidentale, abbiamo coinvolto il gruppo di Ricerca Storica “Tenente Cippelli” della SAT di Arco, il museo di Bersone (da sempre vigile ed attento a questa problematica) e gli amici Giorgio Salomon e Marco Gramola. In febbraio nasce l’idea di salire in vetta al Carè Alto (3462 mt.) per puntualizzare ancora la linea di condotta della SAT per quanto riguarda i prelievi di reperti della PAT, e contemporaneamente ci giunge la notizia che aspettavamo da tempo, della quale sapevamo qualcosa ma non ne eravamo sicuri: il cannone SKODA 10,4 di Cima Botteri, recuperato nel settembre 2003 giace in magazzino a Trento. Son quasi passati due anni e il cannone è ancora in attesa di esser restaurato. Molto bene!! Viene fissata come data utile per la manifestazione il 17 luglio con una serata di presentazione l’8 Luglio presso la sede della SAT di Arco nella quale verranno proiettati filmati e diapositive. Nel frattempo apriamo due siti di discussione nel forum di www.cimeetrincee.it, nel quale spieghiamo con articoli ed immagini quanto accaduto su cima Carè Alto e portiamo a conoscenza di un pubblico vasto e competente le nostre perplessità in merito ai prelievi effettuati sulle nostre montagne. Un successo (alla fine si conteranno più di 80 messaggi e quasi 2000 visite)!! Arriva l’8 luglio. La sala di Arco è piena. Mauro Zattera del gruppo Ten. Cippelli illustra con un video, “far e desfar” viene intitolato con ironia, dove si vedono i nostri progenitori che issano i cannoni sulle montagne e gli elicotteri che oggidì li riportano a valle, quanto è accaduto (dal 1999 al 2004) e presenta la manifestazione. Giorgio Salomon e Marco Gramola proiettano il loro video di circa 30 minuti sui reperti bellici e le testimonianze che ancora sono presenti nell’anfiteatro di guerra del Carè Alto. Francesco Bologni del museo di Bersone illustra con diapositive resti di manufatti e trincee presenti sul territorio dell’Adamello. Un successo!! Accompagnato dalla gradita partecipazione di rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e degli Alpini.
Arriva finalmente il 16 luglio. Il ritrovo per alcuni di noi è fissato in cima Carè Alto. Alle 19.00 siamo tutti in cima! Il tempo di mangiare qualcosina, scambiare due chiacchere e trovare un posticino dove passar la notte. La mattina del 17 luglio il sole splende. Sulla croce son già state appese le due bandiere: quella austriaca e quella italiana, come a voler suggellare un legame profondo con la cima stessa. Vediamo accorrere all’attacco del ghiacciaio di Niscli/Lares in zona Pozzoni una miriade di persone. Molti son già in cammino sul ghiaccio. Un po’ in ritardo però! Da lontano si sente arrivare l’elicottero della Guardia di Finanza con a bordo Marco e Giorgio pronti per effettuare foto e riprese video. Ci portiamo tutti in vetta (noi nove più una decina di altri alpinisti) e dispieghiamo lo striscione: CARÈ ALTO 3462 mt. DIFENDIAMO I LUOGHI DELLA MEMORIA! L'elicottero esegue quattro/cinque rotazioni nei pressi della vetta, per poi spostarsi in direzione Cavento e quindi atterrare al rifugio Carè Alto. Intanto nei pressi della croce di vetta continuano ad affluire gli alpinisti, tra i quali anche il presidente SAT Franco Giacomoni e Diego Bugna del museo di Bersone. A tutti e 70 gli alpinisti accorsi sulla cima lasciamo sottoscrivere il Documento SAT Centrale e li omaggiamo, a ricordo della manifestazione, di una cartolina datata con la scritta IO C’ERO raffigurante Cima Carè Alto, gentilmente concessaci dall’amico fotografo Adriano Tomba di Valdagno (Vi), che riporta sul suo retro un brano del Tenente Hecht:
13 maggio 1917. Rifugio Carè Alto.
“Ieri pomeriggio, col cappellano e un appuntato, siamo saliti colla teleferica del Carè Alto fino al grande pilone dello scivolo di Niscli; da lì abbiamo sciato fino alla Bocca di Conca e alla Malga Dosson di S. Valentino ove c’è il comando del sottosettore della Valletta Alta. Il capitano Martinez ha riunito gli ufficiali offrendo un the assai piacevole. Poi, accompagnato da due guide, andai cogli sci a Vauclo e oltre; messi gli sci in spalla arrivai a Pelugo a piedi. In tutto ho impiegato due ore. La Valle di San Valentino era bella e il cuore si riempiva di gioia alla vista delle praterie ricolme di fiori; i vitelli e le capre pascolavano lungo le siepi fiorite; vicino ai casolari gli alberi carichi di gemme e la gente pacifica dei paesi al lavoro. Il ritorno in teleferica è stato bellissimo: alle nove di sera ero di nuovo qui al rifugio.”
Tenente Felix Hecht von Eleda
Contemporaneamente, al rifugio si svolge il grosso della manifestazione. Quasi duecento persone accorse da ogni angolo del trentino e da molte zone del nord Italia ascoltano attenti le parole di Mauro Zattera e del nostro presidente Piergiorgio Motter nei pressi della chiesetta dei prigionieri russi. Si spiega il motivo della manifestazione e si leggono dei salmi ed un passo del vangelo per rendere omaggio a quanti, soldati dell’Imperatore o del re d’Italia, hanno perso la vita sulle montagne durante la Grande Guerra. La Schützen Kompanie Rendena schierata ed in divisa, con il Capitano e una squadra di otto uomini, rendeva omaggio alla manifestazione con uno sparo a salve. Verso le 10.00 comincia la discesa delle 70 persone circa presenti sulla Cima Carè Alto. Al rifugio siamo accolti con una birra fresca e una pacca sulle spalle. I due registri sono stati firmati da quasi tutti i partecipanti. Sessantuno firme presenti sul registro di vetta e centododici su quello presente al rifugio, tra le quali spiccano quelle del Ten. Colonnello degli alpini Giuseppe Menotti, del presidente della SAT Franco Giacomoni e degli amici di Cimeetrincee.
Lunedì il quotidiano “Il Trentino” ci omaggia con la prima pagina: “Giù le mani dal Carè Alto - protesta in quota per salvare i luoghi della Grande Guerra.” Il lunedì successivo, presso la sede della SAT Carè Alto i promotori e collaboratori dell’iniziativa, incontrano l’assessore alla cultura della PAT dott.ssa Margherita Cogo accompagnata dalla sovrintendente ai beni culturali dott.ssa Laura Dal Prà. La discussione dura circa un’ora durante la quale si parla anche del Cannone Skoda 10,4 di cima Botteri e del suo restauro con un preventivo di circa 37.000 Euro (neanche dovesse tornare operativo)!! Nel contempo tutto il resto del materiale è in magazzino, con la sola certezza che verrà concesso al primo ente museale che ne farà domanda. Ecco allora che la “nostra” slitta rischia di andarsene...
Come SAT Carè Alto abbiamo avanzato alcune richieste di salvaguardia in loco (seguendo la traccia del documento SAT), puntando l’attenzione sulle nostre montagne:
- Manutenzione conservativa dei baracchini superstiti alla sommità del canalone est di cima Carè Alto con messa in sicurezza del sito, idem per i residuati delle teleferiche della cima.
- Riposizionamento presso la sede originaria dei relitti (scudo, canna, affusto) che attualmente si trovano sotto le artiglierie sul versante di Niscli con il rischio di andare perduti. La Sezione ANA degli alpini di Rendena ha già dato disponibilità a collaborare.
- Recupero conservativo con possibilità di fruizione (ripristino ferratina d’accesso) del fortino presente sul Croz della Stria.
- Studio di fattibilità di recupero circa la percorribilità del “sentiero degli Honved” Pozzoni - Monte Coel - passo Altar che si porrebbe come valido motivo per visitare una zona ricca di testimonianze della Guerra Bianca.
- Ricollocazione del cannone Skoda 10,4 presso la sua sede originaria (Monte Botteri).
- Sarebbe inoltre auspicabile: su esempio del sentiero dei Fiori (passo Paradiso - passo Pisgana) valutare la possibilità di completare il percorso ideale verso la zona Carè Alto - sentiero Honved ripristinando gli storici tracciati degli alpini passo Lares - Punta Attilio Calvi, passo Cavento - Corno di Cavento.
- Studiare un’idonea segnaletica storico-scentifica con collocazione di idonei pannelli informativi nei siti di interesse. Prendendo spunto dalle simili installazioni presenti lungo il sentiero dei fiori lungo il versante camuno.
In conclusione, un doveroso ringraziamento a tutti coloro che hanno collaborato e partecipato alla riuscita della manifestazione.
 
Matteo Motter
 

Il Crotonese n.88 Anno XXVI

Domenico Chiarello ha celebrato il 5 novembre a Cirò Marina il suo compleanno con i parenti
 
La fierezza di avere 107 anni

CIRÒ MARINA. La nostalgia di Umbriatico, il suo paese natale, si è fatta sentire con forza il 5 novembre 2005, giorno in cui il signor Francesco Domenico Chiarello ha compiuto 107 anni. E, così, durante la consueta festa di compleanno organizzatagli dai suoi familiari, il centenario ha chiesto ripetutamente in dialetto al suo unico figlio, Luigi, ''Quando ce ne andiamo ad Umbriatico?''. E, una volta che si è reso conto che non ci sarebbe stato nessun viaggio ''né a piedi né in macchina'', si è consolato, affermando che, in quel momento, c'era tutta Umbriatico a festeggiarlo. La verità è che, come al solito, si sono stretti al suo fianco il figlio Luigi, la nuora Maria, i nipoti Raffaele e Domenico Chiarello con la moglie Barbara Bilotta e i figli Luigi e Francesco, la nipote Filomena con il marito Michele Delle Donne e i figli Carlo e Luigi. E, come al solito, si è ricordata dell'evento la signora Maria Panebianco, presidente dell'associazione ''Insieme per la vita'', e ha girato la notizia al sindaco Nicodemo Filippelli, che, impegnato con la delegazione di Supino, si è riservato di fare pervenire all'ultracentenario suoi auguri e le sue congratulazioni nei prossimi giorni. Anche perché il signor Chiarello è cirotano d'adozione, visto che risiede a Cirò Marina da tantissimi anni, in una casa che si è costruito grazie al faticoso lavoro nei campi. E' quanto si legge nel libro ''Gli ultimi, i sopravvissuti ancora in vita raccontano la Grande Guerra'', scritto a due mani dagli scrittori Nicola Bultrini e Maurizio Casarola. Non tutti sanno che il signor Francesco Domenico Chiarello ha partecipato alle due guerre mondiali ed è tra i pochi in Italia ancora in vita degli ex-combattenti. Fu chiamato alle armi nel 1918 e si è arruolò presso il Distretto militare di Castrovillari. Dopo tre mesi di addestramento, fu aggregato al 19° Reggimento di fanteria di Cosenza, comandato dal colonnello Squillante, e inviato sul fronte del Trentino. Arrivò al fronte e, qui, l'esercito italiano stava riorganizzando i suoi reparti, per prepararsi alla controffensiva del Piave e, poi, alla battaglia di Vittorio Veneto. ''Ho avuto la fortuna'' dichiarò l'uomo ai due scrittori '' di prendere parte a quella grandiosa riscossa che ha unito tutti noi italiani con un unico intento, la vittoria''. L'8 settembre, invece, il giovane Chiarello partì dal porto di Taranto alla volta di Valona (Albania). Qui, contrasse la malaria e venne ricoverato in un ospedale di campo, ma, non appena guarì, si imbarcò sulla nave Santa Lucia e sbarcò nel Montenegro, dove rimase per altri due anni. Dopodiché, ritornò in Italia e fu assegnato alla caserma Garibaldi di Milano. Finita la guerra, ottenne il congedo, si sposò e ritornò a lavorare nei campi e ad allevare il bestiame nella sua Umbriatico. Tuttavia, nel 1940, fu richiamato in servizio a San Gregorio, in provincia di Reggio Calabria. E trascorsero altri sei mesi, prima del congedo definitivo. La vita avventurosa dell'ultracentenario è stata segnata anche dalla ''dolorosa'' emigrazione di due fratelli e due sorelle, al tempo ventenni, in Argentina. Vivono ancora lì, non sono più ritornati, nonostante i loro figli siano venuti a conoscere i parenti, Umbriatico e Cirò Marina. E, forse, - com'ebbe a dire lui stesso - il segreto della sua longevità sta nella sua forza d'animo. Ieri, l'allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo insignì dell'onorificenza di cavaliere di Vittorio Veneto, oggi, assistito costantemente dal figlio Luigi e dalla nuora Maria, Francesco Domenico Chiarello è sereno e conserva inalterate una fierezza e una resistenza ai malanni della vecchiaia che è di pochi.

PATRIZIA SICILIANI


Da Il Giornale di Vicenza, 1° novembre 2005

Posina. Due alpinisti durante un’escursione sul monte Majo scoprono le ossa di un militare che risalgono probabilmente alla Grande Guerra

TORNANO ALLA LUCE I RESTI DI UN SOLDATO

L’equipaggiamento è scomparso, sarà molto difficile risalire alla sua identità

«Abbiamo trovato dei resti umani, probabilmente di un combattente della 1ª guerra mondiale, durante un’escursione sul monte Majo». Il 9 ottobre gli alpinisti Enrico Dolgan e Fabio Cattelan si sono presentati ai carabinieri denunciando la scoperta. La notizia è rimasta riservata fino a quando le ossa dello sconosciuto soldato sono state prelevate presso il Vajo Brutto Buso, scoscesa porzione montagnosa parallela alla Val Grande, nel territorio del Comune di Posina. Ora è iniziata la seconda fase dell’operazione, il difficile tentativo di individuare nazionalità, reparto e identità del militare. Pare comunque, dalle prime analisi, che si tratti di un soldato italiano. La squadra di recupero, organizzata nell’ambito del progetto per il recupero delle salme dei caduti della Grande Guerra, la cui Commissione è stata istituita lo scorso 12 ottobre sulla spinta dell’assessore Dino Secco e del consigliere Nereo Galvanin, è partita domenica mattina da contrada Griso. Assieme ai due giovani scopritori c’erano l’anatomo-patologo Andrea Galassi, il delegato Ana Giannino Losco, il consigliere comunale di Posina Matteo Leder, il comandante della stazione dei carabinieri di Posina Bruno Granello, il vicebrigadiere Roberto Mantiero della stazione di Schio per Onorcaduti e il maresciallo De Rosso, della stazione di Piovene. Un’ascesa di un paio d’ore ha portato il gruppo nell’area del ritrovamento a quota 1425 m, nelle vicinanze di una postazione austriaca e di alcune caverne ricovero. A pochi passi dalla cengia, ancora i segni della battaglia: proiettili e caricatori, già svuotati dai recuperanti. Ma anche i resti del soldato, individuato a causa di un omero affiorante dal terreno, in passato erano già stati trovati e spogliati di quasi tutto dai cercatori di cimeli. Sono state perciò raccolte le ossa e quel poco che era rimasto dell’equipaggiamento, dopo aver preso le coordinate del luogo e averlo fotografato. Le speranze di identificazione sembrano dunque ridotte al minimo. «Abbiamo recuperato uno scheletro completo al 70% - spiega il dottor Galassi -, con buona parte del cranio. Purtroppo è rimasto poco degli effetti personali. Speriamo che dalla terra prelevata salti fuori qualche frammento, ad esempio un bottone: individuando il reparto, scendendo fino al battaglione, sarebbe possibile ricostruire le linee parentali degli appartenenti fino agli attuali discendenti di dispersi che consentano un confronto sulla base dell’analisi del Dna». Pessimista anche lo storico Siro Offelli, che con Claudio Gattera ed Enrico Acerbi costituisce il pool di esperti incaricato della valutazione dei reperti: «L’asportazione è stata relativamente recente, non è avvenuta subito dopo la guerra, quando i recuperanti portavano via i crani per poi rivenderli: in effetti circolava da qualche tempo in zona la notizia di un ritrovamento. Abbiamo per ora a disposizione i resti della suola di uno scarpone di fanteria, non d’ordinanza, forse acquistato per proprio conto da un ufficiale, una fibbia d’ottone di un tascapane italiano, cartucce e bossoli italiani. Nessuna stelletta, nessun oggetto personale, tranne un braccialetto di ottone molto corroso, che dovrà essere pulito con attenzione. Sarà davvero dura».


