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Dal Gazzettino Agosto 1988
Cortina. Trovato il corpo di un
alpino
Dai ghiacci del Cristallo
riaffiora un eroe della Guerra
Il cadavere di un alpino morto
nella prima guerra mondiale è stato trovato da un
giovane escursionista nel gruppo del Cristallo. La
scoperta è stata fatta da Alberto Buzio, 24 anni, di
Cortina dAmpezzo, in una delle zone in cui si
combattè la lunga guerra di trincea tra il 1915 e il
1917. I resti del militare che non è stato
possibile riconoscere, non essendo stata trovata la
piastrina personale sono affiorati,
probabilmente per il gran caldo delle settimane
scorse, dal terreno impregnato di ghiaccio. Sulla
divisa si distinguevano ancora in buono stato di
conservazione le fiamme verdi e le stellette. Accanto
al corpo cerano alcune bombe a mano e cartucce.
I resti dellalpino sono stati trasportati dai
carabinieri rocciatori della compagnia di Cortina al
sacrario di Pocol, dove riposano 6500 soldati caduti
sul fronte dolomitico. Il corpo si trova ora a
disposizione dellautorità giudiziaria. E
questa la seconda volta, nel giro di pochi anni, che
dai ghiacciai del gruppo del Cristallo emergono i
resti di un caduto nella Grande Guerra.
Dal Gazzettino Agosto 1988
Trovate a Cortina le spoglie di
un soldato del 15-18
Dopo il ritrovamento di qualche
giorno fa da parte dello studente Alberto Brizio nel
gruppo del Cristallo, altri resti umani sono
riaffiorati in alta montagna, a nord di Cortina, sul
monte dellAncona a 2060 metri di quota. La
squadra del soccorso alpino della compagnia dei
carabinieri di cortina, con lausilio dei suoi
rocciatori, è intervenuta in località "Zoghe"
nei pressi di forcella Lerosa, nel gruppo della Croda
Rossa, per recuperare lo scheletro del soldato della
Grande Guerra. Loperazione è stata eseguita in
seguito alla segnalazione del ritrovamento pervenuta
dal ricercatore Loris Lacedelli. Questa volta è
stata rinvenuta parte della piastrina di
riconoscimento in cui si legge: "Jury
Gi
srl
matricola 817 J
.". Nel
teschio è praticamente visibile il foro di entrata e
di uscita della pallottola. Intorno alle ossa, 50
cartucce e moschetto 91. Lacedelli aveva scorto
una scarpa riaffiorare dal terreno, smosso
probabilmente dai recenti temporali. Allinterno
della scarpa cerano ossa umane. Sul posto sono
intervenuti gli uomini dellArma che hanno
rinvenuto i resti del corpo a 50 centimetri di
profondità. In seguito è intervenuto anche un
elicottero del 4° corpo darmata e alcuni
artificieri dellartiglieria di Mestre che hanno
fatto brillare qualche centinaio di cartucce, 12
bombe a mano e un proiettile calibro 75
dellesercito. I resti dello scheletro sono
stati traslati al sacrario di Pocol, sopra Cortina,
dove riposano migliaia di caduti.
Dal Gazzettino Ottobre 1988
Facevano parte della Edelweiss
Trovati 2 scheletri di
soldati austriaci
Scoperti dopo 70 anni da
boscaioli di Asiago
Da sett'ant'anni erano lì, all'imbocco
di un cunicolo ricoperto di vegetazione, in mezzo a
un bosco di faggi e abeti. Nessuno li aveva mai
notati. Due scheletri, e accanto gli elmetti, le
scarpe, le borracce e le maschere antigas. Settant'anni
fa in quella zona imperversavano le battaglie della
Grande Guerra e quelle carcasse sono di due soldati
austriaci. Facevano parte della "Edelweiss"
impegnata nel Giugno 1918 nella cosidetta "battaglia
dei tre monti", combattuta furiosamente sul
monte Valbella, che ora è una nota località
sciistica, Col d'Echele e Col del Rosso. Ed è sulle
pendici di quest'ultimo monte che tre boscaioli hanno
scoperto i resti dei due soldati. La sicurezza che si
trattava di appartenenti all'esercito austriaco si è
avuta grazie all'elmetto e alle borracce, in quanto
non sono state rinvenute le piastrine di
riconoscimento. Causa della morte quasi certamente
una granata lanciata dagli italiani: a poca distanza
dal cunicolo infatti c'è un piccolo cratere. I
boscaioli autori del ritrovamento sono i fratelli
Ettore ed Elso Pesavento di Asiago e Giovanbattista
Rossi della frazione Sasso. Erano al lavoro nei
boschi che chiudono a sud la piana di Asiago quando
si sono accorti degli scheletri. E' stata avvertita
la direzione del sacrario militare di Asiago che ha
inviato alcuni suoi uomini a recuperare i resti e gli
oggetti. L'elmetto, le scarpe, le borracce e le
maschere antigas sono già state esaminate da alcuni
esperti: verranno destinati ad un museo,
probabilmente al "museo della guerra" di
Canove di Roana. Ora i due austriaci sono accanto ai
loro ventimila connazionali e ai sessantamila soldati
italiani - la maggior parte dei quali non ha un nome
- che riposano nell'ossario asiaghese, il grande
monumento all'olocausto della prima guerra mondiale
che domina il paese dall'alto della collina del
Leiten. Scampoli di storia che riemergono, dunque,
memorie di un tempo che quest'anno viene rievocato in
tutta Italia ma del quale molti leggono sui libri
come fatti lontani, lontanissimi. In questo campo l'altopiano
di Asiago è invece un autentico museo naturale, un
testimone prezioso: ad ogni passo , tra le sue
montagne, si trovano trincee, camminamenti,fortini,
cimeli di ogni tipo e anche molte ossa. Tanto che
vicino alla chiesetta di cima Lozze, ai piedi dell'Ortigara,
è stato predisposto un grande recipiente per i resti
trovati dagli escursionisti. Meno frequente è
tuttavia il ritrovamento di scheletri integri: un
paio d'anni fa ne venne ritrovato uno, anch'esso di
un soldato austriaco, nella zona del forte Corbin.
Da L'anello del Comelico di Italo
de Candido (Tamari Editori in Bologna)
L'Alpino del
ghiacciaio
L'estate del 1983 in Comelico è
stata caratterizzata da due importanti avvenimenti
legati alla sua montagna : il rinvenimento di un
Alpino chiuso nella bara di ghiaccio del ghiacciaio
inferiore di Popera, conservato per 67 anni quasi intatto dopo
esservi caduto trascinato forse da una valanga nell'arduo
svolgimento del dovere. Uno dei Mascabroni del Cap.
Sala protesi alla conquista del Passo della
Sentinella? (.....) La salma è stata tumulata nel
cimitero di guerra di S.Stefano del Cadore il 13
Agosto alla presenza del Presidente della Repubblica.
Il 22 Luglio 1984, sessantesimo anniversario della
costruzione del cimitero, il Comune di S.Stefano,
alla presenza di numerose autorità anche austriache
(nel cimitero riposano 109 caduti austriaci), porrà
una targa di bronzo a ricordo dell'Alpino ignoto. A
circa un mese di distanza dal rinvenimento dell'Alpino,
proprio in Vallon Popera venivano rinaugurate le
strutture portanti ed il tetto del nuovo rifugio
Olivo Sala al Popera (.....). E pensare che quell'Alpino
del ghiacciaio ha eseguito gli ordini partiti
probabilmente dal Comando italiano che aveva sede in
quel manufatto, lì costruito perchè defilato al
tiro e mimetizzato all'osservazione nemica. La salma
per scendere a S.Stefano vi è passata davanti...
come a tesimoniare: "missione compiuta!".
Da Il Corriere
della Sera , 13 agosto 1952
Un articolo di Dino
Buzzati
Degna
sepoltura
"Per dar loro degna sepoltura si è subito
sentito dire a proposito degli alpini scoperti sull'Adamello,
chiusi nel ghiaccio, dopo trentacinque anni. Degna
perchè? Forse che quella avuta finora è stata
indegna?
Che mentalità strana. Appena si è saputa la
notizia, il primo pensiero - a giudicare dalle
cronache - è stato quello di salire lassù, di
rompere la meravigliosa bara, di estrarne i corpi
intatti e di portarli a seppellire giù in pianura,
affinchè finalmente si trasformino in vermi, polvere
e bruttura.
Ma perchè? Allo scopo di onorare i santi, i re, i
saivatori della Patria, si è sempre cercato di
conservare, con complicate manipolazioni, le loro
spoglie corruttibili. Gli egiziani facevano le mummie,
i comunisti hanno imbalsamato Lenin, gli argentini
stanno facendo io stesso con Evita. Ma con gli alpini,
questa volta, no. Anzi, il contrario. La montagna li
ha miracolosamente preservati, gli ha procurato un
sonno puro e silenzioso, nella massima serenità e
bellezza che mente umana possa concepire. E non c'è
stato bisogno delle miserande manipolazioni mortuarie
che arrestano si la decomposizione ma alterando i
lineamenti, cambiando l'amato volto in un altro volto
sconosciuto. Un prodigio che ha pochi precedenti ha
detto al tempo: fermati, e l'ha lasciato là,
immobile, sospeso sul ciglio dell'abisso dove intanto
precipitavano giù, uno sull'altro, trentacinque anni.
Si può dire di più: a titolo di prova facciamo a
gara nell'immaginare, per degli alpini morti in
guerra, il sepolcro più splendido, nobile e geniale,
in uno stile che vada bene a loro, e senza limiti di
spese. Quale sarebbe il risultato? Né architetto né
scultore, per quanto originale e ispirato, potrebbe
sicuramente inventare una tomba meglio di quella che
la natura ha fabbricato. Ed è la tomba che essi
stessi, gli alpini, avrebbero di certo preferito.
Ebbene, no. Invece di pensare, se mai, a
rafforzare la vitrea corazza che chiudeva i cinque
corpi, a preservarla dal sole, a garantirne la
conservazione, noi no; noi immediatamente si è
pensato a profanarla, a estrarne i cinque alpini, a
toglierli da quel sublime esilio e portarli giù con
noi, nella comune miseria della polvere, della terra,
del bitume e della sudicizia.
Perchè dunque questo gusto di rovinare ciò che
è bello, giusto e puro? Per sapere chi sono i cinque
morti? Ma non facciamo ridere! Dopo trentacinque anni!
Forse allora per la consolazione dei parenti? Ma se
non si sanno neanche i nomi! E poi, anche ammesso che
vivano ancora le madri e i padri e che costoro siano
ancora capaci di piangere, non avrebbero detto loro
stessi "Lasciateli lassù, che la montagna
ancora li conservi ? Dovrebbero forse preferire che i
loro figli, da gelide stupende statue di cristallo,
si mutino in brandelli putrefatti?
Il fatto è un altro. Per quanto possa riuscire
amaro a dirsi, per quanto gli uomini siano animati
certo da ottime intenzioni, il fatto è che questi
alpini, finchè fossero rimasti chiusi nel ghiacciaio,
sarebbero stati troppo incomodi. Essi non si potevano
definire ancora morti. Diciamo pure: continuavano a
far parte del mondo, a risultare ancora "in
forza al battaglione, continuavano a difendere la
Patria. Erano vivi, e a noi quaggiù, sapendolo,
dimenticarli era proibito. Ma gli uomini, e
specialmente gli Italiani si direbbe, sono invece
smaniosi di dimenticare e quando un eroe muore loro
vanno dietro ai funerali, piangono un poco,
presentano le armi ma tre giorni dopo non ne vogliono
sentir parlare più. Si è impazienti di dimenticare
coloro che hanno meritato bene della Patria, perchè
ricordo vuoi dire debito morale e i debiti si
preferisce non pagarli. Fin che rimanevano lassù,
nella loro garitta di diamante, i cinque alpini
continuavano a guardarci e quegli sguardi avevano
forse una vaga luce di rimprovero.
Meglio toglierli di là, vero?, i bravi soldatini
morti combattendo in quella strana guerra, così
lontana che si stenta a crederci. Meglio portarli qui
con noi, alla nostra bassa quota, seppellirli, sia
pure tra bandiere e trombe, metterli a dormire
sottoterra. Dopodichè ci sarà permesso di
dimenticarli subito. E andremo a dormire senza
rimorsi di coscienza.
Dal Gazzettino,Giovedì,
14 Dicembre 2000
di Antonio Merlo
Singolare
ritrovamento a Maserada. Il Piave restituisce i resti di
un soldato
Risale alla prima guerra
mondiale
Dopo le recenti piene torrentizie e
dopo più di ottant'anni, sulle grave tra Maserada e
Candelù, il Piave, fiume sacro alla Patria, consegna
una sua imperitura memoria: lo scheletro pressochè
completo di un soldato austriaco combattente nella
Grande Guerra è affiorato dallo strato di limo e
sabbia che lo ha contenuto e conservato per tutto
questo tempo. I segni inequivocabili dell'appartenenza
del giovane caduto all'esercito austro ungarico, sono
dimostrati dalla quantità e qualità dei reperti
appallottolati sul corpo: scellini del 1912,
cinturone, fibbie, medaglia d'oro al valore militare
con dicitura latina del principe Carlo ("vitam
et sanguinem" "princeps et patria") e
medaglietta "porta fortuna" di Sant'Alfonso.
Ciò che impressiona è la quasi integrità dello
scheletro osseo: femori, omeri, mandibola, denti,
scatola cranica, bacino. A ritrovare il corpo del
giovane austriaco sono stati Roberto e Michele
Gemionite, padre e figlio residenti a Maserada e
grandi appassionati delle vicende storiche e umane
legate al Piave. "Dopo una delle piene
novembrine - affermano - ci siamo recati sul greto
del fiume. Il luogo, caratterizzato da una certa
profondità rispetto al piano campagna, è stato
teatro di aspre battaglie nel primo conflitto
mondiale. L'esperienza ci insegna che dopo una piena
vengono a galla residuati di ogni tipo. Entrati nell'acqua
(livello di circa 80 centimetri), abbiamo notato del
materiale ruggine emergere dal fondo. Dopo aver
operato pazientemente un primo scavo con un
piccolissima piccozza, sono saltati fuori alcuni
oggetti personali e subito sotto lo scheletro,
attorcigliato a quel che restava del filo spinato".
"Purtroppo - continuano padre e figlio - nel
tentativo di rimuoverlo quasi integralmente, la
corrente dell'acqua ha portato via alcuni frammenti
importanti del cadavere. Il resto è stato recuperato
con estrema difficoltà visto le condizioni
proibitive". "Il rinvenimento del cadavere
è stato subito segnalato ai Carabinieri, e sono
state eseguite le perizie medico legali del caso che
attestano la giovane età del militare caduto e il
periodo della sua morte avvenuta intorno al 1918.
Abbiamo voluto far partecipe della scoperta anche il
Comune, donando tutte le ossa in nostro possesso
affinchè abbiano degna sepoltura nel camposanto
paesano. Sarebbe un nobile gesto se l'ignoto
austriaco venisse tumulato accanto ai numerosi caduti
italiani e maseradesi quale simbolo di
riappacificazione storica fra chi, in gioventù, è
stato costretto ad affrontarsi tragicamente sui campi
di battaglia"
TESTIMONIANZE DI SCRITTORI da
"La nostra guerra 1915-1918"
I buchi
oscuri, lassù
di Paolo Barbaro
Per anni ho fatto il tecnico in montagna, per
costruire strade, ponti, gallerie. Spesso mi è
toccato di lavorare tra i camminamenti della guerra,
di incrociare le vecchie gallerie coi nostri nuovi
tunnel. I nostri tunnel vanno via dritti allo scopo:
che è convogliare l'acqua alla giusta velocità
verso la centrale, o il traffico previsto verso il
paese vicino. Tracciati semplici, lineari, con poca
immaginazione e quasi niente fascino.I tunnel della
guerra sono un labirinto, tra visibile e invisibile.
Ora si affacciano improvvisi sulla curva del torrente;
ora s'avvicinano dal cuore della roccia alle grandi
pareti senza toccarle: come a sentire presenze,
colpire e sparire. Il fatto è che noi foriamo le
montagne per andare incontro - crediamo -a un preciso
bisogno. I nostri padri qui costruivano per la guerra,
l'antica vicenda umana di orrore e dolore. Tanto
sforzo, fatica, sofferenza. per difendersi, attaccare,
uccidere. Passa la morte con noi, tra questi
camminamenti oscuri. Ecco un "passo-uomo"
improvviso, segreto: un vero passaggio da manuale. Ci
si infila lì dentro tra i blocchi di roccia solida
ma con gli orli polverosi, slabbrati, che confondono
le tracce e le idee. Dopo un attimo si è già al
buio, in un'angusta caverna, in un chiarore incerto:
ci avviciniamo all'osservatorio, una lunga spia sulla
valle. La roccia qui è sempre in ombra, il tratto di
parete obliquo, a strapiombo: siamo invisibili a chi
passa sotto di noi, ma quel che conta laggiù è bene
in vista. Passa un pastore con le mucche: cammina
tranquillo sul viottolo, è tardo Agosto, si torna a
casa. Bisogna fare attenzione a muovere anche un
sasso: può essere mortale.
Tra poco, in montagna, è inverno. Con la prima
neve quell' infilata di buchi oscuri nelle pareti
imbiancate, lassù sopra il nostro cantiere, ci
ossessionano. Continuano a spiarci, e noi non
possiamo raggiungerli. Come hanno fatto in quegli
anni, ci diciamo: e aspettiamo con più impazienza
del solito la primavera. Il momento che ci lascia
più sospesi è il disgelo. Se muoviamo una pietra in
terra, appaiono schegge nere, minute: granate,
secondo il capocantiere Pinìn. Raccoglie le schegge.
"Nella mia soffitta "dice "conservo la
guerra: non per soldi, per ricordo". Spalanca la
porta della soffitta: muri tappezzati di bossoli,
caricatori, lamiere contorte, vecchie lampade. Ecco
una piastrina di riconoscimento, n. 174... o forse
074..., con un tratto di catenella schiacciato. La
riconosco perchè ricordo quella di mio padre: me la
mostrava con un sorriso amaro, lui che sorrideva
sempre con dolcezza. In questa non si legge più
neanche il numero; eppure era un uomo.C'è anche un
vecchio disegno appeso al muro: un povero fante con
la faccia sperduta da contadino. Trovato in una
casera qui accanto, tra "rose" di bossoli.
E c'è anche una lampada da miniera, come le nostre:
affiorata l' anno scorso in questi giorni, entro un
passo-d'uomo mai scoperto prima. Pare impossibile,
dopo tanti anni: la primavera è la stagione buona
per ritrovare queste cose; poi viene l'estate e non
si trova più nulla. La primavera fa rifiorire oltre
all'erba e alle piante anche le schegge, i bossoli,
quel povero viso del fante sperduto, il sorriso amaro
di mio padre. Rimettiamo ogni cosa al suo posto,
appesa al muro, dove ha deciso Pinìn: la guerra va
conservata "per ricordo", perchè non si
ripeta mai più.
Da Il Gazzettino Novembre 1988
Furono gli Alpini e i Fanti a
inventare i primi sentieri attrezzati delle Dolomiti
Orientali
Lungo le
strade del sangue
Di Sergio Sommacal
Tra fortificazioni e trincee
devastate dal tempo e dagli uomini. Dove, talvolta,
più che le granate nemiche ha potuto la fame di
ferro, prima durante e dopo la seconda guerra
mondiale. Ma anche dove i profili della montagna sono
stati ridisegnati dal piccone e dalle mine, dove l'
artiglieria ha martellato per mesi ed anni, dove i
cecchini hanno consumato gli occhi nell' attesa.
Luoghi di eroismi e di lacrime, mulattiere di guerra
per combattenti di diciannove nazioni. E' adesso - ma
niente retorica, non sulla pelle di chi è finito
sotto una croce e di chi non ha avuto nemmeno quella
- percorsi di pace. Loro, gli alpini e i fanti di
parte italiana e di parte austroungarica, hanno
inventato i primi sentieri attrezzati delle Alpi
Orientali. Trascinando obici, carichi di munizioni,
ubriachi di fatica e di paura. Ferrate che risalivano
calcare e granito, gallerie che svuotavano i costoni,
camminamenti che percorrevano le creste, scale e
ponti che superavano canaloni, baracche in forma di
villaggio tra ghiaione e parete. Sono stati loro,
pionieri e zappatori. Erano, quasi sempre, povera
gente mandata a combattere controvoglia. C'era chi
sapeva qualcosa di montagna -perchè vi era nato,
perchè vi aveva inseguito il suo camoscio, perchè i
suoi abitavano nel paese che talvolta si riusciva a
vedere in fondo alla valle, e allora poteva dare un
senso al suo trovarsi con un moschetto in mano tra
quelle crode - ma c'era anche chi affrontava neve e
ghiaccio per la prima volta, e non capiva. Non l'
escursionismo avventuroso di Dèodat de Dolomieu; non
l'eccentrico e stravagante interesse degli inglesi
del primo Ottocento; non la tecnica e la voglia di
cime dei tedeschi nè degli altri che delle Dolomiti
avevano fatto palestra di esplorazione. Era gente
venuta magari dal sud dell' Italia, o dalla Galizia.
Contadini, artigiani, studenti. E qualcuno di loro
può ancora raccontarlo. Qualcuno dei 415 Cavalieri
di Vittorio Veneto di Siracusa che erano ancora in
vita alla data del 31 Gennaio scorso, o dei 630 di
Trapani, o dei 1692 di Palermo, o dei 353 di Teramo.
Ma possono raccontarlo soprattutto i nostri cavalieri
superstiti: quelli che sono rimasti degli ultimi 322
di Belluno, dei 309 di Bolzano, dei 173 di Gorizia,
degli 884 di Padova, dei 352 di Pordenone, dei 350 di
Rovigo, dei 51 di Trento, dei 914 di Treviso, dei 132
di Trieste, dei 935 di Udine, dei 681 di V enezia,
dei 1217 di Verona, dei 685 di Vicenza. Qualcuno di
loro può ancora - o avrebbe potuto - raccontare dei
mesi vissuti a scavare il Castelletto o il Lagazuoi,
delle slavine che uccidevano più delle pallottole,
degli inverni a tremila metri. "Noi oggi -
annotano in prefazione Walter Musizza e Giovanni de
Donà, autori di un recentissimo agile Strade e
sentieri di guerra in Cadore, Ampezzano e Comelico,
edizioni Ribis - ripercorriamo, spesso senza
accorgercene, strade e sentieri nati per la guerra.
Le nostre escursioni nel silenzio della pace sgranano
i pazienti tornanti concepiti per i medi calibri e i
nostri gratificanti panorami dai rifugi e dalle
forcelle sono gli stessi che occhi strategici e
tattici scrutavano con ben altri pensieri e
motivazioni". Dal Monte Piana all'Adamello , dal
Pasubio al Cristallo, dall'Ortigara ai Lagorai, dal
Cevedale alla Marmolada al Paterno a tutti quei
luoghi in cui le storie dimenticate di sconosciuti
ragazzi con le stellette hanno fatto la Storia, in
una guerra di attese e di pidocchi, di freddo e di
fango. L'inserimento di truppe e di materiali
raggiunse ad un certo punto proporzioni mastodontiche
- scrive Walter Schaumann presentando La Grande
Guerra 1915-18. Storia e itinerari, Ghedina e
Tassotti editori; - fu allora che si affermò il
ricorso all'ausilio di mezzi tecnici onde snellire il
più possibile le operazioni di rifornimento e di
rincalzo. Si costruirono strade militari in zone sin
allora impervie, e laddove queste cessavano ecco
sorgere un\rquote intera rete di funicolari per un
complesso di parecchie migliaia di chilometri (...).
Ciò nonostante, in numerosi settori del fronte, le
colonne dei portatori rimasero l'unica possibilità
di collegamento. I soldati marciavano, notte e giorno,
esposti a tutte le intemperie, su tratti spesso
estremamente pericolosi, portando i loro pesanti
sacchi di rifornimenti. Le perdite fra le colonne di
portatori erano talvolta più numerose di quelle
registrate fra le truppe impegnate direttamente sul
fronte". Tra Rovereto e monte Zugna nell'Ottobre
dell'anno scorso è stato inaugurato il primo tratto
di un Sentiero della Pace che per 350 chilometri, tra
Stelvio e Marmolada, ripercorrerà il tracciato del
fronte. Si è lavorato ancora quest'anno e si
continuerà a lavorare l'anno venturo. Trento ha già
lanciato al Veneto e al Friuli la proposta di
proseguirlo fino a Caporetto. Sui cartelli indicatori,
una colomba. E' un impegno.
Dal settimanale Oggi
Un cappello riapre (e forse risolve) il giallo
della Grande Guerra
"Ma
quale cecchino nemico, al generale spararono i nostri"
di Anna Checchi
Cortina D'Ampezzo(Belluno), Agosto
Il berretto sembrava scomparso. Nessuno lo vedeva
più da 83 anni, cioè dal giorno in cui, a Cortina,
si erano svolti i funerali del generale Antonio Cantore. Era suo, il
berretto. Cantore, l'eroe delle Tofane, medaglia d'oro
al valore militare, il primo generale italiano caduto
nella Grande Guerra, non se ne separava mai. Il 20
luglio 1915, mentre da una postazione sulle montagne
sopra Cortina osservava la trincea nemica, una
pallottola gli trapassò il cranio, forando la
visiera del famoso berretto. E fu subito giallo. Chi
aveva ammazzato il valoroso Cantore? Un cecchino
austriaco, come recita ancora oggi la versione
ufficiale, o invece, secondo la vox populi
che da subito prese piede, ad ammazzare il generale
erano stati i suoi stessi ufficiali, esasperati dalla
sua spietata durezza? Ai tempi, sarebbe bastato poco
per rispondere alla domanda. Austriaci e Italiani
usavano proiettili di calibro diverso, otto
millimetri e mezzo quelli austriaci, più grandi, e
sei millimetri e mezzo i nostri, più piccoli. Dunque,
misurando il foro nel berretto, si sarebbe potuto
capire da quale arma proveniva. Ma c'era la guerra,
la gente moriva, non cera il tempo di giocare a Perry
Mason. Così, il cappello dei misteri venne deposto
sopra la bara del generale durante i funerali, poi fu
restituito alla famiglia e nessuno lo vide più. Solo
oggi, 83 anni dopo, quel berretto è tornato a
Cortina. E' successo infatti che il nipote del
generale Cantore, l' ingegnere Antonio Cantore (omonimo
del nonno), un simpatico signore di 80 anni che vive
a Torino, ha deciso di prestarlo alla mostra in corso
a Cortina, in occasione dell'ottantesimo dalla fine
della Grande Guerra. La mostra, organizzata da Loris
Lancedelli, un'appassionato di storia che da anni
raccoglie materiale sulle battaglie dell'Ampezzano,
è molto bella. L'ingegner Cantore l'ha vista, gli è
piaciuta e ha deciso di prestare il berretto del
celebre nonno. Subito, di nuovo, si è scatenata la
polemica. Perchè il foro sulla visiera, come ora si
vede a occhio nudo, corrisponde alla misura del
proiettile italiano ed è troppo piccolo per quello
austriaco. E' la prova finale, dicono gli ampezzani,
che furono gli italiani ad ammazzare Cantore. Ma
èdavvero così ? Possibile che il primo grande eroe
della Grande Guerra sia morto non per mano nemica ma
per il tradimento di ufficiali ribelli? Quel cappello
non rappresenta una prova definitiva, dice Paolo
Giacomel, storico di Cortina, da sempre studioso
delle battaglie ampezzane. La visiera bucata dal
proiettile èdi cuoio e il cuoio, come è noto, col
tempo si restringe e si irrigidisce. Difficile , oggi,
dopo tanti anni, dedurre il calibro di una pallottola
da quel foro. Ma qui a Cortina da sempre si dato per
certo che a uccidere Cantore siano stati i suoi
uomini. Sono talmente tante le voci e le dicerie in
proposito, che un fondamento devono pur averlo. Di
sicuro quell a morte fu misteriosa. E oggi questo
foro a misura di calibro italiano, aumenta i misteri.
Ma che persona era il generale Antonio Cantore?
Davvero era così odiato dai suoi uomini? Il
professor Giacomel, che all'argomento ha dedicato l'ultimo
dei suoi libri, Arrivederci-
Aufwiedersehen, lo descrive come un soldato
tutto d'un pezzo: Era il più ammirato e il più
temuto. Aveva 55 anni quando, nel giugno del 1915,
arrivò a Cortina, come generale di divisione. Aveva
fatto la guerra di Libia, distinguendosi per l'ardimento
e il coraggio. A volerlo a Cortina era stato Cadorna
in persona, che l'aveva chiamato per sostituire il
generale Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere
troppo lento e prudente. Lo chiamavano el vecio,
e anche il papà degli alpini. Ancora oggi,
per loro, Cantore è il mito, l'eroe per definizione.
Era un bell'uomo, molto alto, uno che faceva
impressione, una specie di John Wayne, con una forte
personalità. Il suo coraggio era leggendario. Ma coi
subalterni era spietato. E qui a Cortina i rapporti
coi civili e coi suoi stessi uomini furono subito
burrascosi. Ho raccolto in proposito molte
testimonianze. Una donna, allora bambina, ricorda di
averlo incontrato in chiesa, coi suoi ufficiali. E
ricorda di aver avuto allora la sensazione che questi
si facessero sberleffo di lui, che tramassero alle
sue spalle. Sul fronte dolomitico la situazione era
tesa. Le Tofane, le tre colossali piramidi che
dominano Cortina, erano controllate dagli austriaci.
Bisognava organizzare un assalto. Il generale decise
che avrebbe sfondato a Fontananegra. Ed era evidente
che un simile attacco sarebbe costato molte vite
umane. Era un'operazione spericolata. Le trincee
austriache erano a 1.800 metri, le postazioni dei
nostri soldati erano a 1.300. Per sfondare, quindi,
dovevano coprire un percorso di 500 metri salendo dal
basso verso l'alto: per gli austriaci sarebbe stato
un facile tiro al bersaglio. Ma Cantore voleva fare
quell'attacco. Era là per sfondare il fronte nemico,
per fare in fretta, per vincere. D'altra parte
Cortina era una cittadina di montagna che da 400 anni
era sotto gli austriaci. L'arrivo delle truppe
italiane era stato accolto più come un'occupazione
che come una liberazione. Gli austriaci si erano
sempre comportati bene, nelle scuole si insegnava la
lingua italiana, il clima era di grande rispetto per
la nostra cultura. Austriaci e italiani, qui, erano
sempre stati amici. Così, questo generale così
ardimentoso e temerario non era guardato con grande
simpatia. In alcune testimonianze si racconta che il
generale avesse intenzione di far sgomberare Cortina
da tutti i civili. Gli ufficiali si erano opposti
ferocemente al progetto. Sgomberare il paese da mamme
e bambini voleva dire dare agli austriaci l'alibi per
distruggere la città , per distruggere i grandi
alberghi. Cortina, già allora, era famosa in tutto
il mondo come centro turistico. Sarebbe stato un
disastro . Morale, la paura cresceva. Naturalmente
Antonio Cantore, generale valoroso e geniale, era lì
pe r vincere la guerra, non per promuovere il turismo
ampezzano. Ma resta il fatto che, nei suoi confronti,
ufficiali e civili nutrivano sentimenti sempre più
rancorosi. Ed ecco che si arriva al giorno fatale del
berretto e del proiettile, il 20 luglio 1915. "Di
mattina" , ricostruisce il professor Giacomel,
"il generale esce dal' Hotel Posta, dove
dormivano gli ufficiali, e va al villaggio di Vervei,
sulle Tofane un paesino costruito dai soldati
italiani, che erano bravissimi a costruire strade e
villaggi. Va là per incontrare i vari generali di
brigata ed esporre il piano di battaglia. Lungo la
strada, trova un ufficiale della Brigata Como, la
prima che era entrata in Cortina, e gli dà 10 giorni
di consegna per essersi allontanato dal suo
reggimento . Una punizione del genere rappresentava
un fatto insolito, nei confronti di un ufficiale. Poi,
entrato nel villaggio, vede i militari seduti in
mensa a mangiare, fa interrompere il pranzo e
pronuncia con tono veemente una frase storica, -Domani
sarete tutti lassù-. E quel lassù poteva
significare lassù a Fontananegra, dovè era previsto
l'assalto, ma anche lassù in cielo, visto che ci
sarebbero stati molti morti ". Ancora una volta,
quindi, il clima non era dei migliori. A questo punto
la storia prosegue e ci sono le due versioni, quella
ufficiale e quella della gente di Cortina. Secondo la
versione ufficiale il generale Cantore, finita la
riunione coi generali, sale con quattro alpini verso
la postazione più avanzata di Fontananegra. Gli
austriaci sono sopra, a circa 200 metri. Lui,
berretto in testa e cannocchiale in mano, si sporge
col torace da una roccia per vedere l'esatta
posizione della mitragliatrice nemica, per
organizzare meglio l'assalto. Un primo colpo di
proiettile lo sfiora appena. Gli ufficiali gli dicono
di stare indietro, ma Cantore è impavido, non ha
paura di niente, insiste, si sporge di nuovo. E il
cecchino austriaco stavolta non sbaglia la mira.
Questa la versione ufficiale. Ma subito, alla notizia
della morte del generale, oggi sepolto nel sacrario
di Pocol, sopra Cortina, si diffondono voci diverse."
Ho raccolto testimonianze incredibili", dice
Paolo Giacomel." Molti allora sostennero che il
generale era stato ucciso altrove, forse nel
villaggio di Vervei, e solo dopo era stato portato a
Fontananegra, per coprire la verità e inscenare l'agguato
austriaco". E ancora" Una maestra mi ha
raccontato che 10 anni fa un alpino della vallata,
che oggi ha 101 anni, le avrebbe assicurato di aver
fatto parte del plotone di alpini da cui sarebbe
partito il colpo. Invece un altro signore, Attilio
Berlanda, che ai tempi militava nelle file asburgiche,
intervistato alla fine degli anni Sessanta da un
giornalista trentino, ha confessato di essere lui il
cecchino austriaco che aveva centrato il cranio del
generale. E che per questo aveva ricevuto la medaglia
d'oro dall'Imperatore d'Austria. Ma da indagini
successive si è appurato che Berlanda aveva sì
avuto la medaglia, ma per un'azione bellica del 1914
in Galizia".Verità e bugie. "I quattro
alpini che accompagnavano il generale nel giorno dall'agguato",
dice ancora Giacomel, " non sono mai stati
rintracciati. Non si conosce il loro nome. Se ci
fossero stati sospetti sulla morte di Cantore, visto
che sparare al proprio generale comporta la
fucilazione, qualcuno di loro sarebbe stato quanto
meno interrogato". Eppure, tuttora, molti si
dicono certi che non fu il nemico a uccidere Cantore.
Un vero giallo. Che sconcerta non poco il nipote del
generale, l'ingegner Antonio Cantore. Lui, per amore
del nonno, e della storia, e di quel bel museo che
ricorda i tanti morti della Grande Guerra, ha
prestato volentieri il berretto dei misteri agli ai
ampezzani, ma poi c'è rimasto male a leggere, sui
giornali, della diatriba del proiettile." Hanno
scritto che ai funerali di mio nonno", dice,
" l'unico davvero triste fosse il suo cavallo
bianco. E che gli alpini fecero festa alla sua morte.
Dubito che potessero fare festa, e poi c'era la
guerra, c'erano morti e feriti, c'era poco da
festeggiare. E poi questa è un'offesa per tutti i
caduti in battaglia. Nessuno fa festa, mai, quando un
proiettile ammazza un soldato. Mio nonno non l'ho
conosciuto, sono nato cinque mesi prima che lui fosse
ucciso. Ma so che èstato un grande generale. Non era
affatto odiato dai soldati. Durante la guerra di
Libia scriveva personalmente ai familiari dei caduti
e mio padre mi ha mostrato molte lettere di
gratitudine mandate dai figli e dalle mogli di quei
soldati. I generali che combatterono a Tripoli, al
suo fianco contro i turchi l'hanno sempre ricordato
con ammirazione. E poi se davvero a ucciderlo fossero
stati ufficiali italiani, si sarebbe saputo: come
nascondi una cosa simile davanti a tanti soldati?".
Giusto. Ma intanto, ora che il famoso berretto è
torn ato a Cortina, tutti ampezzani e turisti che
hanno seguito la vicenda sul quotidiano locale, fanno
la fila davanti al museo per osservare da vicino il
prezioso cimelio. Guardano il foro, guardano gli
esemplari di pallottole esposte là accanto, fanno la
prova, vedono che quella austriaca non passa dal buco,
l'altra si, e scuotono la testa allibiti. Sarà anche
vero che il cuoio si stringe, però... E il giallo
continua.
Dal Gazzettino, Venerdi
24 Agosto 2001
Brucia il
Carso, riemergono le trince
I rovi avevano
nascosto per decenni i camminamenti scavati nella
roccia durante la Grande Guerra
Redipuglia
Coperte per decenni da cespugli,
boscaglia, pinete e altra vegetazione tipica del
Carso goriziano, vecchie trincee della Prima Guerra
Mondiale sono "riemerse" alla luce in
seguito all'incendio che ha distrutto oltre 120
ettari fra i comuni di Doberdò del Lago, Monfalcone
e Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia. Il
fuoco, alimentato da un forte vento di nordest e
agevolato dal clima secco, ha distrutto la
vegetazione che da decenni caratterizza questa parte
del Carso goriziano e alle sue spalle ha lasciato il
paesaggio brullo e pietroso di quello che doveva
essere il Carso nel corso della Grande Guerra. In una
vasta area fra Sagredo, Ronchi dei Legionari e
Monfalcone, a non più di tre-quattro chilometri in
linea d'aria dal Sacrario di Redipuglia (dove sono
sepolti centomila soldati italiani caduti nella Prima
Guerra Mondiale), in quello che è stato uno degli
scenari più cruenti del primo conflitto mondiale,
sono così riemerse vecchie trincee, dimenticate da
decenni. -Da terra - hanno riferito gli uomini della
Protezione Civile che hanno operato sul posto - le
trincee non sono immediatamente visibili (molte sono
coperte da detriti, terriccio e altro materiale), ma
dall'alto (in particolare dagli elicotteri che hanno
operato nella zona per spegnere le fiamme) le loro
linee appaiono con evidente chiarezza. Durante la
notte - hanno riferito sempre gli uomini della
Protezione Civile - si sono sentite anche alcune
esplosioni, probabilmente di vecchie granate
abbandonate, soprattutto nella zona del poligono di
tiro di monte Debeli, vicino a Selz frazione di
Ronchi dei Legionari, mentre l'incendio è scoppiato
a Jamiano frazione di Doberdò del Lago. Alle
operazioni di spegnimento del fuoco (che ha avuto un
perimetro di sei-sette chilometri e ha determinato la
chiusura, per oltre due ore, dell'autostrada A4
Venezia-Trieste, nel tratto fra l'uscita di
Redipuglia e la barriera del Lisert, a pochi
chilometri da Trieste) hanno partecipato oltre 120
uomini. L'incendioè divampato nella zona di "Selz"
di Doberdò del Lago e, spinto dal vento, si è
rapidamente esteso fino a lambire l'autostrada, nei
territori dei comuni di Ronchi dei Legionari e
Monfalcone, in provincia di Gorizia, dove in alcuni
momenti ha anche minacciato alcune abitazioni
Dalla Nuova Venezia
, Mercoledi 28 agosto 2002
Marmolada, spuntano le ossa di
fanti italiani
Lo scioglimento del ghiacciaio porta
alla luce nuovi resti umani
Belluno.
È stata forse individuata nella Città di
ghiaccio austro-ungarica, sulla Marmolada, a 3000
metri di quota, la tomba dei 15 fanti italiani fatti
saltare in una galleria da una mina austriaca il 26
settembre 1917. La scoperta è stata compiuta dal
bergamasco Matteo Annoni.
Insieme
ad altri 22 volontari Annoni ha lavorato nella
galleria Rosso per ripulirla dal ghiaccio che
minaccia di ostruirla. Ha compiuto poi un sopralluogo
sotto Forcella a V dove esisteva la
galleria italiana, ed in un profondo crepaccio ha
individuato un cumulo di ossa presubilmente umane:
potrebbero essere di uno dei 15 fanti morti lassù,
nella ormai lontana azione di guerra di mine italo-austriache.
Poco distante emergono i resti di 4 baracche
austriache della mitica Città di ghiaccio. E
probabile che nello stesso lungo crepaccio, o nelle
immediate vicinanze, siano sepolti i corpi o i resti
degli altri fanti travolti dallesplosione della
mina e poi sommersi dalla neve per 85 anni. Il ritiro
del ghiacciaio e lo scioglimento delle nevi continuo
ha portato alla luce nuove trincee e crepacci che
furono teatro di battaglie in guerra. La ricerca dei
fanti, voluta dallex Intendente del museo, il
dr. Mario Bartoli, farmacista padovano trapiantato
per molti anni sulla Marmolada per amore di questa
montagna e proseguita dallattuale direttivo del
centro studi, è stata di recente finanziata dalla
Regione Veneto (25 mila euro). I1 luogo dove sono
state rinvenute le ossa è zona monumentale. Per la
ricerca ed il recupero dei corpi dei 15 fanti è in
atto un accordo operativo tra Onor Caduti (Roma) e il
direttivo del museo Marmolada. Il crepaccio dal quale
sono affiorate le ossa, corre parallelo alla pista da
sci La Bellunese nel tratto più elevato
e potrebbe essere agevolmente raggiunto con
lintervento di un gatto delle nevi. La stagione
potrebbe costituire per il tentativo di recupero
delle ossa un ostacolo insormontabile in caso di
nevicata non insolita a 3000 metri di quota.
Nota
del WM : in un trafiletto di alcuni giorni
dopo veniva data notizia che le ossa ritrovate molto
probabilmente erano le ossa di qualche animale caduto
nel crepaccio.
Dal Gazzettino
, 24 Dicembre 2002
Il
ritrovamento da parte di tre speleologi in una grotta
a 1850 m.
L'Ortigara restituisce i corpi di 4
soldati
Asiago. I resti umani di 4 soldati
della Prima Guerra Mondiale sono stati trovati in una
grotta tra Monte Colombara e Monte Zebio, nella zona
più a nord del comune di Asiago, a quota a 1850
metri, a 10 chilometri dal Monte
Ortigara, che ha ospitato le battaglie più cruente
del conflitto 1915-1918. E probabile che si tratti di
militari italiani (lo farebbero pensare gli scarponi
da ghiaccio trovati vicino ai corpi) anche se gli
inquirenti non si sbilanciano: la zona attorno
allOrtigara restò in mano austriaca per lungo
tempo e questo induce a prudenza, soprattutto da
parte degli storici. La prima ipotesi che
scaturisce dalle indagini dei carabinieri di Asiago (linchiesta
è condotta dal procuratore di Bassano, Mario
Milanese) è che i quattro militari possano essere
stati uccisi da un colpo dartiglieria nemica,
mentre erano intenti a costruire un ricovero
sotterraneo o una feritoia per avvicinarsi al
nemico. Nelle vicinanze sono stati infatti rinvenuti
picconi, badili e altri oggetti che venivano
utilizzati per scalfire la roccia. Nella caverna sono emerse
anche delle bombe a mano modello Sipe, munizioni di
vario tipo e frammenti della bomba dartiglieria che potrebbe aver ucciso
i militari. A fianco dei resti, invece, non sono
stati rinvenuti nè armi nè oggetti personali e
questo potrebbe far pensare che i commilitoni abbiamo
deciso che lo stesso luogo diventasse la
tomba dei quattro soldati. Il ritrovamento è
avvenuto nei giorni scorsi da parte di tre componenti
(due residenti ad Asiago e uno a Gallio) del Soccorso
Alpino e Speleologico Sette Comuni, che già nei mesi
scorsi avevano scoperto la grotta, mai censita. Lo
stesso terzetto ha poi dovuto attendere la fine del
piogge e che il freddo gelasse il terreno per
penetrare nella cavità, un cunicolo verticale e
molto stretto: lo scopo era lesplorazione della
grotta, poi invece è avvenuta la scoperta delle ossa
umane. Una volta
conclusa lindagine e qualsiasi sarà
lesito degli esami del medico legale, i resti
umani dei quattro soldati saranno conservati,
nellOssario del Laiten di Asiago, che già
ospita migliaia di corpi senza nome. A distanza di
oltre ottantanni sono ancora numerosi i
ritrovamenti di residuati bellici ma anche di resti
umani nel comprensorio altopianese.