 

Da Calabria Sconosciuta, Anno XXVIII n. 106 Aprile-Giugno 2005

Un Reggimento di calabresi alla Grande Guerra

di Giovanni Quaranta

Quella della prima guerra mondiale, la “Grande Guerra”, fu sicuramente la storia più tragica che ancora oggi si possa ricordare tra le storie dei moderni conflitti tra i popoli. La letteratura, sin dalla cessazione delle ostilità, si è ampiamente occupata dell’evento sotto i suoi molteplici aspetti tanto che è pressoché impossibile contare quanti siano stati i testi che nel corso degli anni ne hanno trattato, a vario titolo, le vicende.
La situazione politica europea precedente la guerra vedeva contrapposti due grandi blocchi, la “Triplice Alleanza” (con Germania, Austria-Ungheria e Italia) e la “Triplice Intesa” (con Francia, Inghilterra e Russia), ognuno formato da nazioni che covavano sentimenti di odio e di voglia di egemonia verso gli avversari dell’altro blocco.
La situazione era ormai pronta ad esplodere da un momento all’altro e l’occasione fu offerta dall’uccisione avvenuta il 28 giugno 1914 a Sarajevo del principe ereditario austriaco Francesco Ferdinando e della moglie per mano dello studente serbo Princip.
L’Austria accusò la Serbia di complicità nell’omicidio e le inviò un’ultimatum con condizioni inaccettabili, dopodichè il 28 luglio le dichiarò guerra. In aiuto della Serbia accorsero la Russia e la Francia, mentre la Germania si schierò a fianco dell’alleata Austria. Aveva così inizio il grande incendio che avrebbe divampato in Europa e nel mondo.
Allo scoppio della guerra, l’Italia si dichiarò neutrale e non prese parte al conflitto a fianco delle potenze della Triplice Alleanza.[1] Nel paese si andarono formando due correnti: la “neutralista” e quella “interventista”; in tutte, però, era alto il desiderio di poter unire all’Italia i territori irredenti di Trento e di Trieste posseduti dall’atavico nemico che era l’Austria. La maggioranza degli italiani era più propensa alla neutralità perché riteneva che la pace era necessaria al paese per progredire ed inoltre si poteva arrivare ad ottenere il Trentino dall’Austria attraverso trattative diplomatiche. Gli interventisti, invece, sostenevano che soltanto partecipando attivamente avremmo potuto riscattarci ed avere ciò che ci spettava.[2]
Antonio Salandra (Capo del Governo) e Sidney Sonnino (Ministro degli Esteri), mentre si preparava l’intervento, iniziarono degli approcci diplomatici sia con gli Imperi Centrali che con la Francia e l’Inghilterra allo scopo di ottenere promesse soddisfacenti per il completamento dei confini nazionali. Le trattative si conclusero nell’aprile 1915 con il Patto di Londra che impegnava l’Italia a dichiarare guerra all’Austria in cambio, a guerra finita, di notevoli compensi. Ma il Parlamento italiano era per la maggior parte neutralista tanto da costringere il Salandra, favorevole all’intervento, alle dimissioni. Gli interventisti, allora, organizzarono ovunque incandescenti dimostrazioni di piazza[3] tanto che il Re, nella fiducia di interpretare la volontà della nazione, richiamò al governo il Salandra e dichiarò guerra all’Austria (24 maggio 1915).
L’Italia, a questo punto, “entra in scena” sul triste palcoscenico dove distruzione e morte regneranno sovrane per interi anni.
Questa, che fu sicuramente la guerra della fanteria, vedeva il nostro esercito ancora impegnato a riorganizzare i suoi reparti molti dei quali nascenti dall’eredità dei corpi militari degli stati annessi con l’Unità. I vecchi reparti dello stato sabaudo vennero gradualmente rinumerati ed inquadrati in brigate di due reggimenti che mantenevano gli antichi nomi geografici che quasi sempre ne contraddistinguevano la sede originaria. Le sedi reggimentali furono distribuite su tutto il territorio nazionale ma la gran parte di esse furono mantenute nei pressi dei confini con la Francia perché in quel periodo si pensava che da lì potessero arrivare i maggiori pericoli per la nazione.
Accanto all’Esercito Permanente (che raggiungeva nel periodo precedente la guerra la forza di 47 brigate di fanteria, pari a 94 reggimenti) si era creata la cosidetta Milizia Mobile, cioè una forza di riserva che poteva essere impegnata in caso di mobilitazione con una forza di altre 26 brigate di fanteria, pari a 52 altri reggimenti. I Distretti Militari avevano il compito della leva e del reclutamento, mentre la vestizione, l’armamento e l’addestramento erano compiti delle sedi reggimentali.
Dal punto di vista politico il problema del reclutamento era molto dibattuto e come tutte le cose “all’italiana” vedeva contrapposte due scuole di pensiero. La prima reputava opportuno procedere ad una forma di reclutamento nazionale perché solo così avrebbero avuto modo di amalgamarsi i giovani provenienti da diverse parti della nazione appena formata e tanto diversi tra loro che spesso non riuscivano nemmeno a capirsi a causa dei diversi dialetti parlati. La seconda propendeva per un reclutamento regionale o territoriale che avrebbe portato alla formazione di reparti omogenei per cultura e lingua parlata. La classe politica era favorevole alla leva nazionale, mentre i militari avrebbero preferito quella territoriale.
Nel periodo di pace si optò per la leva nazionale ed ogni reggimento doveva attingere in parti uguali agli arruolati di cinque distretti militari diversi, appartenenti ad altrettante zone militari, così da avere dei reparti con truppe provenienti da tutto il territorio nazionale.
Con la mobilitazione il nostro esercito si trovò in una condizione di carenza di organico, che prevedeva l’assoluta necessità di chiamare alle armi i corpi della riserva onde raddoppiare gli organici esistenti.
Nella formazione dei nuovi reparti si abbandonò il metodo della leva nazionale in quanto avrebbe rappresentato un’impaccio a causa dello spostamento di una così gran massa di uomini e nel contempo avrebbe permesso un notevole risparmio proprio sulle spese di viaggio.
Alla costituzione delle nuove unità di Milizia Mobile dovevano provvedere i Depositi Reggimentali (o centri di mobilitazione) situati nella stessa regione dei distretti ai quali appartenevano i militari.
Tra le 25 brigate di nuova formazione ci fu appunto la Brigata Catanzaro, costituita dal 141° Reggimento di Fanteria e dal 142°. Il 14 gennaio 1915, presso il deposito del 48° Rgt. Fanteria, a Catanzaro Marina nasceva il 141° Reggimento Fanteria  Milizia Mobile, mentre il 142° si formò dal deposito del 19° Rgt. Fanteria, a Monteleone di Calabria (attuale Vibo Valentia).
Il 1° marzo 1915, la Brigata prese vita a Catanzaro Marina e da «Catanzaro» ne prese il nome. Ebbe assegnate come mostrine i colori rosso e nero, colori che stanno ad indicare “sangue e morte” e da essi sorse il motto, mai smentito, «Sanguinis mortisque colores gestamus: ubique victores» e cioè «Portiamo i colori del sangue e della morte: ovunque vincitori».
Il 141° Rgt. ebbe una prevalente fisionomia calabrese poiché calabresi erano la maggior parte degli elementi che lo costituivano.[4] Questo reggimento, nato nell’imminenza della guerra, fu impegnato per oltre due anni sul fronte più duro, quello del Carso, con la sola eccezione di due brevi parentesi, ad Oslavia, in un periodo particolarmente critico del primo inverno di guerra, e sull’Altipiano d’Asiago, nel momento culminante della Strafexpedition.[5] La sua vicenda di guerra, che ne vide la bandiera decorata di medaglia d’oro al valor militare già nella primavera del 1917, è segnata dalla drammatica pagina della rivolta di luglio di quell’anno, chiusa la quale i suoi fanti tornarono a battersi con il valore di sempre, al punto di meritare la citazione sul bollettino di guerra.
La sua storia fu tragica e gloriosa insieme. Un reggimento senza tradizioni, che dopo la guerra sarebbe scomparso dall’ordinamento dell’esercito, per tornare a figurare fugacemente soltanto tra il 1940 ed il 1941 e poi ancora tra il 1975 ed il 1995,[6] è stato sempre protagonista degli eventi bellici e sicuramente è rappresentativo del sacrificio e della gloria della fanteria italiana. I suoi uomini non furono eroi omerici né cavalieri senza macchia e senza paura e, quantunque probabilmente non avessero mai sentito parlare di Trento e di Trieste, fecero sempre e comunque il proprio dovere uscendo vincitori, insieme con i loro commilitoni, dall’aspra contesa con un esercito che vantava una storia di lunga data.
La fase di preparazione dei reparti risentiva comunque di carenze sia di organico che di armamenti ed emblematica era la mancanza di quelle sezioni mitragliatrici che ogni reggimento doveva avere.[7]
La Brigata Catanzaro all’atto della mobilitazione del 24 maggio 1915 fu dapprima inquadrata nelle truppe a disposizione del Comando Supremo poi, dopo pochi giorni, fu inviata in Friuli dove fu inquadrata in quella Terza Armata che in seguito ebbe l’appellativo di “Armata del Carso” e che si gloriava di obbedire agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.
Adolfo Zamboni, glorioso ufficiale del 141° di origine ferrarese, nei suoi scritti decantò le doti umane e di combattenti dei calabresi per come egli stesso ebbe modo di conoscerli, ma non mancò di sottolineare le difficoltà che gli stessi riscontravano nei rapporti interpersonali.[8] Ne dipinse un profilo molto attento e preciso con frasi accorate che soprattutto oggi, che ancora si assiste ad una forma di razzismo strisciante e si sente parlare di “Repubbliche del Nord”, dovrebbero essere incise a lettere d’oro nelle menti di tutti gli italiani.
“Piccoli, bruni, curvi sotto il peso del grave fardello, scesero alle stazioni delle retrovie e si incamminarono verso le colline Carsiche gli umili fantaccini della remota Calabria, la forte terra dalle montagne boscose e dai clivi fioriti dove pascolano a mille i placidi armenti. Chiamati lontano dalla Patria in armi, questi poveri figli di una regione abbandonata lasciarono le loro casette sperdute tra i monti, abbandonarono i campicelli e le famiglie quasi prive di risorse e vennero su nelle ricche contrade che il nemico mirava dall'alto, bramoso di conquista e di strage. Percorsero tutta la penisola verdeggiante e sostarono nelle trincee scavate nella roccia e bagnate di sangue.
Fieri e indomiti, cresciuti nella religione del dovere e del lavoro, i Calabresi non conobbero la viltà, non coltivarono nell’animo gagliardo il germe della fiacchezza: alla Patria in pericolo consacrarono tutta l’energia dei loro rudi cuori, tutto il vigore delle floride vite. Apparivano selvaggi, ed erano pieni d’affetti nobilissimi; sembravano diffidenti, ed aprivano tutto il loro animo a chi sapeva guadagnarsi il loro amore; all’ingenuità ed al candore quasi puerili univano il coraggio e la risolutezza dei forti. Un piccolo servigio, una cortesia usata loro, ve li rendeva fedeli fino ad affrontare per voi con indifferenza il pericolo.
I compagni d’arme delle regioni del Nord, dividendo un vecchio pregiudizio, per il quale i fratelli dell’Italia inferiore erano considerati alquanto retrogradi e selvaggi, guardarono da principio con una certa noncuranza sdegnosa quei soldatini dalla parlata tanto diversa e così schivi di convenzioni; «terra mata» e «terra da pipe» erano gli appellativi che talvolta scherzosamente venivano indirizzati ai modesti gregari nati e cresciuti nelle terre del meridione. Però, quando la fama incominciò a diffondersi e a divulgare il loro valore e la loro audacia; quando si videro quei forti campioni muovere decisamente e costantemente all’assalto sanguinoso di posizioni inespugnabili; quando infine seppe l’ecatombe offerta dal popolo dell’Italia negletta, allora in tutto il Paese nostro si levò una voce concorde di ammirazione e di plauso e si benedirono quelle coorti di giovani dalla salda fede e dal fervido entusiasmo”.
Numerosissime furono le località che videro in azione i Reggimenti della Brigata “Catanzaro”, ma, sicuramente, una menzione particolare la merita il Monte Mosciagh. Questo monte fu scenario di aspre lotte nelle quali la Brigata fu decimata,[9] e legò indissolubilmente il proprio al nome del 141° dopo l’operazione del 27 maggio 1916. La stessa si svolse in un momento molto difficile del conflitto e portò il 141° Fanteria agli onori della cronaca ed ebbe eco in tutta la nazione.
I nostri fanti recuperarono alcuni pezzi d’artiglieria da una posizione ancora tenuta dagli Austriaci sulla vetta della montagna, e dopo circa due ore di attacchi alla baionetta, riuscirono a cacciare definitivamente il nemico dalle posizioni iniziali conquistandone in definitiva anche l’armamento.
 L’episodio meritò la seguente citazione sul Bollettino di Guerra del 29 maggio 1916 n.369 a firma del Gen. Cadorna: “Sull’altopiano di Asiago, le nostre truppe occupano attualmente, affermandovisi, le postazioni a dominio della conca di Asiago. Un brillante contrattacco delle valorose fanterie del 141° reggimento (Brigata Catanzaro) liberò due batterie rimaste circondate sul M. Mosciagh, portandone completamente in salvo i pezzi”. La cosa fu ripresa dalla stampa nazionale dell’epoca tanto da meritare la prima pagina sulla Domenica del Corriere che con una bella illustrazione di A. Beltrame fece conoscere all’Italia intera come “Un brillante contrattacco dei valorosi calabresi del 141° fanteria libera due batterie rimaste circondate sul monte Mosciagh”.
Da questo glorioso fatto d’arme il 141° ne trasse quello che da allora fu il suo motto: «Su Monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone».
Tra le pagine della storia della Brigata Catanzaro, però, ve ne sono alcune tra le più tristi dell’intera storia del nostro esercito. Era il 27 maggio del 1916 e la Brigata era stata trasferita da alcuni giorni sull’Altopiano di Asiago. I tragici avvenimenti che culminarono con la fucilazione di 12 militari si svolsero sulle pendici del Mosciagh e furono la conseguenza dello sbandamento in condizioni difficili di quasi tutta la 4a compagnia del 141° . Il Col. Attilio Thermes, comandante del reggimento, in ottemperanza alle disposizioni emanate dal Comando Supremo, ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per un sottotenente, tre sergenti ed otto militari di truppa da estrarre a sorte nella ragione di uno a dieci. Per questo ordine il Col. Thermes fu il primo ufficiale italiano ad essere citato in un Ordine del giorno del Comando Supremo [10] e questo non per un glorioso fatto d’arme ma per aver fatto fucilare i propri soldati! In realtà la brigata si comportò piuttosto bene nei combattimenti di quei difficili giorni e non meritava un tale trattamento, dovuto in buona parte al fatto che i successi austro-ungarici facevano perdere la testa ai comandi.
Questo episodio, comunque non intaccò il morale della Brigata che continuò sempre e comunque a fare il proprio dovere tanto che S.M. il Re, con decreto del 28 dicembre 1916, concesse motu proprio alla bandiera del glorioso 141° Reggimento la MEDAGLIA D’ORO al valor militare con questa motivazione: «Per l’altissimo valore spiegato nei molti combattimenti intorno al San Michele, ad Oslavia, sull’Altopiano di Asiago, al Nad Logem, per l’audacia mai smentita, per l’impeto aggressivo senza pari, sempre e ovunque fu di esempio ai valorosi (luglio 1915 – agosto 1916)».[11] Anche la bandiera del 142° ebbe la sua meritata decorazione con la concessione della Medaglia d’Argento al valor militare.[12]
Diversi mesi dopo, i soldati dei due reggimenti della Catanzaro furono protagonisti della più grave rivolta nell’esercito italiano durante il conflitto. Questo triste episodio si svolse a Santa Maria La Longa dove la brigata era stata acquartierata a partire dal 25 giugno 1917 per un periodo di riposo. La notizia di un nuovo reimpiego nelle trincee della prima linea fece, pian piano, montare quella che in poche ore sarebbe diventata una vera e propria rivolta. I comandi, avendo avuto notizia da informatori di quanto doveva accadere fecero infiltrare nei reparti alcuni carabinieri travestiti da fanti e si era disposta la dislocazione di più di cento carabinieri nelle immediate vicinanze. Alle ore 22 del 16 luglio 1917 iniziò il fuoco che durò tutta la notte. I caporioni di ogni reggimento assaltarono i militari dell’altro inducendo gli stessi ad ammutinarsi e ad unirsi a loro. Molti caddero morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne rimasero feriti. Appena il Comando d’Armata ebbe notizia di quanto stava avvenendo dispose le opportune contromisure inviando sul posto altri carabinieri su autocarri, quattro mitragliatrici, due autocannoni e con il preciso ordine di intervenire in modo fulmineo e con estremo rigore. La lotta durò tutta la notte e cessò all’alba dopo l’intervento degli ufficiali della brigata e dei carabinieri con mitragliatrici ma, soprattutto, dopo l’arrivo ed il posizionamento degli autocannoni. Sedici militari presi ancora con l’arma scottante furono immediatamente condannati alla fucilazione. A questi avrebbero dovuto aggiungersi altri 120 uomini, ma per limitare le fucilazioni si dispose di procedere al sorteggio del decimo di essi e, quindi, altri 12 si andarono ad aggiungersi alla lista. I 28 militari furono fucilati immediatamente nel cimitero di Santa Maria, alla presenza di due compagnie, una per ciascun reggimento.
Dopo questo spiacevole fatto, i fanti della Catanzaro intrapresero la loro marcia verso il fronte dove continuarono a battersi per il resto del conflitto con la grinta e la disciplina che avevano sempre dimostrato, tanto da ottenere una seconda citazione sul Bollettino di Guerra del 25 agosto 1917 nel quale si riportava che: “Sul Carso la lotta perdura intorno alle posizioni da noi conquistate, che il nemico tenta invano di ritoglierci. Negl’incessanti combattimenti si distinsero per arditezza e tenacia le Brigate Salerno (89° - 90°), Catanzaro (141° -142°) e Murge (259° e 260°)”.
Gli ultimi mesi della guerra furono trascorsi dallo stremato 141° nelle retrovie del Piave, a disposizione del Comando Supremo, dove in ottobre si incominciò a trasferire ed attraverso una serie di marce raggiunse Mestre nei giorni della vittoria.
Tutta la Brigata Catanzaro si imbarcò a Venezia sulla nave “Re Umberto” il 15 novembre 1918 ed il 17 successivo sbarcò in una Trieste festante. La meta radiosa dei suoi cruenti sacrifici era raggiunta.
Per oltre un anno il 141° ne rimase a presidiare la città, ospitato nella caserma “Oberdan”, fino a quando venne disciolto. Il 21 giugno 1920, nella caserma “Cernaia” di Torino, il cappellano militare Can. Chelli salutò con un appassionato discorso l’amata bandiera che i fanti baciarono ad uno ad uno, con le lacrime agli occhi. Il glorioso vessillo, adorno del più alto segno al valor militare, si inchinò l’ultima volta davanti alla tomba del Milite Ignoto e fu collocato “là dove si conservano le più fulgide reliquie della Patria”.[13] Lo scioglimento del Reggimento, però non cancellò il ricordo delle gesta dei suoi uomini, e lo stesso Duca d’Aosta ebbe modo qualche anno più tardi di dire: “… ho sempre nel cuore questa magnifica legione di prodi che dalla terra di Calabria trasse la tenacia e l’anima pugnace”.
A conclusione, è doveroso rivolgere l’ultimo ricordo all’impegno di tutti i calabresi di ogni arma e specialità che contribuirono in modo determinante alla vittoria finale. Nell’immane tragedia della Grande Guerra ne perirono 20.046. Fino all’anno 1923, le medaglie al valore militare individuali concesse ai calabresi ammontavano a 2.884, così distinte: 12 M.O., 980 M.A., 1.565 M.B., 8 croci militari di Savoia, 319 croci di guerra al valore; delle quali 1.711 a ufficiali e 1.173 a sottufficiali, graduati e militari di truppa. Le medaglie d’oro erano equamente distribuite tra le 3 antiche provincie calabresi.
Altre decorazioni furono concesse alle bandiere di Reggimenti mobilitati nei Depositi della regione calabrese, con militari in buona parte nati in Calabria.
Oltre a quelli della Brigata “Catanzaro” (141° Rgt. Medaglia d’Oro e 142° Medaglia d’Argento), possiamo ricordare quelli della “Brescia” (19° e 20°) che ebbero due M.A. ciascuno; quelli della “Ferrara” (47° e 48°) che furono decorati entrambi della M.O.; quelli della “Udine” ( 95° e 96°) che ebbero entrambi una M.A.; quelli della “Jonio” (221° e 222°) che ebbero la M.B. e quelli della “Cosenza” (243° e 244°) che ebbero la M.A.
A tutti loro deve andare il nostro ringraziamento per aver tenuto alto il nome delle “Genti di Calabria” ed aver vinto, oltre alla guerra dichiarata, anche quella non dichiarata (e per questo non meno importante) dei pregiudizi che da sempre affliggevano i calabresi ed i meridionali in genere.
 