Dal Gazzettino, 9
Febbraio 2003
Bassano. Scavata
nella roccia in Valbrenta. Il ritrovamento ad opera
degli speleologi del Gruppo grotte "Giara"
di Valstagna
Scoperta l'antica osteria dei
soldati
Rinomata nel 1800,usata
dalle truppe della Grande Guerra e poi abbandonata.
Diventerà museo
Scoperta in Valbrenta un'antica
osteria incastonata nella roccia. Verrà trasformata
in museo della prima guerra mondiale. Durante una
delle consuete ricerche alcuni speleologi del Gruppo
Grotte Giara di Valstagna, in località "Grottella",
nei pressi dello sperone roccioso che incombe sulla
statale 47 della Valsugana, tra le contrade di
Rivalta e San Marino, hanno riportato alla luce
quella che negli anni della Grande Guerra, ma ancor
prima per tutto l'800 era stata una singolare,
rinomata, osteria di confine.Risalendo il corso di
una sorgente tra rovi e detriti, seguendo uno
zampillo d'acqua, in una zona degradata e ricoperta
di arbusti si è arrivati al locale, con evidenti
tracce del suo passato di accogliente punto di
ristoro per le truppe che combattevano in quella zona.
L'intero manufatto, una volta recuperato all'uso,
diventerà un piccolo museo della Valbrenta, con
reperti della prima guerra mondiale.
Dal Gazzettino, Maggio
2003
Il Grappa restituisce sedici
scheletri
l'identificazione
è avvenuta grazie ai bottoni delle giubbe,alle
giberne,alle mostrine,ai caricatori
di Alessandro Tibolla
Erano là da più di ottant'anni.
Sepolti, uno sopra l'altro senza distinzione di
nazionalità e grado. Nessuno sapeva che fine
avessero fatto quei soldati che durante le cruente
battaglie della Grande Guerra , avevano combattuto
lungo le pendici del Monte Grappa. Erano morti per la
loro Patria ma nessuno per quasi un secolo si era
curato di loro.Nessuna ricerca, erano scomparsi nel
nulla. Solo il caso e la caparbietà di un
escursionista e poi degli uomini del Corpo forestale
della stazione di Feltre (Belluno), ha fatto sì che
gli scheletri di ben 16 militari, 14 germanici, un
austriaco e un italiano, venissero alla luce. Erano
sepolti in una sorta di fossa comune sul Monte Grappa
nel territorio di Alano di Piave (Belluno).
Accatastati uno sopra l'altro.Per riportare alla luce
i reperti, gli uomini della Forestale hanno lavorato
per ben due giorni, coadiuvati dal professor Renzo
Barbazza, primario di Anatomopatologia del Santa
Maria del Prato di Feltre che ha effettuato la
perizia necroscopica. Un aiuto indispensabile visto
che la lunga inumazione aveva reso quasi
indistinguibili gli scheletri. Per capire che nella
fossa i militari sepolti erano sedici, è stata
necessaria la conta dei femori. L'attribuzione della
nazionalità e l'appartenenza ai diversi eserciti
sono state possibili grazie al ritrovamento di una
serie di effetti personali inequivocabili. Per capire
che dodici eroi erano germanici, la Forestale si è
basata sui bottoni delle giubbe che avevano impressa
la Corona Prussiana. Sono state ritrovate anche due
placchette con i nomi e i gradi. Il militare
austriaco aveva con se una pipa in ceramica di chiara
fattura d'Oltralpe con l'aquila tirolese. Sul cranio
l'elmo del suo esercito e vicino le mostrine. Per
identificare l'italiano ci si è basati sulle giberne
che lo cingevano alle quali erano appesi cinque
caricatori con le pallottole per il fucile Novantuno.
Reperti e scheletri sono stati quindi trasportati
nella cella mortuaria del cimitero di Alano di Piave
a disposizione dell'autorità giudiziaria. Il
pubblico ministero di Belluno, Gianni Griguolo, ha
disposto l'esame autoptico repertando quindi gli
oggetti ritrovati.
Da La Repubblica 21 Luglio 2003
Le
ultime ore degli alpini
le fucilazioni di
Cercivento novant'anni dopo
di Luca Fazzo
Cividale del Friuli - prima di
diventare l'opera teatrale che debutta stasera tra
gli eventi collaterali del Mittelfest di Cividale,la
storia dei fucilati di Cercivento esisteva già. Era
la storia che viaggiava di bocca in bocca tra la
gente della Carnia, tramandata lungo quasi novant'anni
che ci separano da quei tragici avvenimenti. Una
storia che non trova spazio sui libri di scuola nè
dell'epoca fascista nè di quella repubblicana, tanto
era incongrua con l'ufficialità e la retorica della
Grande Guerra. Perchè le fucilazioni di Cercivento
sono l'episodio più simbolico di quel massacro
continuo che, durante la Prima guerra, fu costituito
da decimazioni e condanne a morte sbrigativamente
emesse dai comandi per fronteggiare atti di
indisciplina e insubordinazione. Il dramma scritto da
Carlo Tolazzi s'intitola Prima che sia giorno, prodotto
dal Teatro Club di Udine e dal Mittelfest, e va in
scena nella sala grande della chiesa di San Francesco
a Cividale. proprio in una chiesa, d'altronde, si
celebrò a Cercivento, nell'estate del 1916, il
processo sommario ai quattro soldati della 109a
compagnia della XXVI divisione alpina accusati di
avere guidato l'insubordinazione del reparto, quando,
il 24 giugno, il loro comandante aveva ordinato di
andare per l'ennesima volta all'assalto del monte
Cellon, a quota 2238, una delle tante cime che nel
corso della guerra italiani e austriaci si
strappavano periodicamente: e ogni volta era un
macello. La 109a compagnia era fatta tutta di
friulani, gente che conosceva le montagne come le
proprie tasche, che sapeva distinguere un assalto con
possibilità di vittoria da un massacro inutile. I
quattro alpini che i comandi scelsero come capri
espiatori erano Giovan Battista Coradazzi, di Forni
di Sopra, Angelo Massaro di Maniago, Basilio Matiz di
Timau e Silvio
Ortis di Paluzza. Per il testo, tolazzi ha scelto
di raccontare le ultime ore di vita di due di loro,
Massaro e Matiz, nella canonica di Cercivento
trasformata in death row. il processo, gli
interrogatori dei due alpini, a chi vedrà lo
spettacolo, potranno sembrare sommari ai limiti del
grottesco. Ma il processo, quello vero del giugno
1916, fu una farsa, due giorni d'udienze con una
sentenza scritta sotto lìimpulso del generale
Salazar, comandante della XXvi divisione, deciso a
impartire una lezione a una truppa sempre più
insofferente verso la dissenata conduzione della
guerra: conduzione che l'anno dopo sarebbe sfociata
nella catastrofe di Caporetto. I quattro alpini -
dopo un'esecuzione ripetuta due volte, perchè una
parte del plotone tirò a vuoto - vennero sepolti in
freytta e furia accanto alla chiesa, e sul luogo dell'esecuzione
sorge oggi l'unico monumento ai Caduti, tra le
migliaia sparsi in tutta Italia, dedicato a soldati
uccisi non dal nemico ma dai propri comandanti. Ma la
loro storia divenne rapidamente un pezzo della
memoria collettiva della gente di questa parte di
Friuli, tramandata nel dialetto della Carnia o nello
strano patois friulano che si parla intorno a Timau,
il paese da cui veniva Basilio matiz. Di inserti di
quei dialetti è fitto il testo scritto da Tolazzi,
che dopo la "prima" di questa sera e la
replica di domani verrà portato in scena a
Cercivento e, subito dopo, a Bovec, aldilà del
confine con la Slovenia. e magari anche quest'opera
teatrale porterà un contributo alla battaglia civile
che da anni i discendenti dei quattro alpini, il
Comune, la Chiesa, i circoli di paese stanno
conducendo per ottenere un processo di revisione che
restituisca l'onore ai quattro soldati giustiziati
senza motivo.
Da Il Giornale di Vicenza Lunedì
8 Luglio 2002
"Un
omaggio a Pieropan"
di Roberto Belvedere
Vicenza. Sabato 29 giugno mi sono
recato di buon mattino a piazzale Lozze, punto di
partenza del sentiero per Monte Ortigara, per
partecipare alla benedizione della targa dedicata al
nostro indimenticabile Gianni Pieropan. Nel giro di
un quarto dora il parcheggio si è quasi
riempito di automezzi; questo mi ha dato la misura di
quanto lo scrittore vicentino fosse amato. Senza
aspettare nessuno, mi sono incamminato di buon passo
lungo il sentiero tricolore e nel giro di unora
ho raggiunto la cima del monte: ero tutto solo in
quellambiente che, anche per me, emana qualcosa
di magnetico e provoca forte commozione. In quel
preciso momento ho sentito la necessità di
commemorare a modo mio Gianni Pieropan e, fatti
echeggiare un paio di tocchi alla campana, mi sono
diretto verso il monte Campigoletti e il monte Chiesa
Ma invece di seguire il sentiero segnalato, mi sono
infilato nella trincea austriaca che, partendo dalla
Valle dellAgnella, risale tutto il costone dei
Campigoletti; le difficoltà dovute ai sassi che
ingombrano lo scavo non sono insuperabili e questo mi
ha fatto tornare in mente quanto Pieropan stesso
caldeggiava ancora qualche decina di anni fa nella
sua "Guida al campo di battaglia": il
recupero di questo itinerario storico/paesaggistico
di straordinario interesse e bellezza. I manufatti,
le caverne, le trincee, le postazioni per
mitragliatrici, ecc. sono ancora in buono stato
grazie soprattutto alla natura morfologica del luogo
essendo stati scavati nella viva roccia e pertanto i
lavori di ripristino non dovrebbero essere
particolarmente gravosi. Considerando che migliaia di
turisti ogni anno si recano in vetta
allOrtigara, sarebbe straordinario far
conoscere e visitare, in tutta sicurezza, questo
interessantissimo tratto di prima linea
austroungarica che gli italiani non riuscirono a
conquistare talmente era dominante e ben organizzato.
In considerazione di quanto già fatto alle trincee
di Monte Zebio e di quanto previsto dalla legge 7
marzo 2001, n. 78 "Recupero e valorizzazione
delle testimonianze della Grande Guerra sul fronte
italiano" auspico un altrettanto fattivo
interessamento di quelle organizzazioni che
potrebbero dar seguito all intervento di
restauro (Comuni dellAltopiano, Provincia,
Regione, Ministero della Difesa, A.N.A. e non ultima
la folta schiera di appassionati che potrebbero dare
gratuitamente il proprio apporto con pale e piccone,
compreso naturalmente anche il sottoscritto). A mio
modesto parere, il ritorno di immagine per
lAltopiano di Asiago/Provincia/Regione, anche a
livello internazion ale, sarebbe notevole.
Da La Nuova, 5 Agosto 2003
Le trincee della Grande Guerra conducono
sulla via della pace
di Francesco dal Mas
Cortina. Il Veneto
in prima linea. Una trincea lunga 100 chilometri. Un
"museo all'aperto" il più alto e il più
esteso d'Italia,che parte ai piedi delle Tre C di
Lavaredo e finisce sull'Altopiano di Asiago. "Chi
lo percorre, rivive le sofferenze della prima guerra
mondiale, ma proiettandosi esclusivamente verso la
pace" spiega l'assessore regionale al turismo,
Floriano Pra, bellunese. Sarà Pra ad accompagnare,
giovedì il presidente della giunta regionale del
Veneto, Giancarlo Galan, alla posa della prima pietra
(ore 11 in località Pontechiesa, presso il magazzino
dell'ex segheria). Sarà, per la verità, la prima
del Centro Polivalente e sala congressi di Cortina.
Ma proprio qui si troverà sede il "punto
informativo" sugli itinerari della grande Guerra.
Cortina non ha mai avuto un centro congressi. Il
nuovo cantiere (da 5 milioni e 250 mila euro)
permetterà alla "regina delle Dolomiti" di
poter contare entro il 2006, su 650 posti (in 3 sale
modulari). Qui troveranno aspitalità anche il Parco
delle Dolomiti d'Ampezzo e il centro studi sulla
Flora e la Fauna. Tutto merito del programma europeo
Interreg con l'Austria. Gli austriaci, infatti, sono
stati i primi ad insistere per i "sentieri della
pace", come li ha ribatezzati Mario Rigoni Stern.
Sul Lagazuoi e sulle Cinque Torri, i percorsi sono
già frequentati da anni. Trincee, camminamenti,
gallerie, postazioni; chi vi sale ha tutte le
descrizioni sull'impossibile vita che vi conducevano
i soldati della grande guerra. " Non c'è
nessuna passione necrofora che ti coglie in questi
momenti - spiega Iacopo da Val, uno degli architetti
che hanno messo a punto il progetto - semmai
sentimenti del tutto opposti: basta guerre,
impegnamoci per la pace". percorsi didattici,
quindi, tanto che le scolaresche che hanno chiesto di
visitarle, nei mesi liberi dalla neve, hanno fatto
saltare ogni più ottimistica previsione. Il museo
all'aperto comincia con le trincee del monte Piana,
proprio davanti alle Tre Cime di Lavaredo. pèrosegue
con i forti di Pian dei Buoi, da una parte (tra
Auronzo e Lozzo di Cadore) e le Tofane dall'altra. In
mezzo c'è il monte Rite col "museo nelle nuvole2
di Reinhold Messner. Di questo forte trsformato in
laboratorio d'arte c'è un'unica saletta visitabile
senza pagare: è appunto quella con la lanterna che
usavano i militari nelle notti senza luna. giovedi
sarà inaugurato anche il museo di Val Parola, poco
distante dal Passo Falzarego. anche questo un forte
recuperato a museo. " Basterà pigliarsi un'autoguida
ai vari sportelli informativi - consiglia Da Val -
per farsi il giro dei diversi siti e immedisimarsi
nelle situazioni vissute al fronte. Sul posto,
inoltre c'è una cartellonistica così puntuale che
permette dei veri e propri percorsi didattici".
Il col di Lana sarà un'altra tappa, poi il
castellodi Andraz. E già si para davanti il
massiccio della Marmolada. Lassù a 3 mila metri di
Forcella V, sta riemergendo la "città di
ghiaccio", costruita dagli austroungarici a 50
metri di profondità. le nevi si sciolgono e vengono
alla luce perfino delle bombe inesplose. I
responsabili del museo della grande guerra, a Serauta
(dove arriva il secondo tronco della funivia) sono
preoccupati: troppi infatti, gli appassionati che
nottetempo recuperano gavette, scarpe, chiodi, armi
per conservarli come cimeli. Giù dalla Marmolada si
finisce in Val Imperina, con le vecchie miniere in
recupero, all'inizio dell'Agordino. Un breve volo e
si plana sulla cima del Grappa. E' la penultima tappa
del percorso, con i camminamenti che danno sulla
pianura veneta. Ma la prima linea saliva anche sull'Altopiano
di Asiago. " Se le alte vie alpinistiche sono in
crisi, questo è il futiro" chiosa l'assessore
Pra, che ha stanziato 5 milioni di euro solo per le
prime opere".. In effetti - ha testimoniato
Rigoni Stern in un recente convegno ad Arabba -
" i giovani hanno molto interesse verso queste
cose". Il motivo? " il sentiero della pace
diventa anche un momento di unione. Di aggragazione
tra i popoli. Ho visto percorrerli molti austriaci".
Dal Gazzettino, Ottobre
2003
Sante Del Sal, di Cesarolo, era
deceduto nel Maggio del 1916 in Val Posina
Lo pensavano disperso in guerra,
trovano i suoi resti all'ossario di Schio
Di M.Mar.
San Michele. Che
fosse morto in guerra, 87 anni fa era certo, ma dove?
Sante Del Sal, cittadino, decorato con la medaglia d'argento
e croce di guerra, nato il 27 settembre 1888 a
Cesarolo, frazione di San Michele, terzo di 11
fratelli, sposato con due figli, Elia, ancora vivente
a S.Daniele del Friuli, e Alice oggi scomparsa, era
considerato ufficialmente "disperso".
Eppure lo avevano cercato, quel padre di famiglia
morto per difendere la Patria. Non sempre con
costanza, però, anche perchè erano tempi duri e la
moglie, quando Elia aveva sette anni, ha pensato di
risposarsi, giusto anche per dare un futuro a quei
due figlioli rimasti orfani. Non lo cercava certo lo
Stato italiano, forse il più disattento, nonostante
sia stato il maggior beneficiato dal sacrificio di
Del Sal. Eppure a Cesarolo del povero Sante non si
erano dimenticati: prima, nel 1953, tentarono invano
di intitolargli la scuola elementare, su
interessamento del maestro Iginio Bianchin, ma in
quel caso la spuntò "Giovanni Pascoli";
poi, nel 1972, il consiglio comunale all'unanimità,
sempre su proposta del maestro Bianchin, diventato
consigliere comunale, riconobbe i suoi meriti e gli
intitolò la strada dietro il mulino, tra via
Conciliazione e via Manuzza. " Gli abitanti dell'ex
via Dietro il Mulino - disse in quell'occasione il
maestro Bianchin - chiedono che la loro via venga
definitivamente nomata Via Sante Del Sal, medaglia d'argento,
combattente della guerra libica e della prima guerra
mondiale, morto sul campo il 24 aprile 1916".
Una dat di morte sbagliata, come emerso recentemente,
essendo deceduto in realtà il 29 maggio 1916 a Sagli
di Campiglia in Val posina. A voler dare una svolta
alle ricerche dei resti mortali sono stati
recentemente le associazioni combattentistiche del
paese: l'Associazione ex combattenti e reduci di
Cesarolo e l'Associazione fanti d'arresto di San
Michele. L'occasione arrivò con il Console Onorario
d'Austria, Mario Eichta, presente a San Michele, lo
scorso 24 maggio, per la cerimonia di commemorazione
nel cimitero austro-ungarico, dopo i lavori svolti
dai volontari della Croce Nera austriaca. " Il
console Eichta - ricorda Angelo Zamparo, presidente
degli Ex combattenti di Cesarolo - ci disse che aveva
appena ritrovato i resti di due dispersi. Per noi fu
come un'illuminazione: avevamo trovato l'uomo giusto
in grado di fare le ricerche. Fu così che dopo
avergli fornito il foglio matricolare di Sante Del
Sal, recuperato nel 1992 dal figlio Elia, per
chiedere la pensione come orfano di guerra, il
console avviò le ricerche che ebbero fortuna: i
resti di Sante Del sal sono conservati nell'ossario
di Schio, dopo essere stati trasferiti dal piccolo
camposanto della Val Posina, dove erano stati
inizialmente sepolti". "L'avere individuato
nell'ossario di Schio il luogo dove riposa il nostro
concittadino - spiega il sindaco Sergio Bornacin - ci
dà la possibilità di organizzare per il prossimo
marzo 2004, assieme alle associazioni
combatettistiche, e in collaborazione con gli
amministratori di Schio, una cerimonia commemorativa".
Felice del ritrovamento dei resti mortali del padre
anche Elia Del Sal, 88 anni fra qualche giorno, che
da San Daniele manifesta ancora rammarico. " Ho
saputo - dice - che c'era la possibilità di avere
una pensione come orfano di guerra quando avevo 76
anni. L'ho ottenuta in ritardo e va bene. Ma vorrei
tanto che mi fossero restituiti la medaglia d'argento
e la croce di guerra di papà che nel 1953 consegnai
per l'intitolazione della scuola di Cesarolo: so che
furono inviati dal Comune al provveditorato agli
studi, ma poi non sono più tornati indietro. Chi se
li è tenuti?".
Dal Corriere della Sera, 1
novembre, 2003
L' ultimo fante della Grande
Guerra «Non dimenticate il nostro
sacrificio»
Carlo Orelli, 109 anni, soldato dal
1915: il 24 maggio ci portarono al fronte e cominciò
l' inferno «Ora i miei nipoti in Austria ci vanno a
sciare. Stimo Ciampi, è giusto celebrare il 4
novembre» Ha combattuto nelle trincee della Prima
guerra mondiale, è sopravvissuto alle mitragliatrici,
ai cecchini e ai colpi degli obici austriaci. Oggi, a
109 anni, racconta: «Abbiamo fatto la guerra senza
amarla, ma senza fare storie. Il nemico? Ci univa un
odio involontario»
Di Aldo Cazzullo
ROMA - «Voi non avete la minima idea
del suono che fa un obice austriaco da 420». Lui sì.
«E' tutto diverso da quello che immaginate». Gli
rimbomba nelle orecchie da quasi un secolo. Aveva
vent' anni. Ne ha 109. Il decano della Grande Guerra.