BIBLIOGRAFIA:
 
Basilio Di Martino, La Grande Guerra della Fanteria 1915-1918, Gino Rossato Ed., Valdagno, 2002.
Adolfo Zamboni, Fasti della Brigata Catanzaro – Il 141° Reggimento Fanteria nella Grande Guerra, Guido Mauro Ed., Catanzaro, 1933.
Roberto Mandel, Storia popolare illustrata della grande guerra 1914-1918 – Parte Terza: L’anno d’angoscia (1916), Armando Gorlini Ed., Milano, 1933.
 Roberto Mandel, Storia popolare illustrata della grande guerra 1914-1918 – Parte Quarta: L’anno terribile (1917), Armando Gorlini Ed., Milano, 1934.
Marco Pluviano-Irene Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Paolo Gaspari Ed., Udine, 2004.
Salvatore Pagano, Le Medaglie d’Oro calabresi, Stab. Tipografico “La Giovane Calabria”, Catanzaro 1923.
Attilio Gallo Cristiani, Guerrieri ed eroi nazionali di Calabria, Tip. F.Chiappetta, Cosenza, 1949.
 Luigi Amedeo de Biase, Le cartoline delle Brigate e dei Reggimenti di fanteria nella guerra 1915-1918, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1993.
La Domenica del Corriere (supplemento illustrato del Corriere della Sera), Anno XVIII n.24 (11-18 Giugno 1916).
 
 NOTE:
 
1. Questa, che era un’alleanza di tipo difensivo, impegnava gli stati aderenti ad accorrere in difesa degli alleati in caso di attacco da parte di altre nazioni, ed inoltre l’Austria a non provocare mutamenti nella penisola balcanica senza il consenso italiano. Invece, fu proprio l’Austria a dichiarare per prima guerra alla Serbia ed il tutto senza neanche consultare l’Italia che, pertanto, si ritenne libera da impegni e proclamò la sua neutralità.
2. Il capo dei neutralisti era l’ex capo del governo Giovanni Giolitti, mentre tra gli interventisti spiccavano le figure di Cesare Battisti e di Gabriele d’Annunzio.
3. Emblematica fu la partecipazione di Gabriele d’Annunzio ad una dimostrazione interventista che si svolse il 5 maggio 1915 a Quarto dei Mille ove tenne un infuocato discorso a favore dell’entrata in guerra dell’Italia.
4. La 1a, 2 a, 3 a e 4 a Compagnia erano di Catanzaro, mentre l’8 a, 9 a, 10 a, 11 a e 12 a erano di Reggio Calabria. Massiccia fu anche la presenza di siciliani e di pugliesi.
5. Sul fronte italiano del Trentino l’Austria preparò una grande offensiva che con insolenza chiamò Strafe-Expedition, cioè spedizione punitiva, come se volesse punirci per l’abbandono della Triplice Alleanza. L’attacco, che fu preceduto da un infernale bombardamento di grossi cannoni, vide in una prima fase il predominio degli austriaci che sfondarono le linee italiane. Ma gli italiani riuscirono a resistere e la successiva controffensiva fece fallire l’attacco austriaco portando alla conquista di Gorizia.
 6. Nel 1940, i due reggimenti di fanteria denominati 141° e 142° “Catanzaro”, insieme con il 203° Rgt. Artiglieria, andarono a formare quella che fu la 63a Divisione di fanteria “Catanzaro”. Il solo 141° fu ricostituito in seguito alla ristrutturazione dell’esercito del 1° ottobre 1975, inquadrato nella forza della Brigata Motorizzata (e poi Meccanizzata) “Aosta” e dislocato presso la caserma “Cascino” di Palermo.
 7. Per ogni reggimento erano previste tre sezioni mitragliatrici. I due reggimenti della Catanzaro ne avevano soltanto una a testa. Non era diversa la situazione per gli altri reparti. Solamente i due reggimenti granatieri erano al completo delle tre sezioni previste, i 94 reggimenti di fanteria dell’Esercito Permanente se ne dividevano 188, a fronte di un’esigenza complessiva di 282, ed i 51 reggimenti di Milizia Mobile ne avevano in tutto 12 su 153. La Catanzaro doveva quindi ritenersi più fortunata di altre brigate di nuova formazione, ma come la storia ci dimostrò in seguito non fu così: proprio la Catanzaro insieme con i granatieri furono tra i reparti maggiormente impegnati nel corso del conflitto.
8. Il S.Ten. Zamboni si prodigò per fare sempre il suo dovere e per farlo fare al meglio ai suoi uomini, per la gran parte valorosi ma irrequieti contadini del Sud ("tirar fuori una parola chiara da questi benedetti Calabresi era una impresa disperata", scrisse), che trattava con severità, ma a cui cercava anche, rincuorandoli ed aiutandoli, di lenire i disagi interiori e a cui sapeva dare fiducia e infondere sicurezza. Infatti, come testimoniato anche dalle motivazioni delle decorazioni, egli sapeva come guadagnarsi l'affetto e la fedeltà dei suoi soldati e come farsi da loro obbedire.
9. Il Pagano, a proposito del Sottotenente Gaetano Alberti da Mormanno (CS), una delle Medaglie d’Oro calabresi, appartenuto al 142° Rgt. Fant. caduto il 26 luglio 1915 sul Carso, così recita: “… egli vive nelle trincee del Carso tra i suoi soldati, tra i fanti della Catanzaro, della gagliarda Brigata Calabrese, che nella guerra immane si è sbrandellata in carneficine cruenti ed in soste doloranti su per i gironi infernali del Carso, in assalti superbi sul Mosciagh conteso, preso e perduto, ripreso e riperduto e riconquistato, baluardo orrendo ed ultimo, elevato dai petti possenti dei Calabresi, alla travolgente offensiva austriaca del Trentino nel 1916”. Altri atti di eroismo si svolsero in concomitanza di azioni a stretto contatto con il 141°. Il Pagano ci riporta il racconto di un altro calabrese insignito di Medaglia d’Oro, il Maresciallo Maggiore Angelo Cusmano da Molochio (RC), a proposito dell’operazione del giugno 1916 sul Monte Lemerle che le valse la decorazione. L’eroe della Brigata Forlì, nel ricordo di quanto successe, testimonia ancora una volta il sacrificio dei fanti del 141°. Raggiunta la cima del Monte Lemerle trovò uno dei battaglioni del 141° ridotto a circa una compagnia impiegato a difendere una posizione resa difficile dall’infiltrazione dei nemici. Trovò solo due ufficiali: un Capitano affetto da dolori reumatici e impotente a muoversi ed un Sottotenente ferito in modo non grave.
10. «Addito ad esempio - si legge in un ordine del giorno del 22 giugno 1915 - il colonnello del 141° fanteria Thermes cav. Attilio che la sera del 26 maggio alle falde del monte Mosciagh non esitò a prendere immediatamente le più energiche misure di rigore contro alcuni sbandati che disertavano il loro posto d’onore... Gli tributo perciò un encomio solenne che porto a conoscenza di tutto l’esercito perché la sua energica ed esemplare condotta sia d’incitamento a tutti...». È la prima volta che Cadorna parla di un subordinato come di un eroe, elogiandolo per aver fatto fucilare un sottotenente, tre sergenti e otto soldati italiani!
11. Per l’eroismo dimostrato durante la Grande Guerra furono decorate di M.O. al valore militare le bandiere dei due reggimenti granatieri e di 24 reggimenti di fanteria, tra i quali per due volte quelli della Brigata Sassari. Soltanto nove la ottennero però durante il corso delle operazioni e tra questi vi fu il 141°.
12. Alla bandiera del 142° Fanteria fu concessa la M.A. con la seguente motivazione: “Per il valore spiegato nei combattimenti intorno a Castelnuovo del Carso e Bosco Cappuccio; sull’altopiano di Asiago, al San Michele, nella regione di Boschini e a Nad Logem; per lo spirito aggressivo e l’alto sentimento del dovere sempre dimostrati (luglio 1915 – agosto 1916)”.
13. Nel museo dell’Altare della Patria, detto Vittoriano, a Roma.

Da Il Giornale di Vicenza, Mercoledì 28 Giugno 2006

Passato e presente in parole di pietra

Roberto Belvedere, armato di macchina fotografica, mappe, scarponi, pazienza e tanta passione, risale cime e ripercorre trincee alla ricerca di lapidi, fregi, incisioni, testimonianze di eventi bellici che hanno scritto la storia anche tragica della nostra terra

Cime e trincee. Cime della memoria e trincee della vita. Lapidi dedicate a soldati caduti, iscrizioni a testimonianza dell’esecuzione di opere belliche, fregi, targhe e cippi, graffiti di singoli soldati... Le parole sono pietre, si sente spesso dire, e mai come in questo caso la metafora aderisce perfettamente alla realtà. Parole di pietra che fissano un istante, un giorno, un dolore, una fatica, una soddisfazione. Parole di pietra che restano lì ma che possono scendere a valle e finire su qualc he libro con l’aiuto di tanta passione, un’infinita pazienza e una fidata macchina fotografica in grado di fissare a sua volta quel pezzo di storia e renderlo fruibile a tutti. Per conoscere, riflettere, sapere qualcosa di più della nostra storia e, forse, del nostro stesso esistere. Roberto Belvedere ha 55 anni, ufficialmente fa il promotore finanziario ma in realtà è u no di quegli appassionati di storia e umane vicende che, senza fregiarsi di tanti titoloni più o meno accademici, accende il motore della passione storico-fotografica con lo stesso entusiasmo con il quale accende la sua moto Bmw (del cui club vicentino è anima e motore) e parte. Parte e va, sulle orme di indelebili ricordi giovanili con la sua mano stretta a quella del padre a cercar funghi in montagna ma ben presto a caccia di testimonianze di un’epoca bellica che proprio alle nostre latitudini visse anni decisivi e scrisse pagine indelebili; parte e va, sulle orme di quei padri di cui anche recentemente si sono celebrate le vite e le gesta duranta l’adunata nazionale alpina di Asiago; parte e va, sempre più spesso in compagnia di altri appassionati (ve ne sono in tutta Italia), per salvare “quelle pietre totalmente inanimate” cui si paragonava il soldato Ungaretti, per consentire a tutti noi di leggere come pagine di un libro quelle scritte s pesso anonime ma “così perentorie nel loro struggebnte significato” come ricordava con efficacia Fernando Bandini nell’introduzione a un libro sull’argomento. Cime e trincee è anche l’associazione di riferimento per questi appassionati, con tanto di sito internet e incontri virtuali e reali per scambiatrsi opinioni, materiali, indirizzi, indicazioni per risalire a quella o quest’altra testimonianza in pietra. Si legge nella home page del sito: “... il mio unico desiderio è che i lettori non dimentichino i nomi di coloro di cui si fa menzione nel presente modesto lavoro. Ed ai giovani faccio una calda preghiera: visitino i luoghi dove fu combattuta la grande guerra, portino il loro contributo di pietà agli oscuri eroi che dormono e dormiranno eternamente nei cimiteri del fronte i quali raccolgono le loro salme gloriose ...” La firma è del ten. Adolfo Zamboni, e sotto la sua ve ne sono idealmente tante, tante altre. Nella sua taverna-studio nel quartiere di S.Pio X, Roberto Belvedere mostra foto e illustra mappe: alle pareti vi sono i calchi di due splendidi fregi, uno in stile liberty dell’osservatorio Tron, l’altro - l’orgoglio di Belvedere - del 35° Reggimento fanteria Zappatori, datato 1916 il cui originale è stato trovato e restaurato nei pressi di Valdastico , all’ex forte Ratti. La passione per queste pietre parlanti non impedisce di staccarsi da terra: a bordo di un ultraleggero, Beldere sorvola anche cime, trincee e camminamenti. «Così vedeva il fronte Francesco Baracca». E anche questo è un panorama che aiuta a capire l’uomo, il suo passato e il suo presente.