«Non è come nei film. Il cannone non fa: bum.
Troppo distante dalle trincee. Il cannone fa
piuttosto un brontolio, un rombo lontano, poi un
sibilo sempre più forte, più vicino. Il proiettile
sta per arrivare. A volte non esplode subito. Altre
volte non esplode mai. E' la lotteria della morte. Un
mio amico di Napoli si era sempre salvato
proteggendosi dentro un tubo di cemento. Spuntavano
solo le gambe. Centrate da una cannonata. E' morto
dissanguato». Carlo Orelli è la voce più antica,
la memoria più remota della Prima guerra mondiale.
Voci che si stanno spegnendo. Restano in Italia poche
decine di cavalieri di Vittorio Veneto. Alcuni sono
donne, crocerossine della Carnia. Altri sono ragazzi
nati nel 1900, che non spararono un colpo. I
combattenti non sono che un pugno. Carlo Orelli è l'
unico che possa raccontare il 24 maggio 1915 da
soldato. «La guerra era un finto segreto. Sapevano
tutti che sarebbe stata dichiarata. Io ero di leva, a
Capua, in fanteria. Ci portarono a Napoli, e da lì
in treno verso il fronte. Terza Armata, brigata Siena,
32° reggimento, 3a compagnia. L' ordine era di
avanzare con cautela in territorio austriaco. Sagrado.
L'Isonzo. Il Carso. Il nemico si era ritirato.
Entravamo nelle case vuote, chi aveva preso le
piattole cercava vestiti di ricambio, a volte vestiti
da donna. I combattimenti scoppiarono presto. L'
avanzata si fermò nell'estate. Cominciarono gli
assalti. Il massacro della trincea delle frasche».
La sua famiglia ha fatto tutte le guerre d' Italia.
Il nonno materno, Tommaso, con i difensori di Perugia,
insorta e domata nel 1849 dai mercenari papalini. Il
padre Gabriele richiamato per la campagna d'
Abissinia. Il fratello maggiore Alfredo combattente
nel 1911 in Libia. Il fratello minore Guglielmo
chiamato alle armi dal Duce e fatto prigioniero dagli
inglesi in Sicilia nel luglio ' 43. A Perugia Carlo
Orelli nasce il 23 dicembre 1894. Entra a scuola nell'anno
dell' assassinio di Re Umberto. Si trasferisce a Roma
nell' anno della guerra russo-giapponese. «La
sorella di mia madre aveva una trattoria in via del
Viminale. Io ero operaio aggiustatore meccanico,
quando mi chiamarono. Nessuno va alla guerra
volentieri. Quella però non era una guerra di
conquista. Era una guerra patriottica. Nella mia
brigata c' erano soldati di ogni parte d' Italia,
contadini del Sud che non sapevano né leggere né
scrivere, ma non si lamentavano mai. Morivano in
silenzio». I più coraggiosi, «i sardagnoli», i
sardi. Contro la trincea delle frasche si sgretola il
meglio dell' esercito italiano. «Un giorno siamo
usciti all' assalto in 330. Siamo tornati in 30. Non
so come mai a me non è toccata. La sera prima dell'
attacco portavano in prima linea il liquore, ma io
non l' ho mai bevuto. Quella roba faceva passare la
paura ma toglieva lucidità, dopo ti buttavi avanti
urlando "Savoia!", e morivi. Dall' altra
parte urlavano "Hurrah!", e morivano. Io
avevo un altro modo per darmi coraggio. Non pensare a
niente. Svuotare la testa. Non pensare mai alla casa,
agli affetti, agli amori. Non scrivevo, anche perché
non c' era tempo. Un giorno ho incontrato mio
fratello Alfredo, ci siamo salutati, non l' ho più
pensato sino alla fine, l' ho rivisto a casa, ferito
ma salvo. Dovevo restare lucido per avere un colpo in
più del nemico. Il fucile degli austriaci sparava
cinque proiettili; il nostro, sei. La vita era legata
al sesto proiettile». Quarto piano senza ascensore
di una vecchia casa alla Garbatella. Uno degli angoli
più appartati di Roma. Carlo Orelli ha il cranio
lucido e gli occhi blu. Sorride di rado. I suoi
tratti ricordano quelli di Gustavo Rol. «Mi hanno
sempre detto che ho gli occhi magnetici. Nessuno in
famiglia ha i miei occhi, tranne Angela, la figlia di
mio nipote Carlo». Sui mobili ci sono le foto dei
sei figli, tutti vivi, da Lia di 83 anni a Lucia di
68, in mezzo Alfredo, Marcella, Liliana e Maria, che
oggi gli è al fianco. Nove nipoti, undici pronipoti,
tra cui Christian, militare di carriera, che presto
lo renderà trisnonno. «Abbiamo fatto tutti la
guerra senza amarla, ma anche senza far storie.
Attorno alla Grande Guerra c' erano grandi passioni e
grandi personaggi, nelle retrovie passava il re sull'
auto scoperta, arrivava la notizia del volo di D'
Annunzio su Vienna, si annunciava un proclama del
comandante della nostra Armata, il Duca d' Aosta, su
Cadorna si leggevano poesie. Gli idealisti arrivavano
al fronte e il giorno dopo morivano. Nel mio
reggimento c' era Filippo Corridoni». Caduto davanti
alla trincea delle frasche il 23 ottobre 1915. Una
terra maledetta, cui i fanti davano nomi sinistri,
Passo della morte, Buca dei bersaglieri, Sassi rossi,
e ancora Ridottino dei morti. «Della guerra colpisce
che tutto succede di colpo. Un momento dormi, mangi,
ridi; un momento dopo non ci sei più. Un mio amico
era appoggiato a un muretto. Parlava. E' arrivato il
rombo, è arrivato il sibilo. La granata gli ha
staccato la testa di netto. Il corpo è rimasto lì,
dritto, innaturale». Eppure è con orgoglio che
Carlo Orelli parla della sua guerra. Sollecita le
domande con il linguaggio del secolo in cui è nato,
«seguiti pure a interrogarmi». Se Maria gli chiede
di non affaticarsi la manda a fare una commissione,
«ma per uscire copriti bene». Non si rifugia in
luoghi comuni quando parla degli ufficiali, «i
generali non si vedevano, gli altri però morivano
come noi. Il fango? Le malattie? Niente, in confronto
all' assalto». Usa un' espressione bellissima per
definire il rapporto con il nemico, «odio
involontario». «Ci sparavamo addosso, eravamo
legati alla nostra bandiera, alla nostra divisa, ma
non c' era astio ideologico, non c' era volontà di
annientamento. Ognuno sapeva che l' altro stava
facendo il proprio dovere. Le trincee erano lontane
duecento metri ma noi avevamo l' ordine di non
sparare: l' accordo tacito era di far tacere i
cecchini, di non molestarci nelle pause tra i
combattimenti. Quando riuscivamo a conquistare una
trincea austriaca la trovavamo piena di sigarette,
vino, pure cioccolata; i prigionieri ce la offrivano,
noi avevamo la disposizione di rifiutare, si temeva
una trappola, un avvelenamento; così si faceva
assaggiare la cioccolata a un prigioniero, poi si
faceva a mezzo». «Fino a quando non toccò a me.
Gli austriaci si erano trincerati nel parco di una
tenuta nobiliare. Assalto. Non arrivammo mai ai
reticolati. Una mitragliatrice ci prende d' infilata,
le mitragliatrici non si vedono mai, si sentono solo,
l' artiglieria aggiusta il tiro. Una granata uccide
il comandante della compagnia, il tenente Occhipinti,
e ferisce molti di noi. Muore il mio migliore amico,
Ercolanoni, umbro come me. I compagni continuano a
sparare, ma così si fanno individuare dagli
austriaci. Ci tirano addosso come al tiro a segno. Il
sottotenente sdraiato accanto a me ha una pallottola
in fronte. Io ho schegge in tutto il corpo e una
ferita di striscio all' orecchio sinistro, un
centimetro più in là e sarei spacciato. Mi portano
indietro a braccia, in un casolare. Poi all' ospedale
da campo, quindi a Bologna, a Perugia. La mia guerra
è finita. Il resto è un' idea sfumata di medicine,
odori, letti bianchi, convalescenza. Ricordo bene i
versi che studiavo a scuola da bambino, non ricordo
nulla della malattia. La gamba destra mi fa ancora
male. Non è mai guarita». La guerra è una croce di
ferro, esposta in una teca, accanto al diploma di
cavaliere di Vittorio Veneto con la firma di Saragat
e a una vecchia tessera del Psi, ancora con falce e
martello. «Sono sempre stato socialista. Nenniano.
Avevo orrore per il fascismo. Ma sarei bugiardo se
dicessi che sono stato un oppositore. Semplicemente,
non ero d' accordo. Non ho mai preso la tessera, non
ho mai preso botte. Sono inorridito quando a Roma
arrivarono i tedeschi. Ma ero già nonno, cosa potevo
fare? Dopo il congedo mi avevano trovato un posto a
Gaeta, alla direzione di artiglieria, dove ho
conosciuto mia moglie Cecilia. Poi sono tornato a
Roma, capotecnico dell' Atac. Ho badato ai miei
pensieri, non mi sono mai arrabbiato troppo, ho
cercato di avere buoni rapporti con le persone che
incontravo. Cecilia se n' è andata nel ' 69. Mi
aspetta al Verano». «Dalla guerra non ho
avuto alcun vantaggio. L' unica pensione che ricevo
è quella dell' Atac. Ma non ho certo combattuto per
un vantaggio, per nulla che non fosse il mio Paese. E
a Trieste alla fine ci siamo arrivati. Poi il mio
Paese pian piano si è dimenticato di noi. Un po' lo
capisco, è passato così tanto tempo. Dei miei
vecchi fratelli d' arme, di tutti questi ragazzi che
vede nella foto della mia compagnia, non è rimasto
nessuno. E' cambiato tutto, c' è l' Europa, i nemici
sono alleati, in Austria i miei nipoti vanno senza
passaporto, a sciare. Vedo però che il presidente
Ciampi è attento a queste cose. Lo stimo perché è
uno di noi, ha passato quasi tutte le peripezie del
secolo, ha combattuto pure lui una guerra, e non lo
nasconde. Spero che vorrà ricordarsi anche del 4
novembre, dell' anniversario della vittoria, per cui
si è sacrificata la mia generazione». La trincea
della frasche fu presa dalla brigata Sassari il 14
novembre 1915. Nei primi sei mesi l' Italia perse 270
mila uomini tra morti e feriti. Oggi non ci sono
superstiti, tranne lui. «Ero un uomo molto forte.
Avevo una forza incredibile. Adesso non faccio un
passo senza Valentina, la signora ucraina che mi
guarda. Se Valentina non mi sostiene, crollo. Chissà
quanto dura ancora. Qui alla Garbatella non c' è
nessuno che ha l' età mia». Nessuno in tutta Europa,
forse. Arriva il momento in cui ci si dice: il più
vecchio sei tu. Verrà il momento in cui non ci sarà
più nessuno a custodire la memoria, e la Grande
Guerra sarà solo degli accademici e degli archivisti.
Neppure la memoria è un vantaggio. Ci scusi il
signor Carlo se abbiamo risvegliato la sua. «Sono io
che mi scuso se non ho detto tutto. Ci sono cose che
non ricordo. Ci sono cose che non voglio ricordare».
Da La Gazzetta del sud, 6
Novembre 2003
4 NOVEMBRE: IN RICORDO DELLA BRIGATA
CATANZARO
di Mario
Saccà
Lo scultore Michele Guerrisi avrà
pensato alla Brigata Catanzaro nel progettare ed
eseguire il monumento ai caduti che sta dinanzi al
tribunale inaugurato nel 1933. Quell'unità militare,
nata nei primi mesi del 1915 nell'imminenza della
prima guerra mondiale, era composta da due reggimenti
di fanteria: il 141° che si formò a Catanzaro
Marina (deposito del 48° fanteria), sotto il comando
del col. Gaetano Perella e il 142° che sorse a
Cosenza ( deposito del 19° fanteria); in entrambi
erano arruolati, in grande maggioranza, uomini
calabresi. Il precipitare degli eventi bellici fu
comunicato al 141° Reggimento della Divisione
Militare di Catanzaro alle 19,40 del 22 Maggio.
Definiti i preparativi il 31 dello stesso mese la
Brigata venne passata in rassegna, a Catanzaro Lido,
dal suo comandante maggiore generale Ferruccio Mola.
Al 24 Maggio la Catanzaro era inquadrata nella 28a
divisione del XIV C.d'Armata. La partenza avvenne il
7 Giugno in sintonia con i reparti provenienti da
Reggio Calabria. Pochi giorni dopo il reggimento
passava a far parte della Terza Armata, che obbediva
agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta,
la cui tomba è alla testa dei caduti sepolti a
Redipuglia. Il diario del 141°, custodito presso l'Ufficio
Storico dell'Esercito che ha sede a Roma, narra con
estrema puntualità la fase di formazione del
reggimento e il ruolo che esso,unitamente al 142° ,
ebbe nei combattimenti del conflitto mondiale sul
fronte più duro, quello del Carso, con una breve
parentesi ad Oslavia e sull'Altopiano di Asiago nel
momento più alto della Strafexspedition dell'esercito
austro ungarico. Su quei terreni, ancora oggi meta di
tanti italiani, gli ufficiali, i graduati ed i fanti
dalle mostrine rosso nere si batterono con grande
valore e lasciarono sul terreno migliaia di morti,
feriti, dispersi e prigionieri. La loro combattività
era tanto nota che anche gli scrittori militari
austriaci ne fanno menzione in alcuni libri che
compongono la bibliografia più importante di quell'immane
conflitto. Una pubblicazione del 1919 dal titolo
"Brigata Catanzaro", custodita nei civici
musei di storia ed arte di Trieste, inizia così :
" Fanti del Carso, li ricordate i " rossi e
i neri" della Catanzaro? 141° e 142°: i numeri
sacri della Calabria eroica! Dalle spiagge solatie
del mar Jonio, dai villaggi sperduti tra la Sila e l'Aspromonte,
dalle città risorte sulle rovine dei terremoti,
questi figli della terra che prima ebbe il nome d'Italia,
accorsero cantando nei lunghi treni infiorati e
imbandierati alla fronte lontana". E prosegue
" ma ogni conquista fu battezzata nel loro
sangue,ogni cimitero fu popolato dei loro morti e noi
tutti, fanti del Carso, che sapevamo con quanta
devozione ciascuno di voi recasse quel voto vi
ammiravamo, o eroi della Catanzaro". Il 141°
ebbe il battesimo del fuoco nell'ultima decade del
Luglio 1915 partecipando alla II battaglia dell'Isonzo
per dare l'assalto del trincerone di Bosco Cappuccio
e del Colletto di S. Martino che riuscì a
conquistare con "slancio ammirevole". Il
colonnello Adolfo
Zamboni che aveva combattuto nel 141°, nella
seconda edizione del suo libro voluta nel 1933 dal
catanzarese Guido Mauro ( la prima era stata
pubblicata a Padova dall'editore Draghi), ricorda i
fasti della Brigata Catanzaro e le battaglie
successive alle quali prese parte. Il 21 Ottobre 1915
fu schierata per conquistare due munitissimi
fortilizi austriaci denominati "Ridottina Rosso"
e "Groviglio" ; il reggimento italiano
"perdette oltre i due terzi degli effettivi ma,
quando ricevette il cambio il 3 Novembre, potè
consegnare alla Brigata Regina quel sistema di
trincee difese disperatamente dagli austriaci".
A Gennaio del 1916 il 141° combattè ad Oslavia
riuscendo a difenderla dagli assalti degli avversari.
Nel maggio dello stesso anno, nella notte fra il 18 e
il 19, iniziò il trasferimento della brigata sull'Altopiano
di Asiago e il 25 fu ordinato di recarsi sul Monte
Mosciagh. Il colonnello Thermes che comandava l'unità
pronuciò un breve discorso "Figlioli, se
occorre,sacrificatevi tutti; pensate, se il nemico
riuscirà a superare queste ultime resistenze, in
poche ore sarà al piano (pianura veneta ndr). Non
dovete permettere tanta infamia". Ecco come i
soldati della Catanzaro interpretarono le parole del
loro comandante "Di fronte all'impeto dei fanti
che, pur di avanzare non si spaventavano delle
perdite, gli Austriaci si ritirarono lasciandoci
padroni della cima del Monte Mosciagh ma senza
abbandonare le due batterie da campagna catturate (agli
italiani) nel mattino... occorreva riconquistare i
nostri pezzi". L'ordine operativo fu emanato
nella mattina del 27 Maggio ed affidato al 141°
Reggimento della Brigata Catanzaro, mentre il 142°
restava alle spalle come rincalzo. L'assalto fu
sferrato attorno alle 21 di quel giorno e guidato dal
comandante maggiore Corrado che volle restare al suo
posto malgrado una ferita al braccio. Il fuoco
austriaco fu micidiale, gli italiani avanzavano
usando solo la baionetta e dopo tre ore di scontri
sanguinosi riuscirono a riprendere i cannoni agli
avversari . L'episodio venne conosciuto in tutta
Italia e il 141° ne trasse il suo motto "SUL
MONTE MOSCIAGH LA BAIONETTA RECUPERO' IL CANNONE".
Dopo altri combattimenti sul Cengio la Brigata tornò
sul fronte del Carso e nella prima decade di Luglio
conquistò la Cima 1 del Monte S.Michele, con perdite
gravissime, catturando due interi battaglioni
austriaci. Ad Agosto con un altro grande sforzo
bellico fu conquistato il Nad Logem. Il
riconoscimento al valore della "Catanzaro"
venne direttamente dal Re che con "motu proprio"
concesse alla bandiera del Reggimento la medaglia d'oro
al valore militare "Per l'altissimo valore
spiegato nei molti combattimenti intorno al S.
Michele, ad Oslavia, sull'altipiano di Asiago, al Nad
Logem, per l'audacia mai smentita, per l'impeto
aggressivo senza pari, sempre ed ovunque fu di
esempio ai valorosi". Altre battaglie sull'Isonzo
videro la Brigata confermare la sua combattività
fino a meritare il plauso del Comando Supremo e altre
citazioni sul bollettino di guerra. Pertecipò così
alla conquista di Gorizia e dopo un periodo trascorso
nelle retrovie del Piave fu imbarcata sulla nave
"Re Umberto" per entrare a Trieste, con le
altre truppe vittoriose. In questa città esiste una
lapide nella quale la Brigata Catanzaro rende omaggio
alla tomba di Guglielmo Oberdan. A Cima 4, sul Monte
S. Michele, vi è il piccolo museo della III Armata:
nella parete di fronte all'ingresso è esposta la
fotografia di un catanzarese il cap. Ettore Vitale.
La bandiera della Brigata Catanzaro è tra le altre
bandiere conservate nell'Altare della Patria a Roma.
Il colonnello Basilio Di Martino, ha scritto un
intero libro su di essa, edito nel 2002 e tratto dal
diario di guerra della Brigata, illustrando anche un
episodio di decimazione di alcuni suoi componenti per
via di un episodio allora individuato come atto di
ribellione, ma dovuto, nella realtà, alla confusione
esistente nel comando. La storia ricorda il grande
tributo che il 141° e il 142° diedero nella Grande
Guerra che va ricordato perchè quella storia non fu
vana : ancora oggi, pur nella diversità dei tempi,
segna il senso di essere cittadini di questo Paese.
Concludo con alcune parole contenute nella lettera
che Emanuele Filiberto di Savoia il 29 Marzo 1929
inviò al col. Zamboni, autore del libro già citato:
"L'omaggio devoto della fervida rievocazione :
"DELLE GESTA COMPIUTE DAL 141° REGGIMENTO
FANTERIA NELLA GRANDE GUERRA", mi è giunto
assai caro, perchè ho sempre nel cuore questa
magnifica legione di prodi che dalla terra di
Calabria trasse la tenacia e l'anima pugnace...Inchinandomi
alla Bandiera del 141° Reggimento Fanteria -
medaglia d'oro - che nel trionfo delle armi d'Italia
agitò le sue glorie nel sole di Trieste - meta di
luce per i fieri combattenti della mia Terza Armata -
ricontemplo il sacrificio degli Eroi noti ed oscuri
che per virtù d'amore eternamente vivranno nel culto
della Patria."
BRIGATA CATANZARO - 141°
REGGIMENTO FANTERIA (Milano, Bestetti e
Tumminelli 1920) storia della brigata
pluridecorata con episodi di guerra vissuti
anche sull'altopiano di Asiago.
Zamboni Adolfo, IL 141°
REGGIMENTO FANTERIA NELLA GRANDE GUERRA (Padova,
Draghi 1929) ancora sulla brigata Catanzaro
Vai
alla Catanzaro
Da Il Domani - Calabria, 19
Novembre 2003
La storia de La Brigata
Catanzaro il reparto
italiano formato da soldati calabresi tanto
coraggiosi da meritare due medaglie d'oro al Valor
Militare
Eroi dalla testa
dura
Preferivano
ammutinarsi piuttosto che arrendersi
di Bruno Gemelli
Il 4 novembre scorso, in occasione
della festa delle Forze Armate, la Rai ha trasmesso
in prima serata un documentario per ricordare le
varie fasi della prima guerra mondiale, 1915-1918.
Attraverso immagini accompagnate da una voce narrante
è stat ricordata la grande tragedia del novecento,
la cosidetta vittoria mutilata che contò ben
seicentomila morti. Tra i tanti episodi del conflitto
segnalati dalla trasmissione c'è stato, sibillino,
un riferimento all'ammutinamento della "Brigata
Catanzaro" che si sarebbe consumato secondo lo
storico Pieri Pieri il 15 luglio 1917. Sentendo quell'espressione
alcuni telespettatori che masticano un po' di storia
si sono chiesti : ma la "Brigata Catanzaro"
non fu il reparto italiano più coraggioso tanto da
meritarsi due medaglie al valor militare? E non è
forse vero che la bandiera di combattimento della
"Brigata Catanzaro" sia sempre esposta nel
Sacrario del Vittoriano a Roma? Gli austriaci, nostri
nemici in guerra, provarono sempre grande ammirazione
per gli assalti alla baionetta dei fanti calabresi.
In realtà quello che la storiografia liquida come
ammuttinamento, con un po' di residuo retorico d'annunziano,
in realtà furono episodi di ribellione dovuti al
caos che pervase gli alti comandi militari che si
trovarono spiazzati davanti al coraggio dei fanti
calabresi che, andando incontro alla morte,
certamente non arretravano di un millimetro di fronte
alle ottusità di taluni comandanti. Furono, quelli,
eroi dalla testa dura che oggi vanno rivalutati come
dimostrano i recenti studi di Mario Saccà, ricercatore
di storia patria catanzarese. Nel 1999 la compagnia
"Krypton" presentò al Teatro Valle di Roma
un lavoro di Francesco Suriano, "Rocco u' stortu",
che è la storia di un bracciante calabrese che
partecipa come fante di prima linea della "Brigata
Catanzaro" sul fronte del Carso e poi viene
fucilato per rivolta e insubordinazione a Santa Maria
la Longa. C'è, dunque, tutta un'epopea che va
rivisitata per ridare l'onore a quei soldati che
furono decimati nonostante il loro sangue venisse
copiosamente versato sulle trincee. " Nomen omen",
nel nome il destino. La "Brigata Catanzaro",
il cui motto era "Per la Patria", nacque il
1 marzo 1915 e fu sciolta nell'isola di Pantelleria
il 27 maggio del 1995. La brigata gemella, la "Sassari",
è ancora attiva tant'è che alcuni suoi uomini sono
morti nella recentissima strage di Nassrya. La "Brigata
Catanzaro" era composta da due reggimenti di
fanteria, il 141° di stanza a Catanzaro Marina e il
142° di stanza a Cosenza, i soldati erano quasi
tutti calabresi, conosciuti negli ambienti militari
del tempo con l'appellativo " i rossi e i neri"
per via delle mostrine che erano appunto rosso-nero.
Uno dei suoi giovani ufficiali, Adolfo Zamboni,
sottotenente di complemento nel 141° reggimento
fanteria della "Brigata Catanzaro" scrisse
un libro, edito da Guido Mauro di Catanzaro, per
ricordare i fasti e le glorie di quelle battaglie, "Sul
Monte Mosciagh la baionetta ricuperò il cannone"
recita il frontespizio del volume. La città
capoluogo ha storicizzato quegli eventi affidando il
ricordo perenne al monumento ai caduti che sorge
davanti alla Corte d'Appello: esso fu realizzato, nel
1933 da Michele Guerrisi, uno scultore di Cittanova (Rc)
che, nel fare il bozzetto, pare si sia ispirato alle
eroiche gesta dei fanti calabresi. L'opera, tuttavia,
è mancante di un pezzo, infatti nell'angolo
posteriore destro della piattaforma che rievoca l'assalto
c'era la statua di una donna piangente che
rappresentava tutte le mamme dei caduti. Non si sa
che fine abbia fatto questa scultura bronzea: la
vulgata più diffusa sostiene che essa fu danneggiata
durante la seconda guerra ondiale e , quindi, riposta
in uno scantinato di un ufficio pubblico, lasciandola
così al saccheggio degli ignoti che sembra l'abbiano
fatta a pezzi e poi venduta come vile metallo. Ma la
cosa più strana è un'altra: il libro "Cara
Catanzaro" di Beppe Mazzocca e Antonio
Panzanella (Rubettino editore, pag 478, 1987) mostra
due foto del monumento ai caduti scattate entrambi
nel 1935. In una, la donna è posizionata guardando
avanti, nella direzione dell'azione, nell'altra,
guarda dalla parte del tribunale. Quale fu il motivo
della rotazione? Non è dato sapere, sono state fatte
al riguardo delle illazioni ma che lascerebbero il
tempo che trovano. Da queste colonne lanciamo un
appello affinchè venga ricostruito questo dettaglio
storico. Non era Cicerone che diceva che la memoria
va esercitata?
Vai
alla Catanzaro
Cerimonia
in onore dei Caduti nel Cimitero Militare Italiano di
Hartkirchen(Austria).
Ricordato il tragico sacrificio del Cap.
degli Alpini Enea Guarneri.
(
Intervista di Mario Paccher. Articolo gentilmente
concesso da M. Eichta )
Venerdì 6 dicembre 2002,
nellambito delle manifestazioni di contorno
previste dal Congresso della Croce Nera Austriaca a
Linz, si è tenuta ad Hartkirchen, cittadina a 25 km.
da Linz, una commovente cerimonia internazionale a
ricordo dei soldati che furono lì sepolti. Durante
la Grande Guerra si trovava nel paese limitrofo di
Aschach an der Donau, nei pressi del Danubio, un
vasto campo di prigionia per soldati russi, serbi e
italiani. Tutti i soldati, che vi morirono durante la
prigionia, vennero sepolti del Cimitero Militare
appositamente predisposto dalle autorità militari
austro-ungariche nel territorio del comune confinante
di Hartkirchen. Mario Eichta, ideatore degli Incontri
italo-austriaci della pace a ricordo dei caduti e
delle vittime civili della Grande Guerra ed
instancabile sostenitore che la comune tragedia della
guerra debba contribuire ad unire i popoli un tempo
nemici, ha avuto una ancora una volta una grande idea.
Egli era venuto a conoscenza, tramite le vicende di
prigionia del Ten. Leone Periz, di cui Eichta ebbe
modo di scrivere nel suo ultimo libro, della tragica
fine del Cap. degli Alpini Enea Guarneri, nato a
Passirano, in Provincia di Brescia. Il Cap. Guarneri
aveva progettato e stava concretizzando la fuga dal
quel campo di prigionia. Il terreno improvvisamente
crollò e travolse il povero Capitano che morì per
soffocamento.
Le imperial-regie autorità
militari del campo si mobilitarono e si sforzarono
encomiabilmente nel tentativo di salvare
lUfficiale italiano. Il Capitano Enea Guarneri
aveva ventiquattro anni! Ogni tentativo risultò
inutile! Al Cap. Guarneri le autorità militari
austro-ungariche riservarono gli onori militari! Per
il suo eroico impegno al fronte in tempo di guerra
venne poi decorato con la Medaglia dOro al
Valor Militare.
Eichta convinse il Col.
Friedrich Schuster, Presidente della Croce Nera
dellAlta Austria, a svolgere proprio lì la
cerimonia di contorno che si doveva tradizionalmente
tenere il giorno prima del congresso. Nel contempo
cercò tramite internet e poi contattò personalmente
i parenti del Cap. Guarneri ed il Sindaco ed il
Gruppo Alpini di Passirano. Il 6 dicembre erano tutti
presenti ad Hartkirchen ed hanno onorato nel settore
italiano del Cimitero Militare, insieme alle numerose
ed importanti autorità civili, militari e religiose
austriache convenute, tutti i soldati lì sepolti e
la memoria del Cap. degli Alpini Enea Guarneri. Erano
presenti per la prima volta dopo più di
ottantanni il nipote del Capitano Guarneri che
porta lo stesso nome, il Dott. Enea Guarneri con
tutta la Sua famiglia, il Sindaco di Passirano rag.
Angelo Zinelli ed una folta rappresentanza di Alpini
dì Passirano con il loro Capo Gruppo Franco Pagnoni
ed il labaro Sezionale. Erano pure presenti tra gli
altri il Presidente della Sezione ANA di Feltre cav.
Renzo Centa, il Consigliere della Sezione ANA di
Trento cav. Giovanni Bernardelli, lex
Vicepresidente Nazionale ANA geom. Carlo Balestra, il
Sindaco di Feltre Alberto Brambilla e il
rappresentante di Onorcaduti Ten. Col. Gianvito
Mastroleo, accompagnato dal Maresciallo Primo
dAgostino. Impeccabile come sempre
lorganizzazione curata da Schuster e da Eichta
con la preziosa collaborazione del Col. Alexander
Barthou del Comando Militare Austriaco.
Mario Eichta ha fatto
sapere con loccasione che incontrerà tutti i
presenti, e con grande piacere, allIncontro
italo-austriaco che organizza questanno
domenica 18 maggio 2003, nel Cimitero Militare di San
Michele al Tagliamento(Prov. di Venezia). Nello
stesso giorno poi sono state consegnate dal Col.
Schuster alcune importanti onorificenze al merito
della Croce Nera Austriaca, tra cui la Croce Nera di
II° grado al Cav. Ottorino Brunello, entusiasta ed
instancabile Presidente dellAssociazione IV
Novembre-Ricercatori Storici. Il Col. Schuster ha
voluto insignire di onorificenza, per il grande
impegno profuso in tanti anni accanto al dinamico
marito cav. Ottorino, anche la gentile Signora Teresa
Brunello.
Il Congresso del giorno
successivo è stato come sempre molto interessante ed
ha visto, come unico intervento ufficiale da parte
italiana, quello bilingue e significativo di Mario
Eichta.
Da LEco di Bergamo,
Sabato 9 settembre 2000
Le
testimonianze della Guerra Bianca
di Claudio De Cobelli
Cresce
linteresse per i numerosi oggetti che ancora
sono racchiusi nei ghiacciai, dallAdamello alla
Marmolada.
Una nuova forma di
escursionismo sui percorsi tracciati un tempo dagli
alpini.
Ai due inverni, quello del 1915 sul 16 e
quello successivo, durante i quali, sulle Alpi,
truppe italiane, austriache e tedesche si sfidarono
nelle epiche lotte della Guerra Bianca, spettano tre
record metereologici: lIstituto Centrale
Meteorologico Svizzero, sito ai 2.100 metri del San
Gottardo, segnala che mai, dal 1847 ad oggi, si sono
verificate coincidenze atmosferiche tali (quanto ad
altezza della neve: 6,70 metri il 31 marzo 1916;
quanto ad inizio della neve stabile: il 21 settembre
del 1915; quanto a scomparsa definitiva della neve:
il 21 luglio del 1916), da non consentire ad esseri
umani normali sufficienti margini di
sopravvivenza. Eppure lassù decine di migliaia di
uomini, normali, ci vissero, e combatterono; lassù
costruirono rifugi e teleferiche, aprirono nuove vie
alpinistiche, tracciarono sentieri e ferrate, lassù
trasportarono pezzi da montagna e legname per
baracche, aprirono gallerie per le mine e caverne per
il riparo. Ma soprattutto lassù vissero, cioè
dormirono, mangiarono, si vestirono e molti morirono,
trascinati a valle da una valanga od uccisi da
pallottole di fucili cecchini o bombe di
bombardamenti a tappeto. Qualcosa vi lasciarono ed
oggi, anche grazie alla nefasta ritirata dei
ghiacciai, sulla Marmolada, sullOrtles,
sullAdamello, è possibile rinvenire, negli
anfratti delle rocce, nei crepacci improvvisamente
aperti, o lungo i comodi sentieri spesso ben
riadattati, gli oggetti della vita quotidiana dei
combattenti: palle di shrapnel inesplose, reticolati
e fili spinati, baionette e racchette da neve, ma
anche gavette arrugginite, stracci di capi
dabbigliamento, lembi di lettere alla famiglia.
Tutto larco alpino centro-orientale, dalle
vette del Cevedale e del Gran Zebrù sino alle Alpi
Carniche fra Friuli e Slovenia, offre ad ogni tipo di
escursionismo loccasione per visitare i luoghi
in cui si verificarono gli eventi bellici. Per il
turista abituato a gite tranquille, le salite
allAltopiano di Asiago ed allantistante
Gruppo del Grappa offrono loccasione di
imbattersi in vaste trincee, fortini semidiroccati,
strutture di difesa e doffesa che ospitarono,
in due distinte fasi della Guerra (la Strafexpedition
del marzo 1916, voluta dal Generale Conrad per
allentare la pressione italiana sul Carso e la
resistenza italiana dellinverno 1917 dopo
Caporetto) centinaia di migliaia di soldati, di
qualunque arma e nazionalità. Se adeguatamente
attrezzati, è possibile seguire il tracciato dei
percorsi di guerra in parete, le vie aperte dalle
pattuglie dassalto per la conquista di picchi
giudicati inaccessibili, come sulla Via Ferrata
Lipella in Tofana, o sul sentiero degli Alpini in
Croda Rossa di Sesto, ed imbattersi in testimonianze
della guerra. Per i cultori della materia, sono stati
allestiti veri e propri musei allaperto,
tangibili testimonianze degli eroismi dei combattenti,
quali quello sulla Cengia Martini, sulla parete Sud
del Lagazuoi, o quello su Cima Serauta, nel complesso
della Marmolada. Insieme ai resti e
grazie ad essi, lescursionista attento scopre
che ad essi sono legati valori che altrove sembra
siano spariti: la memoria, la solidarietà, il
sacrificio, lonestà. Valori che sono lì, a
portata di mano: i soldati li hanno affidati,
ottantacinque anni fa, alla montagna, affinché lei
li proteggesse, li conservasse e li tramandasse.
Coglierli, per farli propri e tenerseli ben stretti,
è opportunità che la montagna offre. Ad una
condizione: il rispetto. Occorre ricordare che
ciascun oggetto, gavetta, bomba, baracca, teleferica,
trincea od elmetto che sia, ha vistola vita del
soldato che ha nutrito, che ha ucciso, che ha
ospitato, che ha trasportato, che ha protetto: ha
visto il suo sacrificio, la sua stanchezza, la sua
disperazione, la sua paura, la sua nostalgia, il suo
freddo: gli è appartenuta, con lui ha condiviso tre
anni di vita. Rispettiamo, non portiamo via, non
rubiamo alla montagna. Oggi è dato imbattersi in
vere e proprie comitive di sciacalli, spesso tedeschi
ma anche italiani, che si definiscono
recuperanti. Con questo termine si
identificarono subito dopo la guerra coloro che,
militari e non, si diedero da fare, per interessi
privati o per amore della montagna, a ripulire le
Alpi da quanto lasciatovi, dagli italiani in fuga
dopo Caporetto e dagli imperiali inseguitori. Ora, ad
ottantacinque anni di distanza, i loro nipotini
salgono le cime, perlustrano le grotte, cercano nei
crepacci, armati di mountain bike, con le quali
confrontano i loro muscoli dacciaio, e di
lattine di Coca Cola, che regolarmente dimenticano.
Ogni ritrovamento è una festa: alle cime vengono
sottratti i diari di vetta, nelle grotte vengono
trovati reticolati e piccoli depositi di esplosivo,
dai crepacci aperti dalleffetto serra vengono
asportati (e questa è la preda preferita) cappotti,
mantelle e scarponi ancora avvolti intorno al loro
proprietario. Rispetto. E qualche consiglio.
Anzitutto è necessario documentarsi. Quindi leggere
i numerosi testi sullargomento: studiare le
mappe militari e le cartine turistiche, ascoltare le
indicazioni di chi quei luoghi conosce; affidarsi
alla guida di esperti montanari. Ha più senso, se si
sale al Matajur, oggi in Slovenia, davanti a
Caporetto, sapere che sul fianco destro di quel monte
che evoca disastri e rovine si distinse, per eroismo
e ferocia, lallora tenente dei reparti speciali
da montagna del Wurttenberg Erwin Rommel, la futura
volpe del deserto. Qualcosa in più si capisce, nella
visita alla galleria di mina del Castelletto, sul
fianco della Tofana Prima, se si conosce la storia di
quella terribile mina, che utilizzò un quarto della
produzione annua italiana di esplosivo, fece saltare
in aria 6.000 tonnellate di montagna e disintegrò la
vita di 220 Kaiserjaeger austriaci. Ancor più
comprende, lescursionista che sale al Presena,
se ha letto che nella sera di Natale del 1916 due
pattuglie, una italiana e una austriaca, composte da
sette intirizziti e tristi soldati, si scambiarono
doni: pane, per gli italiani, tabacco, per gli
austriaci. Ed i valori si colgono, se ad essi
lalpinista aggiunge il silenzio, il rispetto,
la pietas che la memoria reclama.
Articolo gentilmente concesso da www.alpiniazzano.com/Storica/GuerraBianca.htm
Da L'Eco di Bergamo,
Sabato 27 ottobre 2001
Sull'Ortles
vino e tabacco per gli austriaci
di Claudio De Cobelli
Ad avviare lo
scambio gli alpini bergamaschi dopo un capodanno
festeggiato col nemico sulla Cima Trafoi.
Nelle pause della
terribile Guerra Bianca anche episodi di solidarietà.
Gruppo dell'Ortles, 14 ottobre 1918: mancano tre
settimane al termine della prima guerra mondiale, ma
su queste cime nessuno ancora lo può immaginare.
Quassù, fra i 3.600 ed i 3.900 metri d'altezza, non
arrivano né i passaparola né i si dice.
Nulla immaginano gli osservatori d'artiglieria
italiani, appollaiati da mesi sulla cresta della
Thurwieser Spitze, tanto sottile da sembrare una lama.
Nulla immaginano i Kaiserjaeger austriaci, dentro la
grotta di ghiaccio in cima al San Matteo da loro
appena riconquistato. Nulla immaginano, mentre
affrontano le pareti vetrate della Koenigsspitze (Gran
Zebrù), le due corvée d'appoggio ai nidi d'aquila
italiano ed austriaco, abbarbicati sulla cima a
trenta metri di distanza l'uno dall'altro. Sono le 14,
da qualche ora l'aria è stranamente afosa, molle,
immobile; la temperatura elevatissima, tanto che il
vetrato che ricopre la parete inizia a sciogliersi;
il cielo è del colore e del peso del piombo, ed i
membri delle corvée faticano più del solito, il
loro respiro è affannoso, le gambe deboli.
Improvvisamente fucili, corde ferrate, elmetti,
proiettili, scarponi chiodati e ramponi, gavette e
posate, tutto quanto vi è di metallico, viene
percorso da una terribile scarica elettrica. I
capelli si rizzano in testa, soldati vengono sbalzati
giù dalla parete, le bombe ed i proiettili esplodono.
Dal fondo della Val Zebrù, preceduto da un terribile
boato, si leva un vento fortissimo che travolge tutto.
Si scatena l'uragano. Duemila fulmini e raffiche a
duecento chilometri l'ora spazzano per quaranta
minuti la montagna e tutto quello che vi si trova: le
baracche di presidio sulle cime volano negli abissi,
i fili del telefono sono percorsi da micidiali
scariche di corrente elettrica, esplodono il deposito
munizioni austriaco sul retro dell'Ortles e quello
dei razzi segnalatori italiani sulla cima della
Trafoier Eiswand; dal passo del Cevedale partono due
slavine di ghiaccio e roccia che si abbattono su
Solda, radendo al suolo il Centro comando austriaco;
la Capanna Milano, sede del Comando Gruppo Arditi
della Val Zebrù, prende fuoco. Su queste montagne i
soldati dovettero fare i conti con il più temibile
dei nemici: il freddo polare, l'enorme quantità di
neve, i ghiacciai sempre battuti dal vento, l'elevata
altitudine e le continue slavine. Un ambiente che
rese quasi impossibile la sopravvivenza. Fu una
guerra di pattuglie, di scalatori e montanari, e non
mancarono all'appello i bergamaschi. Infatti, su
questo fronte di guerra, a fianco di noti personaggi
come i milanesi Viola e Bertarelli (poi fondatore
dell'Associazione Nazionale Alpini), i valtellinesi
Compagnoni e Tuana Franguel (prima guida della
leggendaria pattuglia guide ardite della Val Zebrù),
il mantovano Arnaldo Berni (il capitano sepolto dal
ghiaccio), stanno nomi storici della nostra terra; il
capitano Nino Calvi, straordinario organizzatore è
guida dei primi reparti skyatori; Giacomo
Pesenti, che quasi da solo scacciò il presidio
austriaco dalla vetta della Cima Trafoi; Renzo
Cortinovis, membro della colonna Venturini nell'assalto
al San Matteo; Ubaldo Riva, volontario di guerra e
poi famoso avvocato; e soprattutto Carlo Locatelli,
fratello di Antonio, del quale è impossibile
enumerare tutte le imprese: fra le altre, guidò la
conquista della Punta Thurwieser e l'assalto al Passo
Cevedale; occupò in solitudine l'anticima del Gran
Zebrù; attrezzò la parete verticale del Grosse
Eiskogeln, e soprattutto visse da solo, isolato per
quattro mesi in cima al mondo in una tenda all'Ortlerpass,
vera spina nel fianco delle retrovie austriache. Di
due bergamaschi meno noti, ma valorosi quanto il
Locatelli, vale la pena di ricordare due episodi.