L'intervista

-Iscrizioni, fregi, cippi, lapidi e graffiti della Grande Guerra: appassionanti testimonianze di stagioni e avvenimenti che appartengono ormai soltanto alla storia: come le è venuto in mente di riscoprirle, fotografarle, catalogarle?
«Da ragazzino, e parliamo ormai degli anni Sessanta, accompagnavo spesso mio padre nel suo andar per funghi. Ci si alzava prima dell'alba e in Vespa si risaliva il Costo e la sempre fresca e umida Val Canaglia fino a giungere al Ghertele e al Passo Vezzena; chiedevo spiegazione di nomi strani letti lungo la strada come "Osteria alla Tagliata" o "all'Antico Termine" : erano i primi incontri con i luoghi della Grande Guerra. Cercando nelle faggete e sotto gli abeti l'agognato boletus edulis spesso mi imbattevo in lunghi avval lamenti del terreno, in caverne e cunicoli scavati nella roccia; mio padre esaudiva le mie richieste parlandomi di trincee e opere costruite durante la Prima Guerra Mondiale».
- Passeggiate nel cuore di una storia epica e tragica... La storia d’Italia che fu scritta sulle montagne vicentine.
«Sì. Lì dentro di esse, mi diceva il papà, vissero e combatterono, cercando di uccidersi a vicenda, migliaia di soldati italiani da una parte, e austriaci dall'altra: mi veniva in mente il bambino tedesco con il quale avevo giocato a calcio in spiaggia l'anno prima e a me era simpatico. Incuriosito ed anche un po' impressionato dalla vastità dei manufatti cominciai a perlustrare con attenzione queste opere trovandovi spesso oggetti arrugginiti come bossoli, cartucce, gavette, scatolette vuote e pezzi di stufette di lamiera ondulata (già in quegli anni era diventato difficile trovare in superficie baionette o elmetti). Ma quello che mi turbava maggiormente erano le lapidi isolate dedicate a soldati caduti, in quanto stavano lì a testimoniare il luogo esatto ove successe il fatto e che spesso riportano la causa della morte ("....cadde colpito in fronte mentre ritto sulla trincea contesa guardava con amore alla sua casa posta ai piedi dello Spitz in territorio occupato dal nemico"); con l'immaginazione dei miei dieci anni v edevo (in bianco e nero) l'alpino stramazzare al suolo con un foro al centro della fronte proprio dove ero io, in quel pezzetto di terra inondato di luce e coperto di fiori profumati...».
- E poi cosa accadde?
«Verso la fine degli anni Ottanta toccò a mia volta dare spiegazioni a mio figlio durante le numerose escursioni sulle nostre montagne. Però non s i andava per boschi a raccogliere funghi, ma si saliva sulle cime utilizzando spesso i percorsi ideati e realizzati dai soldati di quel periodo (la strada delle 52 gallerie sul Pasubio, la galleria di mina del Castelletto di Tofana o in Ortigara). Sentii il bisogno di documentarmi, cominciai a leggere la bibliografia specifica: Gianni Pieropan mi catturò per primo, seguito dagli scrittori testimoni del tempo come Ardengo Soffici, Carlo Salsa, Paolo Monelli, Attilio Frescura da una parte e Fritz Weber, Viktor Schemfl dall'altra. Nacque così per caso l'idea, diventata poi passione, di fotografare sistematicamente tutte le testimonianze in cui mi imbattevo e che personalmente ritenevo interessanti; poi cominciai ad effettuare escursioni mirate: M.Novegno, Pasubio, Altipiani, Grappa, ecc. Immortalavo soprattutto i monumenti commemorativi tronfi di retorica del periodo del regime ("Al cospetto d'Italia tutta il Battaglione Lombardo V.C.A. nel MCMXV su questi secolari graniti la sua breve luminosa storia scriveva - Comitato MonteBaldo 12.VI.1931-IX ) e talvolta trascuravo invece certi "segni" incisi sulla parete di roccia di una galleria che riportavano il nome di un reparto o il cognome e il grado di un soldato».
- Viviamo in un mondo di segni, ieri come oggi... Cosa le fece rivalutare l’importanza dei simboli in questione?
«Durante e un'escursione sulle Alpi Giulie conobbi Antonio Scrimali, scrittore e ricercatore di testimonianze della Grande Guerra già famoso nell'ambiente; mi faceva da guida nella visita al Monte Vodice e al Monte Santo. Fu lui a farmi capire la grande importanza di certi "segni" da privilegiare nella ricerca anche con finalità di censimento e catalogazione perché gli agenti atmosferici, con la loro opera disgregatrice e talvolta l'inciviltà e l'ignoranza di taluni, li avrebbero resi sempre più rari a vedersi.Da allora la mia attenzione si è rivolta quasi esclusivamente a trovare e fotografare le cosiddette "Iscrizioni" che possono essere costituite da artistici fregi "ufficiali" di reggimenti e battaglioni cementati nelle trincee o sui ricoveri o anche da semplici "graffiti" fatti da umili soldati che nel cemento fresco della postazione hanno inciso il loro nome o lasciato qualche massaggio per essere ricordati. Si tratta di una ricerca appassionante, ma no n sempre facile: spesso il sentiero che portava ad una postazione in caverna è franato e bisogna scalare una parete con difficoltà alpinistiche o il manufatto che si cerca risulta di difficile individuazione a causa della vegetazione che è tornata ad essere fitta e rigogliosa dopo la devastazione di quegli anni e l'abbandono dei residenti; a volte, sono necessarie due o più "spe dizioni". Quando, però, finalmente si riesce a rintracciare e a raggiungere un nuova testimonianza da tempo immaginata, si viene colti da un'emozione stupenda che ripaga di tutti gli sforzi fatti: il posto, quasi sempre silenzioso e solitario, sembra emanare ancora l'atmosfera che vi regnava; nell'appoggiare le mani, nel cercare di leggere, di interpretare, nel ripassare con il carboncino le lettere dell'iscrizione mi sembra di percepire gli stessi gesti fatti dalle mani dell'autore, i suoi pensieri creativi e i commenti dei compagni attorno, ragazzi costretti a vivere e a combattere in quei luoghi impervi, in ogni stagione e con qualsiasi tempo. È un momento d'incanto, meglio se lo posso assaporare da solo, senza che alcuna voce rompa il silenzio, senza alcuna fretta, ascoltando solo il vento e i rumori della natura».
- Quali sono stati i momenti più emozionanti?
«In assoluto, ogni volta che rimetto piede sull’Ortigara... Beh, i l sangue non è acqua, e non è un modo di dire: più di ventimila morti concentrati in qualche centinaio di metri in quell’immane battaglia: sono luoghi impregnati di sensazioni tragiche, epiche: lì tutto parla di quanto accadde: il vento, le pietre... Ma ci sono altri momenti di grande intensità... Quando ti trovi la scritta di un soldato che incise sulla roccia «Mamma tornerò», o un’altra che dice «E morrà a casa sua» ... Sono cose difficili da descrivere im modo appropriato. Sono emozioni grandi. E fanno effetto anche le lapidi in ricordo dei soldati deceduti dall’altra parte, caricate di maggiore enfasi rispetto alle nostre: “Fedeli fino alla morte” o "Qui riposano gli Eroi...”»
- Si trova da solo o in compagnia per questo tipo di ricerche?
«Negli ultimi anni ho scoperto altri come me, che in modo spontaneo, hanno coltivato la stessa passione; entrare in contatto con loro è stato come quando si è all'estero e si incontrano persone che parlano la tua stessa lingua; una miniera di scambi informazioni utili a nuovi ritrovamenti. Ci si confronta anche sulla tecnica fotografica utilizzata: io preferisco le stampe a colori come Massimo da Cornedo; Antonio da Rovereto le diapositive; Valter e Luca da Zugliano hanno raggiunto livelli professionali utilizz ando pellicole in bianco e nero, grandangoli spinti e poi sviluppando e stampando le foto di grandi dimensioni in proprio con risultati eccezionali. E come spesso accade, quando una passione accomuna, possono nascere delle belle amicizie e condividere dei momenti emozionanti in luoghi carichi di Storia».
- Una passione che si riaccende a ogni escursione, insomma. C’è un perché?
«Anche due. Il primo è che ripercorrendo certe strade, risalendo certe cime, respirando in certi luoghi ogni momento è buono per riflettere e porsi delle domande, anche sull’uomo stesso e la sua natura. Il secondo, ma ce ne sarebbero altri, ed è un secondo che si collega al primo è che di fronte a certe iscrizioni, determinati fregi, non è raro imbattersi in ... opere d’arte. Richiamo al liberty e all’art decò sul fronte italiano, gotico esplicito su quello “avversario”. Trovarseli di fronte e ripensare ai momenti in cui furono forgiati aiuta a capire un po’ di più l’uomo, e la sua complessa natura. Ne aggiungo un altro, accennato prima: perchè speri di trovarti di fronte ai graffiti sinceri e spesso disperati legati all’iniziativa del singolo soldato, che promette alla madre di tornare, che s’impegna a morire a casa sua. O che sentenzia “Negli anni più belli la vita più triste”. Credo che basti e avanzi per tenere sempre pronti zaino e macchina fotografica...».

Da Il Gazzettino del 19 settembre 2006

Nuovo importante ritrovamento sul Grappa dell'Associazione "Il Piave 15-18"

di Davide De Bortoli

San Donà. Nuova rilevante scoperta dei membri dell'associazione ''lI Piave 15-18" di San Donà, Dopo le ricerche approfondite dei giorni scorsi sul Col dell' Orso - Solarioli, sul massiccio del Grappa, sono venute alla luce due postazioni italiane alla profondità di circa un metro e mezzo: un ospedale da 12 letti e un ricovero di due militi flammieri, soldati che utilizzavano come arma i lanciafiamme, della prima guerra mondiale. Si tratta del secondo importante ritrovamento, dopo quelli avvenuti lo scorso anno dei resti di tre fanti (due austrungarici e uno italiano) nelle vicinanze. L'ospedaletto è collocato a 50 metri da quella che era la linea del fronte, si articola in un lungo corridoio di 80 metri è alto circa 2, strutturato in una piccola sala operatoria, un altro ambiente con i resti di 12 letti a castello di un metro e mezzo, una piccola guardiola in legno e un'scita, ora ostruita, sul versante opposto della montagna; mentre la postazione dei flammieri, con un pozzo molto ristretto, denominata dagli scopritori "tana dei draghi", è a 10 metri dalle linee nemiche di un tempo. Numerosi anche gli oggetti ritrovati: ossa umane, tre vertebre cervicali ed alcune coste, il cappuccio di un flamiere in amianto, un tubo di gomma corrugato del lanciafiamme, dei fili telefonici, schegge di granate. Autori del ritrovamento sono il presidente del gruppo Alfredo Tormen, il vice Fabio Visentin, i segretari Antonio Mucelli e Andrea dei Rossi di Mestre, i soci Fabio Turra e Fabio Bassani di Feltre e Andrea Giacomazzo di Venezia. "Nella zona - spiega Tormen - erano schierate due brigate, la "Bologna" e la "Lombardia", La IV Armata del Grappa, iniziò la battaglia conclusiva, alle 5 del 24 ottobre 1918, una data non casuale, essendo legata alla disfatta di Caporetto avvenuta il 24 ottobre del 1917 ; esattamente un anno dopo l'esercito cercava di lavare l'onta subita, si registrarono perdite gravissime". L'area del primo ritrovamento è ricordata da una croce, collocata dal gruppo 'Il Piave 15-18' sul percorso denominato "Il sentiero della pace", il cui tragitto, ora potrebbe essere allungato fino alle nuovi ritrovamenti.


Dal Gazzettino di Teviso del 28 febbraio 2007

Gentilini spedisce le ruspe a salvare i fortini del ’15-‘18

Con il consenso di Nervesa, avviata sulla Pontebbana, fra Spesiano e Ponte della Priula, l’operazione di recupero di dieci manufatti semisepolti da detriti e arbusti

di Giampero De Diana

“Ad excelsa tendo!”. Era il dicembre 2002 quando Giancarlo Gentilini chiudeva così una lettera inviata al generalee Bruno Scandone, responsabile del commissariato generale Onorcaduti di Roam. Per spiegare all’amico che lui si stava battendo “per obiettivi superiori come l’onore, che, sempre, un popolo civile deve assicurare anche ai luoghi in cui è stata scritta la storia della Patria”. Dopo cinque anni Gentilini ha vinto la sua battaglia : quella del recupero dei fortini della prima guerra mondiale lungo la Pontebbana. Per adesso quasi da solo e permettendosi anche un’invasione di campo. Perché quella decina di fortini, concentrati in un chilometro fra Spresiano e Ponte della Priula, e incassati nella scarpata della linea ferroviaria Treviso-Conegliano, sono tutti nel territorio comunale di Nervesa, mentre gli uomini e i mezzi che stanno lavorando sono quelli del servizio manutenzioni di Ca’ Sugana. In questi cinque anni Gentilini ha scritto a mezzo mondo: dal comune di Nervesa alle Ferrovie, dalla Provincia all’ANAS. E a forza di insistere le acque si sono mosse. Ma intanto, con il benestare del Comune di Nervesa, si è mosso lui, e chi transita in questi giorni lungo la Pontebbana può già notare il cambiamento. Prima i dieci fortini erano quasi invisibili, coperti di da sterpaglie o semisommersi dai detriti; adesso, con il primo intervento di rimoszione di arbusti e terra, sono visibili. “ Atti dovuti . li ha definiti Gentilini nelle sue lettere – e non delegabili da parte della nostra generazione la quale ha conosciuto gli orrori della guerra, gli eroismi singoli e collettivi, anche senza nome, e quindi ha l’obbligo morale di consegnare la memoria di queste pagine ai giovani e ai posteri”. Quei fortini, fra l’altro, ricordano allo Sceriffo storie di vita vissuta: “ Quegli anni della seconda guerra mondiale –ha raccontato – durante i quali, per portare a casa qualcosa da mangiare, io e mio padre raggiungevamo in bicicletta la casa di famiglia di Vittorio Veneto. E più di una volta, noi come tanti altri, quando suonava l’allarme antiaereo, eravamo costretti a rifugiarci dentro quei fortini”. Sessant’anni dopo piangeva il cuore, a Gentilini, vederli ridotti quasi in macerie: “ Eppure anche lì – ripeterà più volte nei suoi scritti – durante la prima guerra si era consumato l’estremo sacrificio della vita di migliaia di giovani soldati “. Adesso che i suoi uomini stanno lavorando il vicesindaco può essere soddisfatto. Ma il progetto non si ferma a questo primo intervento e la collaborazione già offerta dal Comune di Nervesa, attraverso il sindaco Fiorenzo Berton per mettere in moto l’operazione, a Gentilini non basta ancora. E così lo Sceriffo, non solo ha chiesto aiuto all’Associazione Alpini per completare la pulizia, ma ha anche sollecitato le FS e l’ANAS a intervenire nella sistemazione di tutta la scarpata e della fascia verde esterna alla careggiata della Pontebbana. Infine ha chiesto all’assessore provinciale Marzio Favero di attivare una conferenza dei servizi per studiare la fattibilità di un progetto di pista ciclo-pedonale fra Spresiano e Ponte della Priula che, oltre a mettere in sicurezza i ciclisti, possa contribuire a valorizzare la presenza dei fortini recuperati. Una sorta di percorso della memoria che comunque ha bisogno di altri interventi preventivi. L’idea di Gentilini, infati, è quella di dotare i fortini di punti luce, di proteggerli da introsuioni con l’installazione di grate, di abbellirli con piazzole. Ma intanto lui il primo passo lo ha fatto: “ lo stato di vergognoso degrado e di incivile abbandono di quei luoghi” non è più tale.