Giacomo Perico, tenente, attendente del capitano
Berni durante la tragica difesa del San Matteo, aveva
nei mesi precedenti partecipato alle imprese sullo
Scorluzzo ed il Cristallo. Il pomeriggio del 31
dicembre 1917, alle esterefatte pattuglie italiane
che, quasi assiderate, presidiavano la Cima Trafoi,
apparve, durante una bufera di neve, la visione di un
fantasma carico di doni: questi altri non era che il
Perico, il quale aveva voluto rinunciare alla licenza
natalizia per trascorrere il Capodanno insieme ai
suoi soldati. Scrostatosi il ghiaccio di dosso e
abbandonato lo zaino colmo di viveri, e soprattutto
vino, proseguì verso la trincea nemica, dove invitò
una pattuglia austriaca a partecipare ai
festeggiamenti. Venne acceso un fuoco, vennero
scambiati doni e pane in cambio di tabacco. Ancora
oggi, se da quelle parti balugina un fuoco notturno,
la gente del posto pensa sia il Perico, che sfidò
con quel gesto le artiglierie di ambo le parti, dando
uno schiaffo alla guerra e a tutto quello che essa
rappresenta. Vincenzo Gazzaniga, membro di spicco
delle guide ardite della Val Zebrù, amico della
guida Nino dell'Andrino, di Chiesa Valmalenco, si
distinse nell'occupazione della Punta Thurwieser e
soprattutto nell'assalto al San Matteo, con la
colonna Venturi, durante il quale giunse per primo in
vetta al Monte Mantello e forse anche al San Matteo
stesso. Eroe di guerra. Nel giugno del 1917 Vincenzo
Gazzaniga presidiava la vetta del Cristallo, agli
ordini dell'allora tenente Berni. Le postazioni
italiana ed austriaca erano divise da una sottile
cresta di ghiaccio, lunga un centinaio di metri e
larga non più di mezzo. Lungo questa cresta, a 3.500
metri di quota, da due mesi fioriva fra italiani ed
austriaci, organizzato dai due bergamaschi, un
amichevole scambio di viveri e soprattutto di vino e
tabacco. Le scorte di vino calavano paurosamente,
cosicché venne organizzato un controllo da parte di
una pattuglia dei carabinieri. Giacomo Perico e il
collega austriaco vennero colti sul fatto e quest'ultimo
fu fatto prigioniero ed ammanettato. Da una buca nel
ghiaccio sbucò allora improvvisamente Vincenzo
Gazzaniga, il quale, fucile puntato, ordinò di
lasciar libero l'austriaco, perché quello era
l'accordo, disse e aggiunse: Chi non
rispetta gli accordi è meglio che scivoli giù dal
canalone, indicando ai carabinieri l'abisso. Si
accomiatò dall'austriaco con un abbraccio.
Articolo gentilmente concesso da www.alpiniazzano.com/Storica/GuerraBianca.htm
Da La
Repubblica 22 agosto 2004
Sono a testa in giù,
nelle loro divise, a 3640 metri d'altezza. Combatterono la battaglia di
Punta San Matteo nel 1918
Il ghiacciaio dei soldati-mummia, Corpi
intatti dopo 86 anni
Il direttore del museo che li ha
individuati: sembravano rocce: I militari saranno
sepolti nell'ossario del Tonale
di Roberto
Bianchin
PEJO (Trento) - Dormono
appesi, a testa in giù, come pipistrelli, le gambe
incastrate nel ghiaccio, la testa fuori, le mani
penzoloni. Dormono stretti, uno accanto all'altro, su
una parete alta, ripida e dritta come un muro senza
fine, a 3.640 metri d'altezza. Sono ancora infilati
nei brandelli delle loro divise, uno porta ancora
addosso un cinturone di cuoio, un altro ha vicino una
borraccia verde, di ferro. Sono tre soldati austriaci
del terzo reggimento dei Kaiser Schutzen, una
compagnia d'alta montagna che ha combattuto su queste
cime durante la prima guerra mondiale. Sono morti il
3 settembre del 1918, nel corso della battaglia,
vittoriosa per gli austriaci, di Punta San Matteo. I
loro corpi, mummificati, li ha restituiti, 86 anni
dopo, il ghiacciaio che si ritira. E' la prima volta
che dei corpi di soldati caduti vengono rinvenuti
interi. Gli uomini del soccorso alpino di Peio
tenteranno oggi con l'elicottero, se il tempo sarà
buono, di recuperarli. Poi avranno una sepoltura
cristiana nell'ossario militare del passo del Tonale.
La scoperta, subito
comunicata alle autorità austriache e ai circoli
militari di Innsbruck che tengono vivo il ricordo
della battaglia del San Matteo come una pagina di
"orgoglio alpinistico militare tirolese",
si deve a un uomo che da vent'anni cammina su e giù
per il ghiacciaio in cerca delle tracce lasciate
dalla storia. "Per non dimenticare - dice - e
per rispetto di chi è caduto, indipendentemente da
che parte stava, per difendere i propri confini".
L'uomo è ruvido e forte, di poche parole, ha il
passo di uno stambecco e lo sguardo di un'aquila.
Magro, bruno, la pelle segnata dal sole, si chiama
Maurizio Vicenzi, ha 42 anni ed è sposato, di
mestiere lavora negli impianti a fune della valle, è
un volontario del soccorso alpino, ma per passione fa
il "recuperante". Raccoglie tutto quello
che trova, quello che il ghiacciaio sputa fuori, d'estate,
quando piano piano un po' si scioglie, si riduce,
qualche metro quando fa più caldo, a volte solo
qualche centimetro. Quello che ha trovato, insieme a
un pugno di amici con lo stesso pallino, lo ha
raccolto in un piccolo museo della grande guerra che
ha aperto a Peio, in una casetta, l'anno scorso, e di
cui è il direttore. Fucili, mitragliatrici, bombe,
pistole, munizioni, sciabole, scarpe, guanti,
cappelli, vestiti, ma anche piatti, forchette,
coltelli, occhiali, pipe, calamai, borracce, badili.
I soldati austriaci li ha trovati venerdì. Era tanto
che sognava una scoperta così, finora aveva trovato
solo ossa spezzate. Ma sapeva che lassù, sotto i
ghiacci del gruppo Ortles-Cevedale, dove nel '15-'18
si combatté una delle guerre più lunghe e più
folli tra gli austriaci e gli italiani, dentro un
freddo cane, sopra i tremila metri, su un fronte
lungo cinquanta chilometri, dovevano essere rimasti a
dormire dei soldati per tutti questi anni. Perciò
come fa spesso, tutte le settimane, è partito presto
l'altro giorno, alle sei del mattino, e ha camminato
da solo, per cinque ore, verso il ghiacciaio "Dei
Forni", uno dei più grandi d'Europa, sulla
catena delle "13 Cime" del gruppo dell'Ortles.
E' il luogo dove giacciono "color che da opposte
sponde per un pugno di sassi hanno pagato la lor vita",
come dice una poesia di Sergio Brighenti. Il tempo
era un po' incerto, il cielo tappezzato di nuvole
grigie. La sorpresa, insieme a un raggio di sole
pallido, alle undici del mattino, sotto al Pizgiumel,
una delle tredici cime, a 3.640 metri d'altezza. Ramponi ai piedi e racchette
in mano, Vicenzi cammina lento, prudente ma sicuro
("è sempre pericoloso"), su un crinale del
ghiacciaio, non molto lontano dal vecchio confine
austriaco. All'improvviso "sente" qualcosa,
come un presentimento. Si allontana dalla "traccia"
del crinale e si sporge giù, verso una pendenza che
porta a una parete ripida, di ghiaccio, a strapiombo.
E' qui, una ventina di metri più sotto, che scorge,
sul manto candido del ghiaccio, come una macchia
scura. "Sembrava una roccia". Prende il
binocolo. Altro che roccia. La prima immagine che gli
arriva agli occhi è una mano. "Orco...!".
Una mano scura, mummificata, chiusa quasi a pugno,
che spunta da un grumo di stracci scuri che sembrano
vestiti. L'ha trovato, finalmente l'ha trovato. Il
cuore gli batte forte. Decide di scendere lungo la
parete ghiacciata. All'indietro, a piccoli passi, con
molta attenzione, lentamente, infilando i ramponi nel
ghiaccio con colpi secchi e decisi e aiutandosi con
le racchette. Dopo una decina di minuti è sul posto,
e vede che non c'è solo un soldato ancora mezzo
sepolto. Sono tre, tutti austriaci, li riconosce dai
brandelli delle divise. Sono appesi, a testa in giù,
come se fossero i vestiti a trattenerli, fuori dal
ghiaccio si vedono nitidamente due teschi, le schiene,
sei mani dalla pelle rinsecchita, come mummificata, e
il collo e lo scheletro di un terzo che non ha più
la testa. Dentro al ghiaccio, le gambe. Sono
ammassati, uno addosso all'altro, come se fossero
stati sepolti dai compagni dopo la morte in battaglia. Il "recuperante" è
sicuro, sono morti il 3 settembre del '18 nella
battaglia di Punta San Matteo (m.3.684), uno dei
punti strategici di quella impossibile guerra tra le
nevi eterne, quando gli austriaci, in un giorno di
nebbia fitta, riconquistarono la cima e il monte
Mantello (m.3.537), che avevano perduto, ad opera
degli italiani del "Battaglione Skyatori Ortler",
meno di un mese prima, il 13 agosto. L'attacco
austriaco fu violentissimo, ricorda lo storico Tullio
Urangia Tazzoli, con un potente fuoco di artiglieria
e lancio di gas asfissianti durato tre ore. Le nostre
difese furono completamente distrutte, le gallerie di
ghiaccio scavate dai soldati crollarono, e le perdite
furono gravissime. "La situazione è terribile -
raccontò il tenente Alfredo Egizi, che rimase ferito
nella battaglia - la pioggia dei blocchi di ghiaccio
continua, ogni proiettile di artiglieria è un tratto
di galleria che crolla, un nuovo sepolcro... ".
Ma anche la vittoria austriaca fu effimera. Solo due
mesi dopo "la travolgente nostra avanzata
vittoriosa riconsacrava, per sempre italiane, le due
vette testimoni di tanti eroismi". Rimasero a
migliaia, di una parte e dell'altra, a dormire sotto
quei ghiacci eterni. Ai tre austriaci svegliati dal
ghiacciaio adesso sperano di poter dare anche un nome.
Da L'Adige, 22
agosto 2004
Avranno un nome i
soldati trovati a Pejo, le operazioni di recupero
rinviate per il maltempo
sono stati uccisi durante la
riconquista di punta san Matteo, il 3 settembre 1918
Quella mattina del 3 settembre 1918 erano stanchi,
i kaiserschützen della compagnia di alta montagna
del terzo reggimento. avevano marciato tutta la notte,
erano saliti da dimaro per andare a farsi ammazzare a
punta san matteo. la compagnia fu il primo reparto
lanciato all´attacco per riconquistare la cima presa
dagli italiani. l´artiglieria non ebbe pietà di
loro. Caddero subito in undici. i cadaveri restituiti
l´altro ieri dal ghiaccio a quota 3596, nella zona
di piz giumela, appartengono a quattro di questi
soldati caduti nella prima ondata dell´attacco. Il
direttore del museo della guerra di Pejo, Maurizio
Vicenzi, l´uomo che ha trovato i resti degli
austriaci, ha già fatto una ricostruzione storica di
quanto può essere accaduto sul ghiacciaio. Ha
contattato uno storico che, in base al luogo del
ritrovamento, è stato in grado di individuare il
reparto cui appartenevano i quattro soldati ritrovati.
La settimana prossima quei poveri resti potranno
avere anche un nome. Gli archivi di Merano, infatti,
conservano i dati degli undici caduti in
quell´attacco. Si potrebbe giungere a individuarli
con buona approssimazione. Quattro vite stroncate
dalle follia della guerra 86 anni fa, adesso potranno
essere ricostruite. Iresti avvolti in quel sudario di
ghiaccio potranno trovare finalmente pace. Dovranno,
però, aspettare ancora un po´ di tempo. Le
operazioni di recupero delle salme previste per ieri
sono state rinviate a oggi a causa del cattivo tempo.
L´elicottero non è partito da trento perché per
tutta la mattinata sulla zona nevicava e il cielo era
coperto. quando il cielo si è aperto, nel primo
pomeriggio, era ormai troppo tardi. gli uomini del
soccorso alpino di pejo hanno però tentato
ugualmente. Verso le due del pomeriggio sono saliti
fino a quota 2400 per vedere se era possibile far
arrivare fin lassù l´elicottero. Ogni tentativo è
stato vano, anche in quota le condizioni non erano
favorevoli, così gli uomini del soccorso alpino sono
dovuti tornare alla base. La squadra guidata da Vicenzi è formata
da otto uomini ed è attrezzata per ogni evenienza.
Questa mattina la partenza è prevista alle sette. la
squadra aspetterà l´elicottero, ma se non sarà
possibile arrivare in cima in volo, gli uomini sono
pronti a salire a piedi. Con tutta l´attrezzatura,
cioè compressori, pale e altre apparecchiature, per
l´ascesa potrebbero servire quattro ore e mezzo.
Altrettante dovrebbero servire per scendere con i
quattro cadaveri mummificati. Alla fine, comunque, i
quattro corpi dovrebbero arrivare nella cappella
mortuaria di Pejo. Ieri la cappella è stata
preparata da Vicenzi e dagli altri uomini del
soccorso. E' tutto pronto per l´arrivo dei quattro
soldati. Adesso si deve aspettare la loro
destinazione finale. Vicenzi ha già contattato i
volontari della schwarzes kreuz, la croce nera,
ovvero l´organizzazione che provvede alla cura dei
cimiteri di guerra austriaci. Ancora non è chiaro,
però, se i resti dei quattro soldati dovranno finire
all´ossario del Tonale oppure dovranno essere
sepolti nel cimitero del comune in cui sono stati
ritrovati, quindi Pejo. In attesa di una soluzione,
gli storici locali si sono messi al lavoro per dare
un nome ai quattro ed, eventualmente, fare in modo
che le famiglie siano informate del ritrovamento dei
resti. Non è escluso che vicino ai quattro corpi si
trovino anche le spoglie degli altri sette soldati
della terza compagnia uccisi quella mattina.
Da L'Adige, 25
agosto2004
«Il loro volto
sia monito per la pace» Tanta gente attorno alle
bare per l´ultimo abbraccio ai soldati
Ex combattenti provenienti anche
dall´Austria alla cerimonia funebre di Pejo. Don
Turrini ha ricordato la tragica morte e il dolore
delle famiglie dei caduti
di Maria Vender
«Nella serena maestà delle Alpi la morte unisce
ed affratella le spoglie dei combattenti dalla guerra
divisi e travolti». Così recitano le parole incise
sulla pietra del monumento ai caduti nel cimitero
militare austro-ungarico di Pejo. Parole che
infondono serenità, a colmare il vuoto della morte e
il grido delle sofferenze che ieri hanno accolto le
spoglie dei tre soldati rinvenuti tra i ghiacci
dell´Ortles, nel corso della cerimonia commemorativa
officiata da don Fortunato Turrini e dal parroco di
Pejo don Piergiorgio Malacarne. Portate a spalla dai
giovani del Soccorso alpino, dei vigili del fuoco e
degli alpini della sezione di Pejo, alle bare dei
soldati è stato dato finalmente l´onore di una
sepoltura in terra negata nel momento in cui la loro
vita volò via, per lasciarli scivolare nel sepolcro
immacolato della neve. E proprio per restituire
quella gloria che allora è mancata, una piccola
folla ha presenziato alla cerimonia nonostante la
pioggia. Tra la gente anche autorità come
l´assessore provinciale alle politiche per la salute
Remo Andreolli, i consiglieri provinciali Guido
Ghirardini e Denis Bertolini, il sindaco di Pejo
Alberto Rigo e l´assessore alla cultura di Dimaro
Andrea Mochen. La profonda commozione ha abbracciato
anche i membri delle associazioni militari, delle 19
sezioni degli alpini della Val di Sole, coordinate
dal capozona Giovanni Zanetti, dell´Associazione
Nazionale Famiglie dei Caduti, i rappresentanti della
Croce Nera Alta Austria. Questi ultimi erano giunti
proprio per onorare i vecchi commilitoni morti al di
fuori dell´Austria, insieme ai Kaiserschützen di
Innsbruck in congedo e al picchetto d´onore del
comando militare di Innsbruck in servizio. Centinaia
di persone si sono strette a semicerchio attorno ai
tre soldati, in un abbraccio ideale che ha voluto
accoglierli come se fossero stati ancora vivi, «in
nome della fraternità e dello spirito di umanità»
come ha invitato a fare don Turrini. Sempre don
Fortunato ha poi ricordato «la loro morte, il dolore
di famiglie, mogli, fidanzate, che non hanno potuto
piangere sul loro corpo». Benedette con l´acqua
santa e l´incenso, onorate con un minuto di silenzio
e con il suono delle trombe, le salme dei tre soldati
sono divenute un monito per l´efferatezza della
guerra, nel loro essere «pietose, orribili ma
bellissime - come scritto nella poesia «Cimitero di
guerra» letta al termine della cerimonia - e
soprattutto tremendamente umane». «Non vogliamo
ricordarli per suscitare nostalgia - ha dichiarato
Udalrico Fantelli, presidente del Museo della Guerra
Bianca di Pejo - ma per ridare onore a chi ha dovuto
soffrire e morire perché noi continuassimo ad avere
una speranza. Non sappiamo ancora chiamarli con un
nome, né conosciamo con certezza la loro provenienza.
Ma basti il volto drammatico della loro sofferenza,
per aiutarci a fare tesoro del passato, a capire che
questi momenti possono essere evitati solo con la
pace». Un messaggio di fratellanza di cui si è resa
portavoce anche Annamaria Wieser, in rappresentanza
della Croce Nera Alta Austria, ricordando con grande
commozione quelli che ha definito come «eroi» e che
con il loro estremo sacrificio hanno permesso di
«riunirci sotto la stessa bandiera europea, per dare
una lezione di pace e unità a tutto il mondo».
Da Il Gazzettino, 23 Settembre 2005
Sul Monte Grappa
Ritrovati
dai volontari de "Il Piave 15-18" i resti
di due fanti austroungarici e uno italiano
San Donà
Sono stati una
decina di membri dell'associazione sandonatese "Il
Piave 15-18", uniti dalla passione per la Prima
Guerra Mondiale, a scoprire i resti di tre
fanti, due austrungarici e uno italiano. La
sensazionale scoperta è stata fatta mercoledì in un
tratto di trincea di circa 400 metri, a San Giovanni
sui Colli Alti, nel comune di Solagna, sul massiccio
del Grappa, in provincia di Vicenza. La manutenzione
della trincea, da quattro anni, è affidata alle cure
dei volontari del gruppo sandonatese che vi svolgono
attività didattiche, ospitando scolaresche e
studiosi delle vicende belliche. Accanto ai corpi
sono stati rinvenuti elmetti, scarponi, una baionetta,
una fibbia da cinturone asburgica, recante l'effige
dell'aquila a due teste ed alcuni oggetti personali
dei militi. Ai tre mancavano, invece, le piastrine di
riconoscimento, per cui per ora non è stato
possibile identificarli. "Curiose le modalità
della scoperta - ha spiegato il presidente dell'associazione
Alfredo Tormen - a seguito di uno smottamento causato
dalla pioggia, abbiamo compiuto un sopralluogo per
verificare se fossero emersi degli ordigni, i metal
detector, infatti, hanno iniziato a suonare e
scavando abbiamo portato alla luce i corpi. Un
ritrovamento importante, di alto valore spirituale,
che consente di dare sepoltura a questi caduti della
Grande Guerra e ripaga tutti i volontari degli sforzi
sostenuti". Il gruppo ha avvertito le autorità
locali che sono intervenute immediatamente
sequestrando i reperti. "Nel giungo del '18 -
continua Tormen - questa zona era teatro di
operazioni belliche, gli austrungarici superarono ben
quattro linee del fronte italiano, giungendo a
minacciare la pianura. Furono gli Arditi del 9.
reparto d'assalto, con l'appoggio degli Alpini, a
riconquistare il terreno. Impresa epica, compiuta in
24 ore, con gli italiani che giunsero fino al celebre
Col Moschin. La battaglia costò migliaia di morti e
la posizione dei corpi dei tre fanti suggerisce che
siano caduti combattendo durante quei drammatici
frangenti". Altra particolarità del luogo è
che, nelle vicinanze, si trova la casa-museo di
Luciano Favero, uno degli associati che consente la
visita gratuita della sua raccolta personale. Per
tutti gli interessati offre anche un particolare
approfondimento con riferimenti storici e
delucidazioni tecnico-scientifiche, che da oggi sarà
arricchito dal racconto del nuovo ritrovamento. Per
informazioni 0424.556008.D.D.B.
Annuario sezionale. S.A.T. Care' Alto
Carè Alto mt. 3462 , 17 Luglio 2005 , difendiamo i luoghi
della memoria / Grande Guerra 15/18
Che i reperti
restino al loro posto.
- Dopo lapprovazione nel gennaio 2005 da
parte della SAT Centrale del documento
relativo alla salvaguardia dei Manufatti e
Vestigia della Iª Guerra Mondiale, la
sezione Carè Alto crea al suo interno il
Gruppo Ricerca Storica.
- Viene intitolato simbolicamente alla memoria
del primo tenente dei Kaiserjäger Felix
Wilhelm Hecht von Eleda, e segue le linee
guida definite dal citato documento. Il 2005
comincia bene dunque, sullonda delle
soddisfazioni avute grazie alle serate
proposte presso la sala del centro scolastico
di Darè: una con video e diapositive
riguardanti il Carè Alto della coppia Marco
Gramola e Giorgio Salomon e laltra con
diapositive sul sentiero della pace
illustrate da Marco Patton e Claudio Fabbro.
Il gruppo aumenta pian piano di numero e ci
si trova volentieri circa una volta alla
settimana. Proposte, punti di vista, gite da
programmare e gente da contattare riempiono
le riunioni. Cè sempre
grande fermento comunque. Non si vuole
perdere di vista il motivo trainate che ha
portato la nostra sezione fino agli uffici
della sovrintendenza ai beni culturali della
PAT: il prelievo dei Manufatti della Prima
Guerra Mondiale dalle nostre montagne. Sempre
attenti e vigili dunque!!