Da Il Gazzettino del 29 Agosto 2007

La Marmolada restituisce un pezzo della Città di ghiaccio austriaca

di Dario Fontanive

Rocca Pietore. La storia riaffiora dal ghiacciaio della Marmolada. Un altro tassello, da ieri, contribuisce a materializzare il mito della "Città di ghiaccio", il complesso di gallerie, con depositi, cucine, dormitori nel quale si rifugiarono i soldati austro-ungarici trovando riparo dal fuoco nemico e dal freddo pungente del fronte bellico situato ad oltre 3 mila metri di quota sulla forcella "Vu". L'inesorabile "ritirata" del ghiacciaio ha fatto emergere recentemente la baracca che fu del tenente Leo Handl, ovvero l'inventore della Città di ghiaccio. E in queste ore, l'ultima scoperta ha dato la certezza che quella stanza fu proprio dell'ufficiale-ingegnere. All'interno della baracca, sono stati rinvenuti il bastino personale di Handl, con impressa la scritta nominale, un cappotto da ufficiale, una mantellina, cartucce e caricatore di "Mannlicher" il fucile in dotazione all'esercito austro-ungarico e vari arnesi di vita quotidiana, scatole di lucido da scarpe, spazzolino. Tempo permettendo, la prossima settimana dovrebbero continuare le ricerche. Il sito, infatti, è scoperto solo per un metro, mentre la restante superficie resta prigioniera del ghiaccio. « Se il tempo ce lo permette cercheremo di liberare la baracca dal ghiaccio e vedremo se sarà possibile recuperare qualche cosa d'altro » commenta il vice presidente del museo della Grande Guerra in Marmolada, Attilio Bressan, che coordina anche i lavori di recupero del materiale bellico. « È molto probabile però - continua Bressan - che a primavera il sito, che qualche anno fa aveva fatto emergere altri due rifugi, sia già stato visitato da qualche recuperante, molto pratico di montagna. Un fenomeno - spiega ancora Bressan - diventato una vera e propria piaga». La Città di ghiaccio fu progettata da Handl con lo scopo di riparare i soldati austro-ungarici sia dal fuoco nemico sia dal freddo, dalla neve e dalle valanghe. Aveva gallerie e sale dormitorio capaci di contenere fino a 70 uomini, ed erano illuminate dalla corrente elettrica proveniente da Canazei. La vita sotto il ghiaccio permetteva di evitare le rigidissime temperature esterne che arrivano anche fino a -31 gradi centigradi. Infatti, nelle gallerie la temperatura poteva variare dai 3 ai 5 gradi sopra lo zero d'inverno, scendendo a 0 durante l'estate. Tuttavia, l'aria era speso resa irrespirabile a causa del fumo delle stufe. Nonostante le difficoltà di vita in quei cunicoli, la Città si rivelò comunque una soluzione geniale che consentì la sopravvivenza a molti soldati del Kaiser. Venne abbandonata nel novembre del 1917. Il continuo ritiro del ghiacciaio, da alcuni anni, sta portando alla luce questa magnifica opera, rivelando l'ingegnosità della "fortezza". Molto il materiale rinvenuto nelle prime due baracche alle quali, recentemente, si aggiunta la terza, appartenente proprio al suo inventore, il tenente Handl . Gli scopritori temono, tuttavia, che molti dei reperti contenuti nella baracca di Handl siano stati portati via dai cosiddetti "recuperanti" . « La pratica del recuperante nella zona di forcella "Vu" e sul ghiacciaio - ricorda il direttore del museo della Grande guerra in Marmolada, Luciano Sorarù è vietata, salvo persone autorizzate, da una ordinanza del Comune di Rocca Pietore, che risale al 1999. Questa, oltre che vietare la pratica, specifica che chi pratica abusivamente la raccolta di materiale e residuati bellici oltre alla confisca dei reperti subirà anche una denuncia. Purtroppo - continua Sorarù - in questi anni, tale pratica continua ad aumentare producendo un vero e proprio scempio sui luoghi della grande guerra, di qui la decisione di attuare, da qui in avanti, tolleranza zero ».


Da Il Trentino 18 agosto 2007

Da L'Adige 28 agosto 2007

La visita ha concluso il ciclo "Il museo nella città" dedicata ai temi della Grande Guerra

Con l'associazione "Pinter" sull'Ortigara

Riva.Vi sono luoghi che meglio di altri riescono ad esprimere il sentimento di ripulsa della guerra, delle ragioni economiche e imperialiste che spingono i vari stati a fare guerre spesso disastrose e sempre inutili. Uno di questi luoghi è l'Ortigara, la montagna nei dintorni di Asiago che più d'ogni altra rappresenta un unicum nei ricordi della Grande guerra, la sanguinosa battaglia che vide la conquista effimera degli alpini il 19 giugno 1917: all'Ortigara era appunto dedicata l'escursione organizzata dall'associazione Pinter di Riva con la visita ai luoghi della Grande guerra, e successivamente dell'ossario di Asiago. Memoria del popolo alpino, simbolo dell'inutilità della guerra, segno di monito perenne a coloro che facilmente tendono a dimenticare gli orrori bellici egli odi disumani sollecitati dalle armi. Tutto questo rappresenta la piccola sommità montuosa che è il monte sacro alla Grande guerra, l'Ortigara. L'accompagnamento nella visita da parte dell'esperto Daniele Girardini, tral'altro titolare del sito "cimeetrincee" è servito , per dare l'esatta' identificazione ai luoghi e avvenimenti che interessarono l'Ortigara. MauroZattera dal canto suo ha fatto un excursus della linea del fronte nella zona degli altipiani e dei Sette Comuni, illustrando il "Calvario, degli alpini" giustamente noto per i numerosi morti e feriti, tutti inutilmente sacrificati alle ragioni della politica e dello scontro imperialista. Il successo dell'iniziativa deriva sia dal numero di presenze che dalla qualità degli interventi. La visita veniva appunto a concludere il ciclo di iniziative "Il museo nella città" dedicato ai temi della Grande guerra e delle fortificazioni sulla linea del Brione, della Tagliata e di Malga Zures. «Dalla difesa sotterranea al sacrificio dell'Ortigara, un progetto di rivisitazione del nostro patrimonio -ha concluso, il presidente dell'associazione Graziano Riccadonna - che ha dato la prova non solo della ricchezza ma anche della volontà della gente di interessarsi dei ricordi della guerra.»


Da la Padania 26 agosto 2004

  Il terrore negli occhi dei soldati all'indomani di Caporetto

"L'ufficiale obbligava quei poveracci a superare una siepe di rovi per meritarsi la pagnotta. Deboli com'erano, vi finivano dentro e uscivano in una maschera di sangue"

  di Orlando Negrisolo  

Mio padre Federico - classe 1912- nel 1917 ha 5 anni, e suo padre si trova in guerra con altri 4 fratelli che tra l'altro vivono tutti nella stessa grande casa patriarcale.   In quella stessa casa nel 1917 durante la ritirata di Caporetto si installarono alcune compagnie di soldati tutti provenienti dalle zone del fronte. Seppure con gli occhi del bambino innocente, mio padre racconta il proprio disagio nel vedere i soldati laceri, feriti, pieni di pidocchi e affamati. Con la stessa ingenuità che caratterizza l'infanzia, mio padre si rivolge a ogni soldato e ufficiale chiedendo se ha visto il papà e gli zii e ricevendo puntualmente in cambio un sorriso e la stessa risposta "arriverà più tardi".   Questo atteggiamento, agli occhi del bambino, viene scambiato per una presa in giro che lo fa arrabbiare. Vuole sapere dov'é finito suo padre e gli zii! Nella casa vivono le zie, la madre di mio padre, il nonno e la nonna. Tutti si danno un gran da fare per aiutare i soldati e la mia bisnonna si distingue per il rapporto quasi materno che instaura con quei ragazzi riconoscendo in essi i propri figli.   Passano alcune settimane e in quell'oasi di relativa serenità i soldati ritornano a sperare in un futuro migliore. Ma dura poco perché in quella casa arriva un alto ufficiale. Monta un grande cavallo ed ha sempre un frustino in mano. Un giorno, un brutto giorno, prima della distribuzione del rancio, tutti i soldati vengono inquadrati nel cortile della grande casa colonica e l'ufficiale dispone che ogni giorno, prima del rancio, tutti i soldati avrebbero dovuto superare una "prova" per "meritare il pasto". Un giorno c'é da saltare un ostacolo, un'altro c'é da arrampicarsi su per una pertica e così via. Purtroppo, date le condizioni pietose dei soldati, non tutti riescono a "meritare" il pasto. A questa situazione rimedia di nascosto la mia bisnonna, fornendo il cibo a coloro che non riuscivano a superare l'infame prova ginnica.   Il sadismo dell'ufficiale purtroppo non si ferma perché un giorno, vista una siepe di rovi e spine, ordina che questa diventi l’ostacolo da superare con un salto che pochissimi sono in grado di fare. Il risultato é che la maggior parte dei poveri ragazzi finisce nel mezzo della siepe con risultati devastanti per tutto il corpo. Si trasformano in maschere di sangue prontamente medicate dalle donne che assistevano impotenti a quella atroce buffonata. La mia santa bisnonna urla la propria indignazione nei confronti dell'ufficiale che risponde con un perentorio "taci".   Ma la donna non si rassegna e chiama il marito che seppure contrario non vuole intervenire, convinto che quella fosse una prova estrema che non si sarebbe più ripetuta. Purtroppo il giorno seguente la storia si ripete con le stesse identiche conseguenze per i soldati e la mia bisnonna convince il marito a fare qualcosa.   A questo punto anche il marito crede che non si tratti più di semplici allenamenti ma di puro sadismo che l'ufficiale esercita nei confronti di quei poveri diavoli. Tuttavia rassicura la moglie che la cosa non si sarebbe più ripetuta convinto nel buon senso dell'ufficiale. L'indomani il mio bisnonno va nei campi quando viene raggiunto dalle urla della moglie che sta apostrofando il gentiluomo il quale si accinge a impartire l'ordine del "saltate" immaginando nella sua mente bacata il filo spinato delle trincee o chissà cosa. I soldati tremanti di paura esitano e un subalterno incita il gruppo a eseguire gli ordini.   In quel preciso momento una figura si piazza davanti al cavallo dove sopra troneggia l'ufficiale. Imbraccia una doppietta e tiene sotto tiro l'uomo che appare prima meravigliato e poi terrorizzato. Accenna debolmente un "che vuoi fare ?" "Ordina ai tuoi uomini di saltare e con essi salterà anche la tua testa bastardo !" risponde deciso il mio bisnonno. La tensione é altissima e tutti gli occhi sono puntati verso la figura che imbraccia il fucile. Sono momenti interminabili e il racconto di mio padre è lucido nel descrivere ogni particolare. L'ufficiale scende da cavallo e alzando un braccio si lascia andare un flebile "si distribuisca il rancio per tutti". La tensione sparisce e cento braccia si stringono attorno al mio bisnonno in segno di gratitudine. Tutti i ragazzi hanno gli occhi lucidi di pianto. Niente più salti a ostacoli per il rancio che da quel momento sarà più abbondante. Tutto questo accadeva nel 1917 a Piove di Sacco località "Cristo di Arzerello” presso la casa della famiglia Negrisolo.   Ci sono altre innumerevoli storie di quella guerra insensata raccontate da mio nonno e da numerosi altri testimoni che hanno fortemente impressionato la mia adolescenza nei lontani anni 50 e 60 quando ancora i reduci erano numerosi.   Sono storie di assalti inutili e ripetuti che mietevano giovani vite a migliaia, esecuzioni mediante fucilazione alla schiena perché si abbandonava la postazione quando ormai solo la resa poteva salvare la vita, testimonianze di condannati a morte che parlavano della propria famiglia e invano proclamavano la loro lealtà e innocenza ad una gerarchia militare inetta, ufficiali uccisi per mano di qualcuno che rifiutava di uscire dalla trincea per l'ennesimo assalto, soldati legati fuori della trincea per essersi resi colpevoli di chissà quali colpe, civili massacrati durante i bombardamenti o durante il viaggio di allontanamento dalle zone di guerra, storie di processi ignobili che si risolvevano con esecuzioni e pene severissime anche in presenza di minime colpe.   Una miriade di testimonianze e di orrori che i vecchi di allora raccontavano non senza recriminare la spudorata condotta dei comandi militari e che spesso finivano con l'invettiva nei confronti di uno stato e di una patria che per loro aveva significato solo orrore e morte.   I protagonisti di quelle vicende sono ormai andati, ci restano gli ipocriti monumenti disseminati in ogni dove che ricordano in modo retorico una guerra che fu rifiutata dalla coscienza di tutti i popoli della penisola italica. Ed è lo stesso clima di menzogna che ispira le vicende dei nostri giorni.    


Da La Nuova Sardegna mercoledì 3 ottobre 2007

Cronaca di Tempio

Le due facce della Caserma Fadda
Il campo dei soldati trasformato in discarica
Alle spalle dei nuovi uffici comunali ci sono cumuli di gomme, frigoriferi e inerti

di Giampiero Cocco

Tempio. La ex caserma Fadda, un complesso militare dismesso di oltre 100 mila metri quadrati tra immobili e terreni che il Comune aveva acquisito dal demanio pagando la simbolica cifra di 10 mila lire, è come una medaglia a due facce. Da un lato, quello appena ristrutturato e che ospita gli uffici tecnici comunali e a breve anche l'agenzia delle entrate tutto o quasi è perfetto. Ma sul retro l'abbandono, l'incuria e l'azione dei vandali sono sotto gli occhi di tutti. Un gigantesco deposito di calcinacci, gomme, vecchi servizi igienici, frigoriferi, materiale ferro­so e erbacce, che crescono sui vecchi ruderi ancora da ristrutturare.

Partiamo dall'azione dei vandali, che hanno preso di mira gli infissi di una decina di locali (la ex fureria della caserma Fadda che, negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, ospitò la Brigata Sassari e un reggimento dell'esercito), le cui vetrate e finestre sono state spaccate dal lancio, ripetuto, di sassi. Con il risultato che, per rimettere in sesto il tutto, saran­no necessarie diverse decine di migliaia di euro. Il campo d'addestramento, sul quale si affacciano i ruderi delle ex stalle (diroccate) dei servizi igienici, dei depositi di armi e della vecchia polveriera è diventato un deposito a cielo aperto di rifiuti d'ogni genere. Dalle gomme d'automobili che l'amministrazione comunale recuperò nel bonificare il campo da cross "Sergio Bruschi" a diverse tonnellate di rifiuti speciali come vecchi frigoriferi, materiale ferroso, inerti d'edilizia, cataste di servizi igienici, montagne di detriti. Il tutto inframmezzato dalla rigogliosa vegetazione spontanea che nei decenni ha invaso l'intero perimetro. «Stiamo per bonificare l'intera area — ha spiegato ieri il dirigente dell'aerea tecnica, l'ingegner Giuseppe Pinna — in vista della riqualificazione del secondo lotto che prevede, nell'ex campo d'addestramento, la realizzazione di un giardino e di passeggiate utilizzabili dalla popolazione. Al momento quella zona risulta un'area di cantiere, nel quale sono stati depositati temporaneamente i rifiuti recuperati in diversi siti inquinati con l'operazione Sardegna fatti bella». E per far bella la Sardegna si è riempito il campo d'armi dei soldati con quanto di peggio può esistere sotto il profilo dei rifiuti speciali, ingombranti e inquinanti. L'area, sulla quale si stanno realizzando la cittadella dei servizi e le infrastrutture che ospiteranno il distaccamento dei vigili del fuoco e le caserme degli altri corpi militari (carabinieri e guardia di finanza) presenti in città, è comunque accessibile a tutti. Nessun guardiano notturno, nessun genere di vigilanza. Tanto che i vandali, la notte, la fanno da padrone. Sono riusciti a distruggere la ex fureria appena ristrutturata, e ora attendono che sia completata l'ala che dovrà ospitare l'archivio comunale e del tribunale per rientrare in azione. Dall'ufficio tecnico fanno sapere che, nelle prossime ore, l'intera zona sarà bonificata e debitamente recintata. Con buona pace di quanto i vandali sono già riusciti a distruggere in questi anni di intensi e costosi lavori di ristrutturazione.

Degrado in città immagini del deposito di rifiuti nel campo d'armi della ex caserma Fadda e il nuovo plastico del sito

  

 


Da L’Unione Sarda 11 agosto 2006

All’Asinara sulle tracce dell’esercito dei dannati

Reportage di Carlo Figari

Asinara. Una mandria di cinghiali affettuosi come cagnolini accoglie i turisti appena sbarcati dal traghetto al molo di Fornelli, la porta meridionale dell’Asinara alle 10, sotto il sole d’agosto,arrivano le barche a vela e i gommoni dei charter In pochi minuti l’imbarcadero si affolla di gitanti che prendono d’assalto il chiosco delle bibite e si scatenano con le prime foto ai cinghialetti e al mare la favola. Di fronte si notano subito i muri dell’ex supercarcere che ospitò i boss mafiosi negli anni Novanta. Le giovani guide faticano a raccogliere i gruppi, finalmente si parte per visitare l’isola degli asinelli, nel secolo scorso Cayenna d’Italia, oggi parco naturale con grandi speranze turistiche. I gruppi se ne vanno alla ricerca delle spiagge lasciandosi dietro il forte prigione ormai chiuso e abbandonato dal Ministero. Proprio qui, su questo molo ora silenzioso e deserto, novant’anni fa vennero sbarcati i primi soldati austro-ungarici colpiti dal colera di un esercito di prigionieri ridotti alla stremo dalla fame e dalle malattie. Erano 25-30 mila, almeno ottomila morirono di colera e tifo nell’isola. I superstiti dopo sei mesi vennero trasferiti in Francia. Una storia dai risvolti terrificanti, forse per questo dimenticata. I turisti tirano dritto. A nessuno interessano i ruderi di un campo di prigionia quando hanno davanti uno dei panorami più belli del Mediterraneo. Sulle guide poche righe, nei libri di storia neppure un accenno. Ne parlano una tesi di laurea del 1947, qualche articolo di giornale e un paio di saggi. Tutti citano la stessa fonte: la relazione del generale Giuseppe Carmine Ferrari, all’epoca comandante del presidio dell’Asinara. Un volume del 1929, ingiallito e quasi introvabile. «I documenti sulla vicenda custoditi nell’archivio dell’Esercito a Roma sarebbero spariti», afferma il ricercatore cagliaritano Alberto Monteverde esperto della Prima guerra mondiale e della Brigata Sassari, cercava gli originali della relazione del generale. «Ho trovato le cartelle, ma erano vuote. Nessuno ha saputo dirmi dove siano finiti». C’è anche una contro storia scritta nei 1961 dal capitano Giuseppe Agnelli di Lodi: ufficiale di commissariato fu testimone diretto. Dalle sue pagine esce un quadro infernale delle condizioni del campo con i soldati che vivevano in condizioni inumane, spesso bastonati e lasciati morire per le malattie. Ma questa versione, che contrasta con le fonti sinora note e sull’immagine di un generoso impegno italiano per salvare quella massa di disgraziati è ancora tutta da verificare.

La storia comincia il 18 dicembre del 1915, giornata che si può immaginare ben diversa dai 32 gradi, di oggi. Il freddo e il maestrale d’inverno qui sono padroni assoluti. Nella rada davanti a Cala Reale gettarono la fonda i piroscafi Dante Alighieri e America con cinquemila prigionieri. Dalle navi, con i barconi a remi, iniziò il lento e faticoso traghettamento di quei disperati che di uomini avevano solo le sembianze. Era solo la prima ondata di migliaia di soldati che da lì ai primi di gennaio si riverseranno sull’Asinara, col più grande ponte navale nella storia della Marina italiana. Erano i superstiti della “marcia della morte”, un esercito sconfitto dai serbi sul fronte austriaco e deportato lungo i Balcani. Settantamila partirono da Nich, in 30 mila giunsero al porto di Valona, in Albania, dopo aver camminato senza cibo tra la neve per 77 giorni.. Per loro, affamati, stremati dalle malattie e dalle botte, coperti di stracci e divise a brandelli, la salvezza si chiamava Italia. .Quando sbarcarono a Cala Reale non sapevano neppure di essere arrivati all’Asinara, isola sperduta al nord della Sardegna, ma almeno c’era la speranza di sopravvivere. Nel giro di un paio di settimane il ponte navale si completò e l’Asinara, sino a quel giorno popolata solo da un migliaio di prigionieri catturati nell’agosto precedente e da 350 militari italiani, si ritrovò affollata da trentamila superstiti di un’ armata multietnica e multilingue. Ungheresi, austriaci, boemi, croati, c’era rappresentato tutto l’impero asburgico allo sbando. Un caos indescrivibile,mentre dalle navi sbarcavano i colerosi. «Nei primi giorni morivano a centinaia - racconta Alberto Monteverde: - venivano gettati in mare terrorizzando i pescatori di Stintino e Porto Torres. Nella terraferma giravano voci che agghiacciavano la popolazione e così il prefetto di Sassari ordinò all’Esercito di fermare subito le operazioni. Mentre si annunciava l’arrivo di altre navi cariche di disperati, il generale Giuseppe Carmine Ferrari, comandante del presidio dell’Asinara, organizzò nell’isola un piano di accoglienza mai visto all’epoca e che anche oggi, con i mezzi e la tecnologia moderna, sarebbe difficile realizzare in tempi così rapidi». E tutto riportato minuziosamente nella relazione del generale Ferrari. «Nell’isola - sottolinea la storica Carla Ferrante dell’Archivio di Stato - si trovavano già da tempo una piccola stazione contumaciale per i malati, un ospedale con trenta letti, una foresteria con uffici e magazzini, una direzione sanitaria, quattro baracche, alcuni fabbricati e un forno crematorio. Ma certo non era preparata ad accogliere migliaia di prigionieri in gran parte colpiti da colera e gravissime malattie. Mancava tutto: acqua, luce, scorte alimentari e medicine». Ferrari e i suoi uomini realizzarono in un paio di settimane sei campi: a Fornelli per accogliere i colerosi, Cala Reale, Cala d’Oliva, Stretti, Campo Perdu e infine a Tumbarino. Seguendo le mappe del generale Ferrari è possibile vedere i resti di ciascun campo, nell’itinerario non previsto dai tour organizzati sembra di rivedere la massa di quei dannati aggirarsi tra le tende. Qui a Fornelli i morti di colera furono sepolti a migliaia nelle fosse comuni in riva al mare.

La mattina dei 18 dicembre 1915 i primi .prigionieri dell’esercito austro-ungarico sbarcarono all’Asinara al molo di Cala Reale. «Alcuni erano nudi, altri coperti di indumenti stracciati, altri con panni dati dai marinai di bordo, la maggior parte scalzi. Erano molto depressi, di più erano affamati cosicché si racconta che quando qualcuno mangiava il pane, i compagni raccoglievano le briciole. Si racconta che molti cercavano il nutrimento tra le immondizie e quando un compagno era morto lo lasciavano là vicino per prendersi la sua razione. Appena uno di loro manifestava i sintomi del colera, veniva spogliato delle poche cose». Sono le parole del generale Pietro Marini, comandante del Corpo d’armata di Roma e responsabile in capo dell’operazione di salvataggio dei trentamila prigionieri austro-ungarici che la Serbia aveva passato agli alleati italiani. Con un’imponente ponte navale, soprattutto per l’epoca, la Marina italiana con venti viaggi e una decina di unità. trasportò da Valona alla Sardegna i superstiti della marcia della morte. Da 70 mila si erano ridotti a meno della metà e molti durante il viaggio erano rimasti colpiti dal colera.

L'arrivo. «All’Asinara si era venuti a conoscenza di questa gigantesca operazione» racconta Pierpaolo Congiatu: «proprio mentre arrivavano i primi piroscafi con cinquemila uomini, affamati e malati, non solo di. colera ma di ogni malattia che quei fisici ridotti a scheletri avevano contratto durante i due mesi della marcia tra i monti coperti di neve dei Balcani. l’isola non era preparata ad accogliere una massa cosi imponente, eppure a tempo di record fu trasformata in un gigantesco accampamento». Pierpaolo Congiatu, ingegnere e responsabile dei servizi tecnici del nuovo parco dell’Asinara, da anni si interessa con passione della Storia della Cayenna d’Italia. Documenti, fotografie, memorie, ma anche - grazie. alla sua specializzazione tecnica cerca di ritrovare le tracce sul terreno degli eventi che si sono succeduti dal 1885 ai primi anni Novanta. Per un secolo la stupenda isola degli asinelli ha ospitato prigionieri di ogni nazionalità e genere: dagli anarchici dell’Ottocento ai boss mafiosi rinchiusi nel supercarcere di Fornelli. Tra il dicembre del 1915 e il luglio del 1916 accolse tra 25 e trentamila prigionieri dell’armata austro-ungarica sconfitta dai serbi sul fronte dei Balcani e consegnati all’Italia durante la ritirata da Nisch a Valona.

Dimenticati. Una pagina quasi sconosciuta e ormai dimenticata. Ma non da Congiatu che con le mappe del tempo e i pochi documenti disponibili tenta faticosamente di ricostruire. E’ un itinerario, da Fornelli a Cala d’Oliva sull’altro capo dell’isola, che tocca i sei campi realizzati per accogliere quella torma di disperati. «Certo, i turisti che arrivano ogni giorno a centinaia non si fermano qui per ascoltare una storia lontana e per loro probabilmente poco interessante.. Ma per noi è importante recuperare ogni tassello di questa vicenda che ha visto l’Italia, appena entrata nella Prima guerra mondiale, compiere uno sforzo gigantesco per salvare la vita a migliaia di soldati che morivano ogni giorno di fame e di colera. Fu una missione umanitaria eccezionale per l’epoca, se si pensa all’impegno bellico che si stava affrontando sul fronte alpino»

Museo. Obiettivo di Congiatu, che trova d’accordo il nuovo direttore del parco Carlo Forteleoni di aprire nei locali restaurati del Palazzo dell’amministrazione un piccolo museo della storia dell’Asinara . «Una sala sarà dedicata interamente a questa tragica vicenda con i reperti che stiamo raccogliendo - dice - lapidi, epigrafi, statue, e sculture fatte dai prigionieri, pochissimi oggetti ritrovati a cui si potranno aggiungere foto, filmati e video per illustrare quegli otto mesi in cui l’isola si trasformò in un’autentica Babele. Arrivarono uomini dell’esercito austro-ungarico provenienti dall’impero asburgico in disfacimento: con austriaci e ungheresi migliaia di croati, boemi, slovacchi, rumeni, russi e bulgari». Non è un caso che l’ingegnere col gusto della storia si occupi di tutto questo. «Sono di Porto Torres - spiega - e sin da bambino restavo affascinato dalle storie che i grandi raccontavano. L’Asinara era una sorta di isola mitica, popolata da animali esotici, pesci rari, dove potevano accadere i fatti più fantastici. E tutti ci credevano. In più mia madre è stata per diversi anni maestra nell’isola e grazie anche a lei ho cominciato ad appassionarmi». Quando si è affacciata l’opportunità di un lavoro nel nascente parco nazionale è stato quasi naturale occuparsi di quei racconti che sentivo da bambino dalle favole alla storia

Il diario. Esiste un raro documento che ricostruisce passo passo con militare pignoleria la tragedia di 90 anni fa. E’ il diario del generale Giuseppe Carmine Ferrari, all’epoca comandante del Presidio dell’Asinara. «Fu lui ad organizzare le operazioni di accoglienza e a tempo di record. Dalle sue pagine. emerge la cronaca quotidiana degli arrivi, dei decessi, delle enormi difficoltà per curare i colerosi, per assistere i moribondi, ma soprattutto per dare vestiti, cibo, coperte e almeno una tenda a quelle. migliaia di disperati che continuavano a sbarcare come un fiume inarrestabile»,dice Congiatu. Per far fronte all’emergenza ci fu una vera mobilitazione: medici e personale sanitario furono inviati da Cagliari e Sassari, ingenti quantità di farina, riso e viveri nonostante la penuria dell’economia. di guerra dai magazzini di Porto Torres. Per vestire quella massa di soldati seminudi e scalzi spedirono berretti, giubbe, scarpe e pezze da piedi, ma anche il necessario per l’accampamento tende, stuoie, coperte, paglia, gavette, forni, attrezzi da lavoro e persino strumenti musicali. Dopo otto mesi i quindicimila superstiti, in gran parte. ristabilitisi saranno imbarcati su tre navi e trasportati a Tolone per essere consegnati all’esercito francese. Nell’agosto del 1916 l’Asinara era di nuovo deserta, i campi con gli ospedali, le tende e le baracche, smontati o abbandonati. Cosa è rimasto oggi?

Fornelli. «Qui a Fornelli - riprende il filo Congiatu - furono subito portati i malati di colera». A mezzo chilometro dal molo dove oggi approdano i traghetti con i turisti, sono ancora in piedi i ruderi del cimitero con al centro una misteriosa cappella. Quando e da chi fu costruita? Nessuno ha saputo dare una spiegazione. Sicuramente dai prigionieri, ma l’architettura lascia stupiti. «Aveva una cupola come una piccola moschea, le finestre sono moresche, ma l’interno con capitelli e muri dipinti sono di stile diverso», dice l’ingegnere: «Nella sagrestia si nota un lastrone di marmo. Non è un altare. ma il tavolo per le necroscopie: si notano i fori per far scolare il sangue». All’interno del recinto sono state trovate centinaia di tombe, le ossa raccolte e portate all’ossario dei caduti costruito negli anni Trenta davanti a Campu Perdu. «Ma ce ne sono tante altre. Anche in riva, dove i cadaveri dei colerosi venivano sepolti nelle fosse comuni. Per anni il mare ha scavato le tombe scoprendo gli scheletri». Il diario del generale Ferrari annota puntigliosamente i morti del giorno: a centinaia in dicembre e gennaio, poi si riducono a 20, 30 a febbraio, ad aprile il colera è sconfitto. Il virus era esploso a bordo delle navi, probabilmente contratto durante la terribile marcia nei Balcani. I primi cadaveri vennero gettati in mare e i malati lasciati a bordo, nel frattempo che a terra si costruivano gli ospedali e le fosse. Poi si isolarono nel campo di Fornelli. Dopo gli arrivi di dicembre, le navi continuarono senza sosta il ponte con l’Albania. I prigionieri giungevano a ondate di migliaia. Nell’isola mancava tutto, ma Ferrari, riuscì ad ottenere il necessario. «Pensate solo all’acqua per dissetare tanta gente» dice l’ingegnere «Furono scavati pozzi e costruiti serbatoi vicino ai moli dove potevano approdare le navi cisterna. I primi cinquemila vennero accolti a Cala Reale dove già esistevano alcune strutture ospedaliere e baracche, poi vennero realizzati i campi a Cala d’Oliva, Stretti, Campu Perdu, a Fornelli per i colerosi e infine a Tumbarino. Ovunque si notano oggi ruderi degli ospedali i forni crematori, i basamenti di pietra su cui erano montate le tende, i cippi funerari ». Il più desolato è il cimitero degli italiani militari e civili morti tra le due guerre, sepolti anche bambini di un anno, croci di legno abbattute, lapidi frantumate, il muro cadente. Il generale tenne una contabilità quotidiana, ma era impossibile conoscere il numero esatto degli sbarcati di quelli che morivano nell’indifferenza degli stessi compagni. Verso febbraio la vita nei campi cominciò a normalizzarsi, i prigionieri curati e sfamati come possibile con gallette, carne in scatola e minestre, poterono lentamente ristabilirsi. Molti cominciarono a lavorare come contadini, artigiani, scalpellini, giardinieri. Tra loro c’erano numerosi artisti che costruirono cappelle, monumenti funebri e statue. In un’iscrizione a Tumbarino si legge ancora: «Grazie all’Italia nostra salvatrice». Quando l’ultimo convoglio si apprestava a salpare verso la Francia, da bordo della nave Seine, i 1200 prigionieri si tolsero i berretti e salutarono gridando più volte «Viva l’Italia ».