- Quello che Marcello nel 99/2000 aveva
premesso, con il prezioso articolo
dellannuario sezionale: ...Quello
che mi preme è che la nostra sezione, sempre
attiva e propositiva, possa realizzare un
documento-petizione da far sottoscrivere alle
altre sezioni SAT, alle associazioni
culturali, alle amministrazioni comunali e a
chiunque lo desideri. Documento che dovrà
esprimere la nostra comune posizione in
merito alla modalità di recupero e
conservazione dei reperti della Grande Guerra
e alla opportunità di valorizzare un intero
territorio di montagna grazie magari alla
presenza di un cannone monumento e monito
alla pace (Cresta Croce insegna..). Documento
che dovrà altresì chiedere che la Provincia
non si limiti alla spoliazione delle nostre
cime e della nostra storia, ma spenda almeno
il doppio per il ripristino dei camminamenti,
trincee e manufatti del 15/18 in
quota, aiutando il decollo di un particolare
turismo di montagna che potrebbe portarci
notevoli soddisfazioni. È stato
realizzato con la soddisfazione di tutti!!
- Servendo unulteriore sforzo da parte di
tutti noi per far conoscere alla maggior
parte possibile della gente quanto in atto
sulle montagne del Trentino occidentale,
abbiamo coinvolto il gruppo di Ricerca
Storica Tenente Cippelli della
SAT di Arco, il museo di Bersone (da sempre
vigile ed attento a questa problematica) e
gli amici Giorgio Salomon e Marco Gramola. In
febbraio nasce lidea di salire in vetta
al Carè Alto (3462 mt.) per puntualizzare
ancora la linea di condotta della SAT per
quanto riguarda i prelievi di reperti della
PAT, e contemporaneamente ci giunge la
notizia che aspettavamo da tempo, della quale
sapevamo qualcosa ma non ne eravamo sicuri:
il cannone SKODA 10,4 di Cima Botteri,
recuperato nel settembre 2003 giace in
magazzino a Trento. Son quasi passati due
anni e il cannone è ancora in attesa di
esser restaurato. Molto bene!! Viene fissata
come data utile per la manifestazione il 17
luglio con una serata di presentazione
l8 Luglio presso la sede della SAT di
Arco nella quale verranno proiettati filmati
e diapositive. Nel frattempo apriamo due
siti di discussione nel forum di www.cimeetrincee.it,
nel quale spieghiamo con articoli ed immagini
quanto accaduto su cima Carè Alto e portiamo
a conoscenza di un pubblico vasto e
competente le nostre perplessità in merito
ai prelievi effettuati sulle nostre montagne.
Un successo (alla fine si conteranno più di
80 messaggi e quasi 2000 visite)!! Arriva
l8 luglio. La sala di Arco è piena.
Mauro Zattera del gruppo Ten. Cippelli
illustra con un video, far e
desfar viene intitolato con ironia,
dove si vedono i nostri progenitori che
issano i cannoni sulle montagne e gli
elicotteri che oggidì li riportano a valle,
quanto è accaduto (dal 1999 al 2004) e
presenta la manifestazione. Giorgio Salomon e
Marco Gramola proiettano il loro video di
circa 30 minuti sui reperti bellici e le
testimonianze che ancora sono presenti
nellanfiteatro di guerra del Carè Alto.
Francesco Bologni del museo di Bersone
illustra con diapositive resti di manufatti e
trincee presenti sul territorio
dellAdamello. Un successo!!
Accompagnato dalla gradita partecipazione di
rappresentanti dellArma dei Carabinieri,
della Guardia di Finanza e degli Alpini.
- Arriva finalmente il 16 luglio. Il ritrovo
per alcuni di noi è fissato in cima Carè
Alto. Alle 19.00 siamo tutti in cima! Il
tempo di mangiare qualcosina, scambiare due
chiacchere e trovare un posticino dove passar
la notte. La mattina del 17 luglio il sole
splende. Sulla croce son già state appese le
due bandiere: quella austriaca e quella
italiana, come a voler suggellare un legame
profondo con la cima stessa. Vediamo
accorrere allattacco del ghiacciaio di
Niscli/Lares in zona Pozzoni una miriade di
persone. Molti son già in cammino sul
ghiaccio. Un po in ritardo però! Da
lontano si sente arrivare lelicottero
della Guardia di Finanza con a bordo Marco e
Giorgio pronti per effettuare foto e riprese
video. Ci portiamo tutti in vetta (noi nove
più una decina di altri alpinisti) e
dispieghiamo lo striscione: CARÈ ALTO 3462
mt. DIFENDIAMO I LUOGHI DELLA MEMORIA! L'elicottero
esegue quattro/cinque rotazioni nei pressi
della vetta, per poi spostarsi in direzione
Cavento e quindi atterrare al rifugio Carè
Alto. Intanto nei pressi della croce di vetta
continuano ad affluire gli alpinisti, tra i
quali anche il presidente SAT Franco
Giacomoni e Diego Bugna del museo di Bersone.
A tutti e 70 gli alpinisti accorsi sulla cima
lasciamo sottoscrivere il Documento SAT
Centrale e li omaggiamo, a ricordo della
manifestazione, di una cartolina datata con
la scritta IO CERO raffigurante Cima
Carè Alto, gentilmente concessaci
dallamico fotografo Adriano Tomba di
Valdagno (Vi), che riporta sul suo retro un
brano del Tenente Hecht:
- 13 maggio 1917. Rifugio Carè Alto.
- Ieri pomeriggio, col cappellano e un
appuntato, siamo saliti colla teleferica del
Carè Alto fino al grande pilone dello
scivolo di Niscli; da lì abbiamo sciato fino
alla Bocca di Conca e alla Malga Dosson di S.
Valentino ove cè il comando del
sottosettore della Valletta Alta. Il capitano
Martinez ha riunito gli ufficiali offrendo un
the assai piacevole. Poi, accompagnato da due
guide, andai cogli sci a Vauclo e oltre;
messi gli sci in spalla arrivai a Pelugo a
piedi. In tutto ho impiegato due ore. La
Valle di San Valentino era bella e il cuore
si riempiva di gioia alla vista delle
praterie ricolme di fiori; i vitelli e le
capre pascolavano lungo le siepi fiorite;
vicino ai casolari gli alberi carichi di
gemme e la gente pacifica dei paesi al lavoro.
Il ritorno in teleferica è stato bellissimo:
alle nove di sera ero di nuovo qui al rifugio.
- Tenente Felix Hecht von Eleda
- Contemporaneamente, al rifugio si svolge il
grosso della manifestazione. Quasi duecento
persone accorse da ogni angolo del trentino e
da molte zone del nord Italia ascoltano
attenti le parole di Mauro Zattera e del
nostro presidente Piergiorgio Motter nei
pressi della chiesetta dei prigionieri russi.
Si spiega il motivo della manifestazione e si
leggono dei salmi ed un passo del vangelo per
rendere omaggio a quanti, soldati
dellImperatore o del re dItalia,
hanno perso la vita sulle montagne durante la
Grande Guerra. La Schützen Kompanie Rendena
schierata ed in divisa, con il Capitano e una
squadra di otto uomini, rendeva omaggio alla
manifestazione con uno sparo a salve. Verso
le 10.00 comincia la discesa delle 70 persone
circa presenti sulla Cima Carè Alto. Al
rifugio siamo accolti con una birra fresca e
una pacca sulle spalle. I due registri sono
stati firmati da quasi tutti i partecipanti.
Sessantuno firme presenti sul registro di
vetta e centododici su quello presente al
rifugio, tra le quali spiccano quelle del Ten.
Colonnello degli alpini Giuseppe Menotti, del
presidente della SAT Franco Giacomoni e degli
amici di Cimeetrincee.
- Lunedì
il quotidiano Il Trentino ci
omaggia con la prima pagina: Giù le
mani dal Carè Alto - protesta in quota per
salvare i luoghi della Grande Guerra.
Il lunedì successivo, presso la sede della
SAT Carè Alto i promotori e collaboratori
delliniziativa, incontrano
lassessore alla cultura della PAT dott.ssa
Margherita Cogo accompagnata dalla
sovrintendente ai beni culturali dott.ssa
Laura Dal Prà. La discussione dura circa
unora durante la quale si parla anche
del Cannone Skoda 10,4 di cima Botteri e del
suo restauro con un preventivo di circa 37.000
Euro (neanche dovesse tornare operativo)!!
Nel contempo tutto il resto del materiale è
in magazzino, con la sola certezza che verrà
concesso al primo ente museale che ne farà
domanda. Ecco allora che la
nostra slitta rischia di
andarsene...
- Come SAT Carè Alto abbiamo avanzato alcune
richieste di salvaguardia in loco (seguendo
la traccia del documento SAT), puntando
lattenzione sulle nostre montagne:
- - Manutenzione conservativa dei baracchini
superstiti alla sommità del canalone est di
cima Carè Alto con messa in sicurezza del
sito, idem per i residuati delle teleferiche
della cima.
- - Riposizionamento presso la sede originaria
dei relitti (scudo, canna, affusto) che
attualmente si trovano sotto le artiglierie
sul versante di Niscli con il rischio di
andare perduti. La Sezione ANA degli alpini
di Rendena ha già dato disponibilità a
collaborare.
- - Recupero conservativo con possibilità di
fruizione (ripristino ferratina
daccesso) del fortino presente sul Croz
della Stria.
- - Studio di fattibilità di recupero circa la
percorribilità del sentiero degli
Honved Pozzoni - Monte Coel - passo
Altar che si porrebbe come valido motivo per
visitare una zona ricca di testimonianze
della Guerra Bianca.
- - Ricollocazione del cannone Skoda 10,4
presso la sua sede originaria (Monte Botteri).
- - Sarebbe inoltre auspicabile: su esempio del
sentiero dei Fiori (passo Paradiso - passo
Pisgana) valutare la possibilità di
completare il percorso ideale verso la zona
Carè Alto - sentiero Honved ripristinando
gli storici tracciati degli alpini passo
Lares - Punta Attilio Calvi, passo Cavento -
Corno di Cavento.
- - Studiare unidonea segnaletica storico-scentifica
con collocazione di idonei pannelli
informativi nei siti di interesse. Prendendo
spunto dalle simili installazioni presenti
lungo il sentiero dei fiori lungo il versante
camuno.
- In conclusione, un doveroso ringraziamento a
tutti coloro che hanno collaborato e
partecipato alla riuscita della
manifestazione.
-
- Matteo Motter
-
Il Crotonese n.88
Anno XXVI
- Domenico Chiarello ha celebrato il 5 novembre
a Cirò Marina il suo compleanno con i
parenti
-
- La fierezza di avere
107 anni
CIRÒ
MARINA. La nostalgia di Umbriatico, il suo paese
natale, si è fatta sentire con forza il 5 novembre
2005, giorno in cui il signor Francesco Domenico
Chiarello ha compiuto 107 anni. E, così, durante la
consueta festa di compleanno organizzatagli dai suoi
familiari, il centenario ha chiesto ripetutamente in
dialetto al suo unico figlio, Luigi, ''Quando ce ne
andiamo ad Umbriatico?''. E, una volta che si è reso
conto che non ci sarebbe stato nessun viaggio ''né a
piedi né in macchina'', si è consolato, affermando
che, in quel momento, c'era tutta Umbriatico a
festeggiarlo. La verità è che, come al solito, si
sono stretti al suo fianco il figlio Luigi, la nuora
Maria, i nipoti Raffaele e Domenico Chiarello con la
moglie Barbara Bilotta e i figli Luigi e Francesco,
la nipote Filomena con il marito Michele Delle Donne
e i figli Carlo e Luigi. E, come al solito, si è
ricordata dell'evento la signora Maria Panebianco,
presidente dell'associazione ''Insieme per la vita'',
e ha girato la notizia al sindaco Nicodemo Filippelli,
che, impegnato con la delegazione di Supino, si è
riservato di fare pervenire all'ultracentenario suoi
auguri e le sue congratulazioni nei prossimi giorni.
Anche perché il signor Chiarello è cirotano d'adozione,
visto che risiede a Cirò Marina da tantissimi anni,
in una casa che si è costruito grazie al faticoso
lavoro nei campi. E' quanto si legge nel libro ''Gli
ultimi, i sopravvissuti ancora in vita raccontano la
Grande Guerra'', scritto a due mani dagli scrittori
Nicola Bultrini e Maurizio Casarola. Non tutti sanno
che il signor Francesco Domenico Chiarello ha
partecipato alle due guerre mondiali ed è tra i
pochi in Italia ancora in vita degli ex-combattenti.
Fu chiamato alle armi nel 1918 e si è arruolò
presso il Distretto militare di Castrovillari. Dopo
tre mesi di addestramento, fu aggregato al 19°
Reggimento di fanteria di Cosenza, comandato dal
colonnello Squillante, e inviato sul fronte del
Trentino. Arrivò al fronte e, qui, l'esercito
italiano stava riorganizzando i suoi reparti, per
prepararsi alla controffensiva del Piave e, poi, alla
battaglia di Vittorio Veneto. ''Ho avuto la fortuna''
dichiarò l'uomo ai due scrittori '' di prendere
parte a quella grandiosa riscossa che ha unito tutti
noi italiani con un unico intento, la vittoria''. L'8
settembre, invece, il giovane Chiarello partì dal
porto di Taranto alla volta di Valona (Albania). Qui,
contrasse la malaria e venne ricoverato in un
ospedale di campo, ma, non appena guarì, si imbarcò
sulla nave Santa Lucia e sbarcò nel Montenegro, dove
rimase per altri due anni. Dopodiché, ritornò in
Italia e fu assegnato alla caserma Garibaldi di
Milano. Finita la guerra, ottenne il congedo, si
sposò e ritornò a lavorare nei campi e ad allevare
il bestiame nella sua Umbriatico. Tuttavia, nel 1940,
fu richiamato in servizio a San Gregorio, in
provincia di Reggio Calabria. E trascorsero altri sei
mesi, prima del congedo definitivo. La vita
avventurosa dell'ultracentenario è stata segnata
anche dalla ''dolorosa'' emigrazione di due fratelli
e due sorelle, al tempo ventenni, in Argentina.
Vivono ancora lì, non sono più ritornati,
nonostante i loro figli siano venuti a conoscere i
parenti, Umbriatico e Cirò Marina. E, forse, - com'ebbe
a dire lui stesso - il segreto della sua longevità
sta nella sua forza d'animo. Ieri, l'allora
presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo
insignì dell'onorificenza di cavaliere di Vittorio
Veneto, oggi, assistito costantemente dal figlio
Luigi e dalla nuora Maria, Francesco Domenico
Chiarello è sereno e conserva inalterate una
fierezza e una resistenza ai malanni della vecchiaia
che è di pochi.
PATRIZIA SICILIANI
Da Il Giornale di Vicenza, 1°
novembre 2005
Posina. Due alpinisti durante
unescursione sul monte Majo scoprono le ossa di
un militare che risalgono probabilmente alla Grande
Guerra
TORNANO ALLA LUCE I RESTI DI UN
SOLDATO
Lequipaggiamento è
scomparso, sarà molto difficile risalire alla sua
identità
«Abbiamo trovato dei resti umani,
probabilmente di un combattente della 1ª guerra
mondiale, durante unescursione sul monte Majo».
Il 9 ottobre gli alpinisti Enrico Dolgan e Fabio
Cattelan si sono presentati ai carabinieri
denunciando la scoperta. La notizia è rimasta
riservata fino a quando le ossa dello sconosciuto
soldato sono state prelevate presso il Vajo Brutto
Buso, scoscesa porzione montagnosa parallela alla Val
Grande, nel territorio del Comune di Posina. Ora è
iniziata la seconda fase delloperazione, il
difficile tentativo di individuare nazionalità,
reparto e identità del militare. Pare comunque,
dalle prime analisi, che si tratti di un soldato
italiano. La squadra di recupero, organizzata
nellambito del progetto per il recupero delle
salme dei caduti della Grande Guerra, la cui
Commissione è stata istituita lo scorso 12 ottobre
sulla spinta dellassessore Dino Secco e del
consigliere Nereo Galvanin, è partita domenica
mattina da contrada Griso. Assieme ai due giovani
scopritori cerano lanatomo-patologo
Andrea Galassi, il delegato Ana Giannino Losco, il
consigliere comunale di Posina Matteo Leder, il
comandante della stazione dei carabinieri di Posina
Bruno Granello, il vicebrigadiere Roberto Mantiero
della stazione di Schio per Onorcaduti e il
maresciallo De Rosso, della stazione di Piovene.
Unascesa di un paio dore ha portato il
gruppo nellarea del ritrovamento a quota 1425 m,
nelle vicinanze di una postazione austriaca e di
alcune caverne ricovero. A pochi passi dalla cengia,
ancora i segni della battaglia: proiettili e
caricatori, già svuotati dai recuperanti. Ma anche i
resti del soldato, individuato a causa di un omero
affiorante dal terreno, in passato erano già stati
trovati e spogliati di quasi tutto dai cercatori di
cimeli. Sono state perciò raccolte le ossa e quel
poco che era rimasto dellequipaggiamento, dopo
aver preso le coordinate del luogo e averlo
fotografato. Le speranze di identificazione sembrano
dunque ridotte al minimo. «Abbiamo recuperato uno
scheletro completo al 70% - spiega il dottor Galassi
-, con buona parte del cranio. Purtroppo è rimasto
poco degli effetti personali. Speriamo che dalla
terra prelevata salti fuori qualche frammento, ad
esempio un bottone: individuando il reparto,
scendendo fino al battaglione, sarebbe possibile
ricostruire le linee parentali degli appartenenti
fino agli attuali discendenti di dispersi che
consentano un confronto sulla base dellanalisi
del Dna». Pessimista anche lo storico Siro Offelli,
che con Claudio Gattera ed Enrico Acerbi costituisce
il pool di esperti incaricato della valutazione dei
reperti: «Lasportazione è stata relativamente
recente, non è avvenuta subito dopo la guerra,
quando i recuperanti portavano via i crani per poi
rivenderli: in effetti circolava da qualche tempo in
zona la notizia di un ritrovamento. Abbiamo per ora a
disposizione i resti della suola di uno scarpone di
fanteria, non dordinanza, forse acquistato per
proprio conto da un ufficiale, una fibbia
dottone di un tascapane italiano, cartucce e
bossoli italiani. Nessuna stelletta, nessun oggetto
personale, tranne un braccialetto di ottone molto
corroso, che dovrà essere pulito con attenzione.
Sarà davvero dura».
Da Calabria
Sconosciuta, Anno XXVIII n. 106 Aprile-Giugno
2005
di Giovanni
Quaranta
- Quella della prima guerra mondiale, la
Grande Guerra, fu sicuramente la
storia più tragica che ancora oggi si possa
ricordare tra le storie dei moderni conflitti
tra i popoli. La letteratura, sin dalla
cessazione delle ostilità, si è ampiamente
occupata dellevento sotto i suoi
molteplici aspetti tanto che è pressoché
impossibile contare quanti siano stati i
testi che nel corso degli anni ne hanno
trattato, a vario titolo, le vicende.
- La situazione politica europea precedente la
guerra vedeva contrapposti due grandi blocchi,
la Triplice Alleanza (con
Germania, Austria-Ungheria e Italia) e la
Triplice Intesa (con Francia,
Inghilterra e Russia), ognuno formato da
nazioni che covavano sentimenti di odio e di
voglia di egemonia verso gli avversari
dellaltro blocco.
- La situazione era ormai pronta ad esplodere
da un momento allaltro e
loccasione fu offerta
dalluccisione avvenuta il 28 giugno
1914 a Sarajevo del principe ereditario
austriaco Francesco Ferdinando e della moglie
per mano dello studente serbo Princip.
- LAustria accusò la Serbia di
complicità nellomicidio e le inviò
unultimatum con condizioni
inaccettabili, dopodichè il 28 luglio le
dichiarò guerra. In aiuto della Serbia
accorsero la Russia e la Francia, mentre la
Germania si schierò a fianco
dellalleata Austria. Aveva così inizio
il grande incendio che avrebbe divampato in
Europa e nel mondo.
- Allo scoppio della guerra, lItalia si
dichiarò neutrale e non prese parte al
conflitto a fianco delle potenze della
Triplice Alleanza.[1] Nel paese si andarono formando
due correnti: la neutralista e
quella interventista; in tutte,
però, era alto il desiderio di poter unire
allItalia i territori irredenti di
Trento e di Trieste posseduti
dallatavico nemico che era
lAustria. La maggioranza degli italiani
era più propensa alla neutralità perché
riteneva che la pace era necessaria al paese
per progredire ed inoltre si poteva arrivare
ad ottenere il Trentino dallAustria
attraverso trattative diplomatiche. Gli
interventisti, invece, sostenevano che
soltanto partecipando attivamente avremmo
potuto riscattarci ed avere ciò che ci
spettava.[2]
- Antonio Salandra (Capo del Governo) e Sidney
Sonnino (Ministro degli Esteri), mentre si
preparava lintervento, iniziarono degli
approcci diplomatici sia con gli Imperi
Centrali che con la Francia e
lInghilterra allo scopo di ottenere
promesse soddisfacenti per il completamento
dei confini nazionali. Le trattative si
conclusero nellaprile 1915 con il Patto
di Londra che impegnava lItalia a
dichiarare guerra allAustria in cambio,
a guerra finita, di notevoli compensi. Ma il
Parlamento italiano era per la maggior parte
neutralista tanto da costringere il Salandra,
favorevole allintervento, alle
dimissioni. Gli interventisti, allora,
organizzarono ovunque incandescenti
dimostrazioni di piazza[3] tanto che il Re, nella fiducia
di interpretare la volontà della nazione,
richiamò al governo il Salandra e dichiarò
guerra allAustria (24 maggio 1915).
- LItalia, a questo punto, entra in
scena sul triste palcoscenico dove
distruzione e morte regneranno sovrane per
interi anni.
- Questa, che fu sicuramente la guerra della
fanteria, vedeva il nostro esercito ancora
impegnato a riorganizzare i suoi reparti
molti dei quali nascenti dalleredità
dei corpi militari degli stati annessi con
lUnità. I vecchi reparti dello stato
sabaudo vennero gradualmente rinumerati ed
inquadrati in brigate di due reggimenti che
mantenevano gli antichi nomi geografici che
quasi sempre ne contraddistinguevano la sede
originaria. Le sedi reggimentali furono
distribuite su tutto il territorio nazionale
ma la gran parte di esse furono mantenute nei
pressi dei confini con la Francia perché in
quel periodo si pensava che da lì potessero
arrivare i maggiori pericoli per la nazione.