L'Asinara. L’epigrafe dedicata al generale Ferrari non si può vedere. Devastata dal tempo e ritrovata in mezzo agli arbusti ora è custodita in un magazzino in attesa di un restauro e di una collocazione. L’avevano scritta i prigionieri austriaci per ringraziare il comandante dell’Asinara poco prima di lasciare l’isola per essere trasferiti in Francia. Nell’inverno del 1916 il paradiso dei turisti di oggi era diventato nel volgere di un paio di settimane, un girone dantesco. Un vero inferno in cui si ritrovarono reclusi per otto mesi trentamila prigionieri dell’esercito austro-ungarico. C’è un documento, praticamente sconosciuto di un ufficiale di Lodi che fu testimone di quella tragedia. Nel racconto lasciato dal capitano di Commissariato Giuseppe Agnelli emerge un quadro ben diverso da quello descritto dal generale Giuseppe Carmine Ferrari. Agnelli fu inviato all’Asinara per contribuire alla missione di soccorso. La sua testimonianza, pubblicata nel 1919 sul giornale socialista l’Avanti! subito dopo la fine della guerra, fu criticata e poi censurata perchè ribaltava l’immagine positiva degli italiani che avevano sconfitto il colera e salvato migliaia di uomini. Agnelli ormai anziano, ci riprovò nel 1961 con un saggio di memorie ritrovato da uno studioso trentino. Il suo racconto è terrificante: i militari italiani furono spietati lo stesso Ferrari diceva «senza reticenze che il bastone era il vocabolario col quale dovevasi discorrere con i prigionieri». Arrivarono qui a ondate da Valona, con un gigantesco ponte navale messo in atto dalla Marina militare italiana. Affamati, ridotti a scheletri, seminudi e scalzi, la maggior parte stremata da ogni genere di malattie. A centinaia colpiti dal colera morivano sulle navi prima ancora di essere sbarcati, gli altri finirono. nel campo-lazzaretto che fu costruito in pochi giorni nell’area di Fornelli, tra la riva e il supercarcere dove sino agli anni Novanta furono rinchiusi i boss mafiosi e i terroristi.

Missione umanitaria. La prima nave, guarda caso si chiamava Dante Alighieri, spuntò davanti alla rada di Cala Reale il 18 dicembre 1915. Nel giro di pochi giorni sbarcò una marea umana sull’isola sino a quel momento praticamente deserta. Secondo il minuzioso diario del generale Carmine Giuseppe Ferrari, che organizzò l’accoglienza, la costruzione di otto campi con tende e ospedali il trasporto di viveri, medicine e di ogni necessità, fu possibile salvare quindicimila di quei 25-30 mila disperati. A leggere le pagine della sua relazione fu un’impresa umanitaria eccezionale per quei tempi, che sarebbe stata difficile realizzare anche oggi. A testimonianza i ringraziamenti dei superstiti poco prima di partire per la Francia e alcuni monumenti lasciati nell’Asinara.

Monumenti. A Campu Perdu c’era una statua celebrativa scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess, un’autentica opera d’arte. Spuntava tra la macchia mediterranea sino a una decina di anni fa poi nel passaggio dall’amministrazione penitenziaria all’Ente parco sembra scomparsa. Rappresentava (si vede in una vecchia foto) un eroe e nel basamento una folla di uomini nudi e disperati. «Questa statua era intitolata “Il lungo viaggio”» racconta il professor Laszlo Lorinczi, ungherese studioso da tempo trapiantato in Sardegna: «Da, un lato l'artista voleva rivelare al mondo le atroci sofferenze che i suoi connazionali avevano subito durante la terribile marcia nei Balcani, dall’altra il trionfo della speranza, della solidarietà dei popoli e della vita. Insomma, un ringraziamento agli italiani che avevano salvato e curato i sopravvissuti dei 70 mila che avevano marciato per due mesi da Nisch a Valona». L’anziano professore ha un sogno: «Non so che fine abbia fatto quella statua, ma vorrei che venisse realizzato un nuovo monumento a forma di stele con i simboli della nostra nazione per ricordare gli otto, novemila ungheresi morti all’Asinara».

I campi. La strada di cemento che da Fornelli porta a Cala Reale si snoda tra un paesaggio da sogno nel parco nazionale. Novant’anni fa per otto mesi l’Asinara si ritrovò sommersa da questi trentamila prigionieri (impossibile stabilire la cifra esatta). Sulla collina di Stretti, dove furono sistemati due campi, cresce ancora la cipolla canina. E’ una sorta di peyote sardo: dicono che in piccole dosi dia euforia, ma basta mangiarne un paio per morire tra atroci dolori. «Quei poveretti, vinti dalla fame, cercavano ogni cosa commestibile: molti, che avevano raccolto le cipolle velenose, morirono su questa collina» ricorda Pierpaolo Congiatu, studioso delle storia dell’Asinara. Congiatu mostra i ruderi di Tumbarino: si notano bene i circoli di pietra su cui venivano montate le tende, i muri dove c’era l’ospedale, il molo dove approdavano i barconi e vicino alla riva anche il serbatoio per raccogliere l’acqua che veniva scaricata dalle navi-cisterna (nell’isola non c’erano pozzi e l’approvvigionamento era uno dei problemi prioritari). Qui a Tumbarino negli anni del supercarcere isolavano i pedofili e i detenuti pericolosi. Da lontano nel silenzio si sentivano le loro urla. I prigionieri austriaci, superata l’emergenza colera, vestiti e alimentati come possibile, dal marzo in poi cominciarono a ristabilirsi. Molti lavoravano nei campi e con il bestiame, altri facevano gli operai e gli artigiani, a centinaia furono inviati in Sardegna per occupare i vuoti lasciati dagli uomini partiti per il fronte. Tracce del loro passaggio a Ussana, lglesias, Sinnai, nelle miniere di Montevecchio e del Sulcis.

Artisti. In quella Babele di lingue e culture c’erano numerosi musicisti e artisti. Hanno costruito cimiteri, cappelle, monumenti funebri. A Tumbarino, girando tra i ruderi dell’ex campo, si scopre il basamento scolpito con un impressionante bassorilievo. La statua è scomparsa, anche questa, ma la scultura mostra le figurine di quei disperati. Ma chi erano i prigionieri?

Cannibalismo. Racconta il capitano Agnelli: «Rappresentavano l’avanzo di ben 70 mila uomini dell’esercito austro-ungarico che nel 1914, all’inizio della guerra contro la Serbia, erano stati catturati. Nell’autunno del 1915 in seguito all’offensiva del formidabile esercito tedesco, i serbi furono costretti alla ritirata trascinandosi dietro la massa dei prigionieri austriaci. Fu una vera odissea a piedi tra i monti innevati dei Balcani. Per settanta giorni vagarono senza un piano preciso, morendo a migliaia di stenti e percosse». «Ci furono persino casi di cannibalismo», racconta in una lettera uno dei superstiti. «Siffatto era il terrore che dominava la famelica turba fuggente e così forte era l'istinto di sopravvivenza che neppure amici e parenti si fermavano a soccorrere chi si lasciava andare sfinito. Si nutrirono di erbacce, topi, ogni qualità di rettili abbruciacchiati e divorati con voracità felina» scrisse con il linguaggio dell’epoca il capitano Agnelli raccogliendo - sostiene -le testimonianze dei sopravvissuti.

Colera. In gran parte in preda alla dissenteria e ridotti a pelle e ossa arrivarono a Valona in trentamila. Nel porto albanese scoppiò il colera. I prigionieri dovevano essere consegnati alla Francia, ma la notizia dell’epidemia consigliò i governi alleati di frenare il contagio chiedendo aiuto all’Italia. Così si decise di trasportarli all’Asinara considerata il Lazzaretto del Mediterraneo. Durante il tragitto in nave continuavano a morire tra atroci dolori. I cadaveri venivano gettati a centinaia in mare, qualcuno fu rinvenuto sulla costa di Alghero o finì nelle reti dei pescatori sardi. L’Asinara era praticamente deserta e mancava di tutto. Agnelli ricorderà per tutta la vita il maestrale che soffiava senza tregua impedendo alle navi di portare viveri e soccorsi. In queste condizioni per la completa assenza di cure, anche rudimentali le vittime furono centinaia al giorno «Sì che, non appena furono assestati in maniera soddisfacente i campi» sottolinea il capitano «i prigionieri si erano ridotti a ventimila» I cadaveri venivano sepolti nelle fosse comuni e accatastati vicino alla spiaggia in attesa dell’inumazione. Unico cibo gallette e scatole di carne, solo dopo un mese si vide la carne fresca e il brodo, il pane, che si preparava a Porto Torres, quando c’era maestrale finiva ad ammuffire nei magazzini. I medici italiani lasciarono ai loro colleghi austriaci il compito di assistere i colerosi,mancavano le medicine per le cure usavano limoni e aranci. Ai Fornelli non si faceva in tempo a scavare le fosse comuni. I prigionieri si impossessavano dei vestiti dei morti e preferivano tenersi vicini per giorni i cadaveri pur di prendere la loro razioni. «Non c’era niente, in compenso abbondava il bastone. I carabinieri sorvegliavano coi randello in mano e a ogni minima infrazione alla disciplina erano legnate sulla testa e sulle spalle». Agnelli vide «infinite scene di bestiale violenza e ufficialetti troppo ligi che per dimostrare la loro energia facevano legare al palo i disgraziati colpevoli di voler saziare la loro fame». Solo il ritrovamento di altri documenti e futuri studi potranno stabilire come andarono gli eventi. Oggi restano i ruderi di una storia dimenticata.


Da L'Unione Sarda 11 Agosto 2006

Il ricordo della scrittrice svedese

Nella pancia del tonno il bottone di una divisa serba

C.F.

Che l’Asinara fosse un inferno negli anni della guerra era un fatto ben noto tra la popolazione del nord Sardegna. Nei primi tempi i pescatori di Stintino e di Porto Torres trovavano cadaveri impigliati nelle reti e qualcuno finiva anche a riva. Nell'immaginario collettivo si vedevano quelle migliaia di prigionieri vagare come fantasmi nell'isola trasformata in una gigantesca Cayenna. Ecco il racconto della scrittrice svedese Amelie Posse Brazdova nel suo libro di memorie "Interludio di Sardegna" (tradotto da Aldo Brigaglia e stampato dall'editrice Tema nel 1998). Colta dallo scoppio della guerra in Italia, la donna sposata al nobile ceco Oki Bràzda, fu internata ad Alghero. Spesso però poteva recarsi a Sassari: «Un giorno stavamo pranzando come al solito nell'afosa saletta interna del ristorante tra una folla chiassosa... Avevo detto al cameriere che volevo tutti i giorni pesce, ma quel giorno sul menù c'era solo tonno fritto: dovetti accontentarmi. Stavo masticando e deglutendo con molta riluttanza quando il cameriere venne a chiedermi se per caso non l'avessi gradito. Risposi che era tremendamente grasso. Se ne usci nel dire che non c'era da meravigliarsi che fosse grasso visto che quel tonno era stato catturato nei pressi dell’Asinara dove ogni giorno venivano buttati in mare centinaia di morti: "un bel terreno di coltura!". E a riprova di ciò si tolse di tasca il bottone di un ufficiale serbo (probabilmente era austro-ungarico,ndr) che il cuoco aveva trovato proprio nello stomaco di quel pesce. Con un sorriso smagliante mi chiese se volevo tenerlo come ricordo»,


Da L'Unione Sarda del 11 Agosto 2006

La tesi di Laslo Lorinczi

I numeri ufficiali non tornano: i morti furono migliaia in più

C.F.

L’odissea dei trentamila prigionieri austro-ungarici si conclude nel mistero. Manca il finale perché le tracce dei superstiti della "marcia della morte", salvati dal ponte navale messo in atto dagli italiani, si perdono nel luglio del 1916 in Francia. Scomparsi. Ed è un mistero anche il numero complessivo delle vittime. Il professor Laszlo Lorinczi è uno studioso ungherese: da molti anni si occupa delle vicende del suo popolo. Originario della comunità ungherese della Transilvania, in Romania, ha vissuto a Bucarest sino alla caduta del regime di Ceaseascu. «Tutti gli anni più duri dei vari regimi comunisti», dice. A lungo ha diretto riviste di lingua e cultura ungherese è dopo il 1989 ha insegnato all'università. All'età di 82 anni oggi vive in Sardegna, a Settimo San Pietro, dove ha raggiunto la figlia Marinella docente nell'ateneo di Cagliari e moglie dell'antropologo scrittore Giulio Angioni. In ungherese ha tradotto Dante, Quasimodo, Sciascia, Pavese, Moravia, Pasolini. «Alcuni di questi grandi scrittori furono comunisti, ma non sapevano cosa fosse il comunismo. Professavano bene, ma non furono nella loro vita privata esempi di moralità», sostiene lo studioso che ha dovuto lottare contro uno dei regimi più bui dell'era sovietica.

Il professor Lorinczi appena arrivato in Sardegna ha cercato di approfondire le sue ricerche sulla tragedia dell'armata scomparsa. «Intanto - dice - bisogna chiarire che in Occidente si è sempre fatta confusione sul significato del termine austro-ungarico. Da voi si è sempre creduto che fosse un confuso miscuglio di popoli non meglio definiti. In realtà l'esercito austro-ungarico era formato da tanti eserciti etnici, ben distinti per lingua e cultura. Nella prigione dell'Asinara questo fatto è ben rappresentato. Su 30 mila deportati ben 10 mila erano croati. Gli slavi erano sicuramente il gruppo più numeroso. Poi gli ungheresi: secondo i miei calcoli, 8-9 mila, almeno metà morti di colera e malattia nell'isola sarda. Il resto era composto da romeni, bulgari, russi e ruteni, polacchi, in un'autentica Babele linguistica. Gli uomini della mia terra, la Transilvania, non sapevano neppure perché e per chi stessero combattendo».

Seguendo le tracce dei prigionieri dell'Asinara Lorinczi ha scoperto che centinaia furono inviati a lavorare nelle miniere di Montevecchio, di Monte Nava, Bacu Abis e nei campi per coprire i vuoti lasciati dai sardi finiti al fronte. «Ho saputo che la pineta di Sinnai, vicino a dove abito, fu piantata da loro nel 1916. Molti restarono qui anche dopo la guerra».

Secondo lo studioso ungherese le cifre ufficiali non tornano. «Nel giugno del 1916 giunse l'ordine di trasferire tutti i prigionieri in Francia, a Tolone. Arrivarono tre navi che trasportarono 16 mila militari. Se aggiungiamo a questi gli ottomila morti per colera, si arriva a 24 mila. E gli altri? Forse i morti nell'isola furono più di quelli sinora indicati. Da molti anni - continua lo studioso - mi occupo dei prigionieri ungheresi nella Prima guerra. In Francia c'erano 200 campi. A migliaia furono rinchiusi nell'isola dell'Atlantico, davanti a Nantes chiamata Noir Moutier, un monastero medievale trasformato in carcere. Ma neppure qui ho trovato documenti sui deportati dalla Sardegna». Probabilmente finirono nei campi, arruolati a forza nella Legione straniera oppure inviati a combattere sui fronti lontani dai loro paesi d'origine. Le notizie si fermano al porto di Tolone. Sembra che questa massa di prigionieri sia praticamente svanita.


Da Il Giornale di Vicenza del 6 settembre 2008  

La montagna restituisce sette soldati

Arsiero. Eccezionale ritrovamento al Soglio Melegnon sull’altopiano di Tonezza nell’ambito del progetto finanziato dall’Amministrazione provinciale . LA MONTAGNA RESTITUISCE SETTE SOLDATI. Probabilmente uccisi durante l’offensiva della Strafexpedition, i corpi finirono in una fossa naturale   Da lontano sembra quasi una capanna, magicamente spuntata al limitare del bosco davanti ad alcune mucche che, ignare di tutto, pascolano nella vicina radura. Sotto il telo di nylon che ricopre lo scavo, invece, mani esperte lavorano con certosina pazienza per portare alla luce i poveri resti. Sono di sette corpi, in totale, le ossa sepolte nell’umida terra: un ritrovamento multiplo definito eccezionale dagli addetti ai lavori. Sette soldati italiani, caduti durante la Strafexpedition e finiti nella lista dei dispersi, ai quali si cercherà ora di dare un nome.   QUOTA MILLE. Il rinvenimento - avvenuto ad oltre mille metri di quota nei pressi del Soglio Melegnon, a qualche chilometro da Tonezza ma nel territorio comunale di Arsiero - rientra nel progetto di recupero delle salme della Grande Guerra finanziato dalla Provincia di Vicenza: un’iniziativa che unisce discipline diverse allo scopo di identificare i caduti di quel tremendo conflitto, come è positivamente avvenuto con il soldato trovato sulla Costa d’Agra lo scorso anno con la collaborazione di Onorcaduti. L’operazione, scaglionata in più fasi durate diversi giorni, è stata autorizzata dalla Procura vicentina e condotta sotto la supervisione dell’Unità di medicina necroscopica e anatomia patologica forense dell’Ulss 6. L’intera area di scavo è stata sottoposta dall’anatomo-patologo Andrea Galassi al laser-scanner - strumento utilizzato anche nelle scene del crimine - che permetterà in seguito di ricostruire perfettamente il sito, ad esempio in un museo. È stata poi suddivisa in quadranti ed ognuno fotografato, per una successiva ricostruzione grafica d’insieme a computer. L’antropologo Daniel Gaudio del Laboratorio di antropologia forense di Milano (Labanof) ha seguito il recupero assieme ad Andrea Betto, Alice Rosa e Matteo Serena, il team di archeologi dell’Università di Padova (dipartimento di archeologia, facoltà di lettere e filosofia), allievi del prof. Armando De Guio, incaricati di estrarre dal suolo gli scheletri.   LO SCAVO. «È un lavoro lungo e complesso, reso ancor più difficile da caratteristiche del terreno, vicinanza dei corpi e fragilità delle ossa», spiega Betto, intento a "spazzolare" da un cranio la terra umida. Nel mentre salta fuori una grossa scheggia di granata: probabilmente il soldato è deceduto per quella ferita alla testa. «Operiamo con metodo scientifico, per non fare danni - aggiunge Gaudio - e nello stesso tempo non perdiamo di vista le finalità etiche dell’iniziativa: dare un nome a questi soldati e ricostruire le circostanze della loro morte». Ad osservare le operazioni anche il sindaco di Arsiero Tiziano Busato e Roberto Mantiero e Giacomo Tessarolo, dell’Associazione 4 Novembre di Schio, che ha collaborato all’iniziativa e che ne pubblicherà i risultati sulla rivista "Forte Rivon". Ma sono in programma anche conferenze e mostre, col contributo del Museo delle forze armate di Montecchio Maggiore. «È il minimo - dice Siro Offelli, responsabile del soccorso alpino arsierese che ha guidato la spedizione-: un ritrovamento di questa portata non era mai avvenuto in anni recenti».


Da STAMPA di Torino del 29/10/08

Articolo di Sapegno Pierangelo e Perotti Antonella

CHIERI (TORINO) Questo e' Johann Payr, che aveva 23 anni. Aveva solo una croce di pietra nell'aiuola, dentro al cimitero di CHIERI. Non aveva nient'altro. Neanche un fiore. Nemmeno un passato. Poi Chiara e Roberta lo hanno adottato assieme ai loro compagni della terza C: hanno scritto al consolato austriaco, l'hanno cercato su internet, e hanno trovato il suo paese, hanno rintracciato i nipoti, hanno chiesto una sua foto. E hanno riscoperto la sua vita. Johann Payr aveva un podere a Netters, in Austria, ed era un prigioniero di guerra mandato a lavorare i campi a CHIERI, dove l'aveva ucciso la «spagnola» il giorno di Natale del 1918. La spagnola era un'influenza, che fece piu' morti della Grande guerra. Johann era uno che stava bene, era un ricco, anche se ha due baffetti mosci e una faccia triste che viene senza vento da quegli anni lontani, da un secolo fa. Come lui erano morti in 25 a CHIERI, PRIGIONIERI di guerra AUSTRIACI: e a tutti loro, uno per uno, la terza C della scuola media Quarini ha ridato un nome, una memoria e qualcosa della vita che avevano perso. Adesso quell'angolo di cimitero ha persino riacquistato un po' di luce: le foto sulle croci, la ghiaia e i fiori. Erwin Schmidl, direttore del Dipartimento di Storia contemporanea dell'Accademia della Difesa di Vienna, ha scritto una lunga lettera ai ragazzi per ringraziarli di quello che stavano facendo: «... proprio nei tempi dell'Europa unita la vostra iniziativa mi sembra straordinariamente importante e degna di lode». La delegazione Domenica e lunedi' verra' una delegazione austriaca a CHIERI e scenderanno i familiari per rendere per la prima volta omaggio ai loro morti dimenticati, tutti in parata, con il sindaco di CHIERI, Agostino Gay, e i rappresentanti della Croce Nera di Vienna. Miracoli della pace. O delle scuole. Perche' fa un certo effetto adesso vedere questi bambini dagli occhi grandi che fanno gli storici e i giornalisti con i loro 13 anni appena: il sito su internet, l'inchiesta e la ricerca costruite assieme, gli appunti e i faldoni accumulati, scrivendo in Austria e sfogliando gli archivi come dei piccoli investigatori. Roberto De Stefanis, l'insegnante che li ha guidati in questo lavoro, spiega che «all'inizio la molla era stata solo quella di ritrovare le famiglie per ridare dignita' a queste persone sepolte. Il resto e' venuto dopo, la ricerca sul periodo storico, la scoperta di una realta' sconosciuta, la passione per il lavoro su internet». L'idea era venuta per caso, davanti a quelle aiuole misere, a quelle croci di pietra, senza volti, senza fiori, senza niente. Erano 25, tutti AUSTRIACI. Ma perche' erano li'? I ragazzi hanno cominciato a cercare la risposta negli archivi, chiedendo aiuto a Silvio Selvatici, dell'Opera Nazionale per i Caduti senza croce». «L'Arco», il giornale di CHIERI del 1918, raccontava che «non c'era piu' gente nei campi e che la citta' aveva bisogno di 300 persone per lavorare la terra». I giovani erano tutti al fronte. Chiesero aiuto a Roma. Li accontentarono in parte: mandarono 40 PRIGIONIERI di guerra. Il costo, rivela ancora il quotidiano locale, «era di una lira e 80 centesimi al giorno per ogni bracciante». Li sistemarono al convento di Sant'Andrea delle suore cistercensi. Di quei 40, ne morirono 25, questi che sono qua. Un mondo sconosciuto La prima cosa che fecero gli studenti della terza C fu quella di scrivere al Consolato e all'Ambasciata, per avere indirizzi, paesi, numeri di telefono. Da li' partirono per ottenere foto, contatti, biografie. Ma la cosa che piu' li colpiva, andando avanti nel lavoro, era la scoperta di un mondo sconosciuto e di una realta' che credevano inesistente: «un paragone impossibile con la nostra vita», come dice Dario Ormea, con i suoi 13 anni belli, che assieme a Simone Arduino era addetto alle foto. Poco per volta, i ragazzi hanno ridato una memoria a quei nomi senza passato. Hanno contattato le loro famiglie, hanno ricostruito le loro esistenze, dal piu' giovane, Johann Griesbaner, che aveva appena 18 anni, al piu' anziano, Andreas Lux, che ne aveva 44. Qualcuno di loro era ungherese, come Johann Cepo', 36 anni, che veniva da un paesino con un nome impronunciabile, Felsoschihloy, ma la maggioranza austriaca. Morirono per gli stenti, uccisi dalla tubercolosi e dalla spagnola. La lezione Johann Payr e' un po' il simbolo di quel mondo dolente, figlio maggiore di Andre' Payr, proprietario di un podere a Natters, e di Walpurga Payr. C'erano due fratelli in prigione con lui. Lo seppellirono loro. Sua sorella oggi ha 4 nipoti che verranno a trovarlo, assieme a quelli di Johann Schushter, che invece era un poveraccio con 8 fratelli che fece la guerra per disperazione e si fermo' qui l'8 ottobre del 1918, a 43 anni, stroncato dalla miseria. Chissa' se c'e' una lezione in tutto questo. «Il valore della pace», come dice il professore, Roberto De Stefanis. «I ragazzi hanno imparato a conoscerlo». Forse e' cosi'. Una di loro, Sabrina, dice la stessa cosa. Solo che lo dice con le parole di una che ha tutta la vita davanti: «Ci ha aiutato ad avere rispetto degli altri. Perche' non sono solo una croce di pietra».


Da L'Altopiano del 16 ottobre 2010

Una croce allo Sprunk, luogo intriso del sangue dei giovani italiani

di Beppa Rigoni Scit

Archivio Mario Sacca'

Una croce in legno essenziale disadorna uguale a quelle dei vecchi cimiteri di guerra (i tre del Mosciagh ad esempio) è stata da poco piantata, a fianco della voragine dello Sprunk, in memoria dei 12 soldati della brigata Catanzaro fucilati sul posto e pare gettati nella voragine, anzi nella foiba, per cancellare le tracce del misfatto. E’ proprio di questi giorni la sua benedizione da parte di Don Floriano Abrahamowicz, prete lefebvriano viennese, per quel senso di universalità della morte e del dolore, che non han trincee né confini. Don Floriano aveva visitato i luoghi in cui sono caduti anche i suoi conterranei, già nel 2002, dove aveva accompagnato anche il Principe austriaco Xent Sch?nburg. La croce porta un cartello con i nomi dei 12 soldati fucilati e scaraventati nell’orrido, in quanto ritenuti disertori: lì giacciono, a meno 87 mt., humus della terra per la quale sono stati immolati. Le ricerche storiche e il sopralluogo allo Sprunk, effettuati dal Dr. Mario Saccà, catanzarese, hanno dimostrato l’esatto contrario, malgrado le molte ambiguità contenute nella redazione dell’inchiesta parlamentare su Caporetto. Questo semmai è uno dei tanti casi registrati di incapacità e indegnità della classe dirigente militare, come ampiamente documentato nei processi subito successivi il 1918. Dal giornale  “L’Avanti” del 1919, la lettera di un ufficiale: “Caro Avanti”, la campagna da te intrapresa contro i fucilatori è sacrosanta e tutti gli onesti, qualunque sia il partito di appartenenza, devono approvarla. Chi potrà mai descrivere l’orrore delle decimazioni ordinate da comandanti di Corpi d’Armata e di Divisioni?…” Malnutriti, malarmati, esausti, senza cambi in prima linea, pieni di pidocchi e malattie, terrorizzati dallo strapotere nemico, ciononostante sempre avanti allo stremo delle forze. Lunghe le notti del 26 e 27 maggio 1916 sul Moschiagh e sullo Sprunk, fra una bufera di fuoco e un diluvio di grandine e d’acqua…ordini, contrordini, visibilità zero, fragore a mille, sbandamento: “…In un tratto della prima linea si determinò il panico e gruppi di soldati fuggitivi si abbatterono sulle linee retrostanti, mentre alcuni graduati gridavano: “Ritiratevi, scappate, sennò vi fanno prigionieri”. Alcuni cariaggi d’artiglieria, i cui cavalli si erano imbizzarriti per l’uragano, piombarono tra le tende dietro la prima linea: tutti questi fattori determinarono lo sbandamento di centinaia di soldati che si sparpagliarono nei boschi intorno. Molti furono raccolti, riuniti e ricondotti in linea, altri si persero e solo il mattino dopo, tornarono al reparto. Qualcosa non era funzionato nel comando e gli ufficiali catturati dal nemico in quella battaglia, presentarono precisa relazione in merito alla Commissione d’inchiesta…”. In quel caso, non spettò al tribunale di guerra decidere, ma alla “giustizia” sommaria, perpetrata per il timore dell’esonero dal comando, visto l’andamento della “Strafexpedition”, da Cadorna stesso. In 12 vennero sorteggiati e passati per le armi: il S. Ten. Giovanni Romanelli; i Serg.: Celeste Tabaion, Angelo Losso, Ferdinando Catalano; i Caporali: Giuseppe Fruci, Angelo Andreoni, Giuseppe Serio e i Soldati: Gennaro Del Giorno, Antonio Rega, Felice Bruno, Giuseppe Cerruta, Bruno Lacopo. (Analogo destino, fu inferto il 16 luglio 1917, ad altri fanti, sul Carso, a S. Maria La Longa). Il colmo è che quegli stessi soldati contribuirono all’assegnazione della medaglia d’oro concessa dal Re Vittorio Emanuele III, al loro Reggimento (il 141°) per il valore dimostrato al Mosciagh! Negli anni successivi perfino le famiglie dei fucilati, nei loro paesi, subirono per anni ritorsioni e terra bruciata. Stessa sorte toccata in modo ufficiale in tutta la penisola, a preti, suore, insegnanti, pubblici ufficiali, parenti e affini di disertori o presunti tali. Non era bastata la loro perdita? O in cambio del non aver mai raccontato la verità, metterci una pezza, con la concessione di una simbolica pensione? Già nel 1933, grazie alle testimonianze e alle pressioni della stampa dell’epoca, ci fu un primo gesto di riconoscimento del torto inflitto da parte di Re Vittorio Emanuele III, che volle presenziare a Catanzaro, all’inaugurazione di un monumento alla memoria, gesto dimostrativo di presa di distanza dal regime. Presenti in quel giorno denso di dolore e di rinato orgoglio, alcuni dei protagonisti del 26 e 27 maggio sul Mosciagh. E questo, fu solo il primo passo per cancellare l’affronto (chiamiamolo pure col suo nome: omicidio) inflitto a quei 12 poveri soldati. Un segno di riabilitazione della memoria di innocenti, un duro giudizio delle ipocrite omissioni di coloro che sapevano e tacquero, pagati per un colpevole silenzio.

 


Da Bresciaoggi.it del 29/09/2012

Ghiacciaio: due i soldati austriaci trovati

IN PRESENA. I loro resti erano vicini gli uni agli altri: forse gettati in un crepaccio dopo essere stati uccisi nel 1918. Gli operai degli impianti e la Sovrintendenza hanno trovato i femori e le scatole craniche

Erano due i soldati della Prima guerra mondiale addormentati sotto i ghiacci del Presena e scoperti per caso da Giuseppe Cristino, uno degli addetti agli impianti di risalita della società Carosello, impegnato in questi giorni con i colleghi nelle operazioni di svestizione del ghiacciaio dai teli geotessili. Erano due «kaiserjaeger» austriaci: questo si evincerebbe dai brandelli di divisa trovati insieme ai poveri resti. Ieri i funzionari della Sovrintendenza dei Beni ambientali del Trentino hanno raggiunto il Presena in elicottero e, assistiti dai carabinieri di Vermiglio, hanno recuperato quel che restava dei due soldati che hanno perso la vita a 3.000 metri di quota, probabilmente durante la battaglia più importante del 1918, svoltasi tra il 25 ed il 28 maggio, come ipotizzato dal presidente del Museo della Guerra bianca in Adamello, Walter Belotti. Due scatole craniche, quattro femori, piccole ossa e brandelli di divise: questo il materiale che sarebbe stato recuperato ieri dalla Sovrintendenza. I resti dei due kaiserjaeger sono stati portati nella cappella mortuaria del cimitero di Vermiglio e verranno trasferiti a Vicenza dove saranno sottoposti ad alcuni esami. È probabile che verranno portati al cimitero di guerra di Ossana per avere una nuova, diversa sepoltura. «Il Presena è stato per 100 anni la tomba di questi soldati, che li ha saputi conservare al meglio, purtroppo però lo scioglimento del ghiacciaio li ha fatti affiorare. Questo è il posto dove sono morti e dove mi piacerebbe che potessero riposare per sempre ma non è possibile, la natura deve fare il suo corso», ha commentato Walter Belotti, citando il combattente Gian Maria Bonaldi: «... i morti è meglio che non vedano quel che son capaci di fare i vivi e la strada storta che sta prendendo il mondo, è meglio che non si accorgano nemmeno che noi siamo diventati così poveri e tanto miseri che non siamo capaci di volerci bene. No, è meglio che i morti stiano nella neve e nel ghiaccio e che non sappiano di noi, altrimenti potrebbero pensare di essere morti invano e allora si sentirebbero ancora più soli»  Sembra che le ossa dei due soldati fossero mischiate, l'ipotesi è che siano stati gettati insieme da morti in un crepaccio e che poi siano scivolati più a valle, nel punto in cui sono stati trovati e cioè nella parte sinistra del Presena, sotto il fuoripista Sgualdrina, in seguito allo spostamento subito dal ghiacciaio nel corso degli anni. «Questa è l'ipotesi più verosimile - spiega Belotti- durante la Guerra bianca infatti succedeva che i corpi dei morti venissero gettati nei crepacci se non vi era la possibilità di portarli a valle e dare loro una degna sepoltura». Il clima ha subito in questi 100 anni un'evoluzione incredibile e questi ghiacciai, dove allora il nemico numero uno era il freddo, ora combattono contro lo scioglimento. Al punto che è plausibile immaginare che tra 40 o 50 anni il ghiacciaio del Pian di Neve non ci sarà più e che vedremo riaffiorare altri reperti e probabilmente altri resti di soldati, soprattutto nella zona del Mandrone e della Lobbia. «Nel Museo di Temù sono conservati numerosi reperti bellici e non abbiamo più necessità di recuperi ma ovviamente se i ghiacci restituiranno altri segni del passato proseguiremo nel nostro compito che consiste nel recuperarli e valorizzarli al meglio». VA.ZA.  


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