- Accanto allEsercito Permanente (che
raggiungeva nel periodo precedente la guerra
la forza di 47 brigate di fanteria, pari a 94
reggimenti) si era creata la cosidetta
Milizia Mobile, cioè una forza di riserva
che poteva essere impegnata in caso di
mobilitazione con una forza di altre 26
brigate di fanteria, pari a 52 altri
reggimenti. I Distretti Militari avevano il
compito della leva e del reclutamento, mentre
la vestizione, larmamento e
laddestramento erano compiti delle sedi
reggimentali.
- Dal punto di vista politico il problema del
reclutamento era molto dibattuto e come tutte
le cose allitaliana vedeva
contrapposte due scuole di pensiero. La prima
reputava opportuno procedere ad una forma di
reclutamento nazionale perché solo così
avrebbero avuto modo di amalgamarsi i giovani
provenienti da diverse parti della nazione
appena formata e tanto diversi tra loro che
spesso non riuscivano nemmeno a capirsi a
causa dei diversi dialetti parlati. La
seconda propendeva per un reclutamento
regionale o territoriale che avrebbe portato
alla formazione di reparti omogenei per
cultura e lingua parlata. La classe politica
era favorevole alla leva nazionale, mentre i
militari avrebbero preferito quella
territoriale.
- Nel periodo di pace si optò per la leva
nazionale ed ogni reggimento doveva attingere
in parti uguali agli arruolati di cinque
distretti militari diversi, appartenenti ad
altrettante zone militari, così da avere dei
reparti con truppe provenienti da tutto il
territorio nazionale.
- Con la mobilitazione il nostro esercito si
trovò in una condizione di carenza di
organico, che prevedeva lassoluta
necessità di chiamare alle armi i corpi
della riserva onde raddoppiare gli organici
esistenti.
- Nella formazione dei nuovi reparti si
abbandonò il metodo della leva nazionale in
quanto avrebbe rappresentato unimpaccio a
causa dello spostamento di una così gran
massa di uomini e nel contempo avrebbe
permesso un notevole risparmio proprio sulle
spese di viaggio.
- Alla costituzione delle nuove unità di
Milizia Mobile dovevano provvedere i Depositi
Reggimentali (o centri di mobilitazione)
situati nella stessa regione dei distretti ai
quali appartenevano i militari.
- Tra le 25 brigate di nuova formazione ci fu
appunto la Brigata Catanzaro, costituita dal
141° Reggimento di Fanteria e dal 142°. Il
14 gennaio 1915, presso il deposito del 48°
Rgt. Fanteria, a Catanzaro Marina nasceva il
141° Reggimento Fanteria Milizia
Mobile, mentre il 142° si formò dal
deposito del 19° Rgt. Fanteria, a Monteleone
di Calabria (attuale Vibo Valentia).
- Il 1° marzo 1915, la Brigata prese vita a
Catanzaro Marina e da «Catanzaro» ne prese
il nome. Ebbe assegnate come mostrine i
colori rosso e nero, colori che stanno ad
indicare sangue e morte e da essi
sorse il motto, mai smentito, «Sanguinis
mortisque colores gestamus: ubique victores»
e cioè «Portiamo i colori del sangue e
della morte: ovunque vincitori».
- Il 141° Rgt. ebbe una prevalente fisionomia
calabrese poiché calabresi erano la maggior
parte degli elementi che lo costituivano.[4]
Questo reggimento, nato nellimminenza
della guerra, fu impegnato per oltre due anni
sul fronte più duro, quello del Carso, con
la sola eccezione di due brevi parentesi, ad
Oslavia, in un periodo particolarmente
critico del primo inverno di guerra, e
sullAltipiano dAsiago, nel
momento culminante della Strafexpedition.[5] La
sua vicenda di guerra, che ne vide la
bandiera decorata di medaglia doro al
valor militare già nella primavera del 1917,
è segnata dalla drammatica pagina della
rivolta di luglio di quellanno, chiusa
la quale i suoi fanti tornarono a battersi
con il valore di sempre, al punto di meritare
la citazione sul bollettino di guerra.
- La sua storia fu tragica e gloriosa insieme.
Un reggimento senza tradizioni, che dopo la
guerra sarebbe scomparso
dallordinamento dellesercito, per
tornare a figurare fugacemente soltanto tra
il 1940 ed il 1941 e poi ancora tra il 1975
ed il 1995,[6] è
stato sempre protagonista degli eventi
bellici e sicuramente è rappresentativo del
sacrificio e della gloria della fanteria
italiana. I suoi uomini non furono eroi
omerici né cavalieri senza macchia e senza
paura e, quantunque probabilmente non
avessero mai sentito parlare di Trento e di
Trieste, fecero sempre e comunque il proprio
dovere uscendo vincitori, insieme con i loro
commilitoni, dallaspra contesa con un
esercito che vantava una storia di lunga data.
- La fase di preparazione dei reparti risentiva
comunque di carenze sia di organico che di
armamenti ed emblematica era la mancanza di
quelle sezioni mitragliatrici che ogni
reggimento doveva avere.[7]
- La Brigata Catanzaro allatto della
mobilitazione del 24 maggio 1915 fu dapprima
inquadrata nelle truppe a disposizione del
Comando Supremo poi, dopo pochi giorni, fu
inviata in Friuli dove fu inquadrata in
quella Terza Armata che in seguito ebbe
lappellativo di Armata del
Carso e che si gloriava di obbedire
agli ordini di Emanuele Filiberto di Savoia,
Duca dAosta.
- Adolfo Zamboni, glorioso ufficiale del 141°
di origine ferrarese, nei suoi scritti
decantò le doti umane e di combattenti dei
calabresi per come egli stesso ebbe modo di
conoscerli, ma non mancò di sottolineare le
difficoltà che gli stessi riscontravano nei
rapporti interpersonali.[8] Ne dipinse un profilo
molto attento e preciso con frasi accorate
che soprattutto oggi, che ancora si assiste
ad una forma di razzismo strisciante e si
sente parlare di Repubbliche del
Nord, dovrebbero essere incise a
lettere doro nelle menti di tutti gli
italiani.
- Piccoli, bruni, curvi sotto il peso
del grave fardello, scesero alle stazioni
delle retrovie e si incamminarono verso le
colline Carsiche gli umili fantaccini della
remota Calabria, la forte terra dalle
montagne boscose e dai clivi fioriti dove
pascolano a mille i placidi armenti. Chiamati
lontano dalla Patria in armi, questi poveri
figli di una regione abbandonata lasciarono
le loro casette sperdute tra i monti,
abbandonarono i campicelli e le famiglie
quasi prive di risorse e vennero su nelle
ricche contrade che il nemico mirava dall'alto,
bramoso di conquista e di strage. Percorsero
tutta la penisola verdeggiante e sostarono
nelle trincee scavate nella roccia e bagnate
di sangue.
- Fieri e indomiti, cresciuti nella
religione del dovere e del lavoro, i
Calabresi non conobbero la viltà, non
coltivarono nellanimo gagliardo il
germe della fiacchezza: alla Patria in
pericolo consacrarono tutta lenergia
dei loro rudi cuori, tutto il vigore delle
floride vite. Apparivano selvaggi, ed erano
pieni daffetti nobilissimi; sembravano
diffidenti, ed aprivano tutto il loro animo a
chi sapeva guadagnarsi il loro amore;
allingenuità ed al candore quasi
puerili univano il coraggio e la risolutezza
dei forti. Un piccolo servigio, una cortesia
usata loro, ve li rendeva fedeli fino ad
affrontare per voi con indifferenza il
pericolo.
- I compagni darme delle regioni del
Nord, dividendo un vecchio pregiudizio, per
il quale i fratelli dellItalia
inferiore erano considerati alquanto
retrogradi e selvaggi, guardarono da
principio con una certa noncuranza sdegnosa
quei soldatini dalla parlata tanto diversa e
così schivi di convenzioni; «terra mata» e
«terra da pipe» erano gli appellativi che
talvolta scherzosamente venivano indirizzati
ai modesti gregari nati e cresciuti nelle
terre del meridione. Però, quando la fama
incominciò a diffondersi e a divulgare il
loro valore e la loro audacia; quando si
videro quei forti campioni muovere
decisamente e costantemente allassalto
sanguinoso di posizioni inespugnabili; quando
infine seppe lecatombe offerta dal
popolo dellItalia negletta, allora in
tutto il Paese nostro si levò una voce
concorde di ammirazione e di plauso e si
benedirono quelle coorti di giovani dalla
salda fede e dal fervido entusiasmo.
- Numerosissime furono le località che videro
in azione i Reggimenti della Brigata
Catanzaro, ma, sicuramente, una
menzione particolare la merita il Monte
Mosciagh. Questo monte fu scenario di aspre
lotte nelle quali la Brigata fu decimata,[9] e
legò indissolubilmente il proprio al nome
del 141° dopo loperazione del 27
maggio 1916. La stessa si svolse in un
momento molto difficile del conflitto e
portò il 141° Fanteria agli onori della
cronaca ed ebbe eco in tutta la nazione.
- I nostri fanti recuperarono alcuni pezzi
dartiglieria da una posizione ancora
tenuta dagli Austriaci sulla vetta della
montagna, e dopo circa due ore di attacchi
alla baionetta, riuscirono a cacciare
definitivamente il nemico dalle posizioni
iniziali conquistandone in definitiva anche
larmamento.
- Lepisodio meritò la seguente
citazione sul Bollettino di Guerra del 29
maggio 1916 n.369 a firma del Gen. Cadorna: Sullaltopiano
di Asiago, le nostre truppe occupano
attualmente, affermandovisi, le postazioni a
dominio della conca di Asiago. Un brillante
contrattacco delle valorose fanterie del 141°
reggimento (Brigata Catanzaro) liberò due
batterie rimaste circondate sul M. Mosciagh,
portandone completamente in salvo i
pezzi. La cosa fu ripresa dalla
stampa nazionale dellepoca tanto da
meritare la prima pagina sulla Domenica del
Corriere che con una bella illustrazione di A.
Beltrame fece conoscere allItalia
intera come Un brillante
contrattacco dei valorosi calabresi
del 141° fanteria libera due batterie
rimaste circondate sul monte Mosciagh.
- Da questo glorioso fatto darme il 141°
ne trasse quello che da allora fu il suo
motto: «Su Monte Mosciagh la baionetta
ricuperò il cannone».
- Tra le pagine della storia della Brigata
Catanzaro, però, ve ne sono alcune tra le
più tristi dellintera storia del
nostro esercito. Era il 27 maggio del 1916 e
la Brigata era stata trasferita da alcuni
giorni sullAltopiano di Asiago. I
tragici avvenimenti che culminarono con la
fucilazione di 12 militari si svolsero sulle
pendici del Mosciagh e furono la conseguenza
dello sbandamento in condizioni difficili di
quasi tutta la 4a compagnia del
141° . Il Col. Attilio Thermes, comandante
del reggimento, in ottemperanza alle
disposizioni emanate dal Comando Supremo,
ordinò lesecuzione sommaria senza
processo per un sottotenente, tre sergenti ed
otto militari di truppa da estrarre a sorte
nella ragione di uno a dieci. Per questo
ordine il Col. Thermes fu il primo ufficiale
italiano ad essere citato in un Ordine del
giorno del Comando Supremo [10] e questo non per un glorioso
fatto darme ma per aver fatto fucilare
i propri soldati! In realtà la brigata si
comportò piuttosto bene nei combattimenti di
quei difficili giorni e non meritava un tale
trattamento, dovuto in buona parte al fatto
che i successi austro-ungarici facevano
perdere la testa ai comandi.
- Questo episodio, comunque non intaccò il
morale della Brigata che continuò sempre e
comunque a fare il proprio dovere tanto che S.M.
il Re, con decreto del 28 dicembre 1916,
concesse motu proprio alla bandiera
del glorioso 141° Reggimento la MEDAGLIA
DORO al valor militare con questa
motivazione: «Per laltissimo valore
spiegato nei molti combattimenti intorno al
San Michele, ad Oslavia, sullAltopiano
di Asiago, al Nad Logem, per laudacia
mai smentita, per limpeto aggressivo
senza pari, sempre e ovunque fu di esempio ai
valorosi (luglio 1915 agosto
1916)».[11] Anche la bandiera del
142° ebbe la sua meritata decorazione con la
concessione della Medaglia dArgento al
valor militare.[12]
- Diversi mesi dopo, i soldati dei due
reggimenti della Catanzaro furono
protagonisti della più grave rivolta
nellesercito italiano durante il
conflitto. Questo triste episodio si svolse a
Santa Maria La Longa dove la brigata era
stata acquartierata a partire dal 25 giugno
1917 per un periodo di riposo. La notizia di
un nuovo reimpiego nelle trincee della prima
linea fece, pian piano, montare quella che in
poche ore sarebbe diventata una vera e
propria rivolta. I comandi, avendo avuto
notizia da informatori di quanto doveva
accadere fecero infiltrare nei reparti alcuni
carabinieri travestiti da fanti e si era
disposta la dislocazione di più di cento
carabinieri nelle immediate vicinanze. Alle
ore 22 del 16 luglio 1917 iniziò il fuoco
che durò tutta la notte. I caporioni di ogni
reggimento assaltarono i militari
dellaltro inducendo gli stessi ad
ammutinarsi e ad unirsi a loro. Molti caddero
morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne
rimasero feriti. Appena il Comando
dArmata ebbe notizia di quanto stava
avvenendo dispose le opportune contromisure
inviando sul posto altri carabinieri su
autocarri, quattro mitragliatrici, due
autocannoni e con il preciso ordine di
intervenire in modo fulmineo e con estremo
rigore. La lotta durò tutta la notte e
cessò allalba dopo lintervento
degli ufficiali della brigata e dei
carabinieri con mitragliatrici ma,
soprattutto, dopo larrivo ed il
posizionamento degli autocannoni. Sedici
militari presi ancora con larma
scottante furono immediatamente condannati
alla fucilazione. A questi avrebbero dovuto
aggiungersi altri 120 uomini, ma per limitare
le fucilazioni si dispose di procedere al
sorteggio del decimo di essi e, quindi, altri
12 si andarono ad aggiungersi alla lista. I
28 militari furono fucilati immediatamente
nel cimitero di Santa Maria, alla presenza di
due compagnie, una per ciascun reggimento.
- Dopo questo spiacevole fatto, i fanti della
Catanzaro intrapresero la loro marcia verso
il fronte dove continuarono a battersi per il
resto del conflitto con la grinta e la
disciplina che avevano sempre dimostrato,
tanto da ottenere una seconda citazione sul
Bollettino di Guerra del 25 agosto 1917 nel
quale si riportava che: Sul Carso la
lotta perdura intorno alle posizioni da noi
conquistate, che il nemico tenta invano di
ritoglierci. Neglincessanti
combattimenti si distinsero per arditezza e
tenacia le Brigate Salerno (89° - 90°),
Catanzaro (141° -142°) e Murge (259° e 260°).
- Gli ultimi mesi della guerra furono trascorsi
dallo stremato 141° nelle retrovie del Piave,
a disposizione del Comando Supremo, dove in
ottobre si incominciò a trasferire ed
attraverso una serie di marce raggiunse
Mestre nei giorni della vittoria.
- Tutta la Brigata Catanzaro si imbarcò a
Venezia sulla nave Re Umberto il
15 novembre 1918 ed il 17 successivo sbarcò
in una Trieste festante. La meta radiosa dei
suoi cruenti sacrifici era raggiunta.
- Per oltre un anno il 141° ne rimase a
presidiare la città, ospitato nella caserma
Oberdan, fino a quando venne
disciolto. Il 21 giugno 1920, nella caserma
Cernaia di Torino, il cappellano
militare Can. Chelli salutò con un
appassionato discorso lamata bandiera
che i fanti baciarono ad uno ad uno, con le
lacrime agli occhi. Il glorioso vessillo,
adorno del più alto segno al valor militare,
si inchinò lultima volta davanti alla
tomba del Milite Ignoto e fu collocato
là dove si conservano le più fulgide
reliquie della Patria.[13] Lo scioglimento del Reggimento,
però non cancellò il ricordo delle gesta
dei suoi uomini, e lo stesso Duca
dAosta ebbe modo qualche anno più
tardi di dire:
ho sempre nel
cuore questa magnifica legione di prodi che
dalla terra di Calabria trasse la tenacia e
lanima pugnace.
- A conclusione, è doveroso rivolgere
lultimo ricordo allimpegno di
tutti i calabresi di ogni arma e specialità
che contribuirono in modo determinante alla
vittoria finale. Nellimmane tragedia
della Grande Guerra ne perirono 20.046. Fino
allanno 1923, le medaglie al valore
militare individuali concesse ai calabresi
ammontavano a 2.884, così distinte: 12 M.O.,
980 M.A., 1.565 M.B., 8 croci militari di
Savoia, 319 croci di guerra al valore; delle
quali 1.711 a ufficiali e 1.173 a
sottufficiali, graduati e militari di truppa.
Le medaglie doro erano equamente
distribuite tra le 3 antiche provincie
calabresi.
- Altre decorazioni furono concesse alle
bandiere di Reggimenti mobilitati nei
Depositi della regione calabrese, con
militari in buona parte nati in Calabria.
- Oltre a quelli della Brigata
Catanzaro (141° Rgt. Medaglia
dOro e 142° Medaglia dArgento),
possiamo ricordare quelli della
Brescia (19° e 20°) che ebbero
due M.A. ciascuno; quelli della
Ferrara (47° e 48°) che furono
decorati entrambi della M.O.; quelli della
Udine ( 95° e 96°) che ebbero
entrambi una M.A.; quelli della
Jonio (221° e 222°) che ebbero
la M.B. e quelli della Cosenza (243°
e 244°) che ebbero la M.A.
- A tutti loro deve andare il nostro
ringraziamento per aver tenuto alto il nome
delle Genti di Calabria ed aver
vinto, oltre alla guerra dichiarata, anche
quella non dichiarata (e per questo non meno
importante) dei pregiudizi che da sempre
affliggevano i calabresi ed i meridionali in
genere.
-
- BIBLIOGRAFIA:
-
- Basilio Di Martino, La Grande Guerra della
Fanteria 1915-1918, Gino Rossato Ed.,
Valdagno, 2002.
- Adolfo Zamboni, Fasti della Brigata
Catanzaro Il 141° Reggimento Fanteria
nella Grande Guerra, Guido Mauro Ed.,
Catanzaro, 1933.
- Roberto Mandel, Storia popolare illustrata
della grande guerra 1914-1918 Parte
Terza: Lanno dangoscia (1916), Armando
Gorlini Ed., Milano, 1933.
- Roberto Mandel, Storia popolare
illustrata della grande guerra 1914-1918
Parte Quarta: Lanno terribile (1917),
Armando Gorlini Ed., Milano, 1934.
- Marco Pluviano-Irene Guerrini, Le
fucilazioni sommarie nella prima guerra
mondiale, Paolo Gaspari Ed., Udine, 2004.
- Salvatore Pagano, Le Medaglie dOro
calabresi, Stab. Tipografico La
Giovane Calabria, Catanzaro 1923.
- Attilio Gallo Cristiani, Guerrieri ed eroi
nazionali di Calabria, Tip. F.Chiappetta,
Cosenza, 1949.
- Luigi Amedeo de Biase, Le cartoline
delle Brigate e dei Reggimenti di fanteria
nella guerra 1915-1918, Ufficio Storico
dello Stato Maggiore dellEsercito, Roma
1993.
- La Domenica del Corriere (supplemento
illustrato del Corriere della Sera), Anno
XVIII n.24 (11-18 Giugno 1916).
-
- NOTE:
-
- 1. Questa, che era unalleanza di tipo
difensivo, impegnava gli stati aderenti ad
accorrere in difesa degli alleati in caso di
attacco da parte di altre nazioni, ed inoltre
lAustria a non provocare mutamenti
nella penisola balcanica senza il consenso
italiano. Invece, fu proprio lAustria a
dichiarare per prima guerra alla Serbia ed il
tutto senza neanche consultare lItalia
che, pertanto, si ritenne libera da impegni e
proclamò la sua neutralità.
- 2. Il capo dei neutralisti era lex capo
del governo Giovanni Giolitti, mentre tra gli
interventisti spiccavano le figure di Cesare
Battisti e di Gabriele dAnnunzio.
- 3. Emblematica fu la partecipazione di
Gabriele dAnnunzio ad una dimostrazione
interventista che si svolse il 5 maggio 1915
a Quarto dei Mille ove tenne un infuocato
discorso a favore dellentrata in guerra
dellItalia.
- 4. La 1a, 2 a, 3 a
e 4 a Compagnia erano di Catanzaro,
mentre l8 a, 9 a,
10 a, 11 a e 12 a
erano di Reggio Calabria. Massiccia fu anche
la presenza di siciliani e di pugliesi.
- 5. Sul fronte italiano del Trentino
lAustria preparò una grande offensiva
che con insolenza chiamò Strafe-Expedition,
cioè spedizione punitiva, come se volesse
punirci per labbandono della Triplice
Alleanza. Lattacco, che fu preceduto da
un infernale bombardamento di grossi cannoni,
vide in una prima fase il predominio degli
austriaci che sfondarono le linee italiane.
Ma gli italiani riuscirono a resistere e la
successiva controffensiva fece fallire
lattacco austriaco portando alla
conquista di Gorizia.
- 6. Nel 1940, i due reggimenti di
fanteria denominati 141° e 142°
Catanzaro, insieme con il 203°
Rgt. Artiglieria, andarono a formare quella
che fu la 63a Divisione di
fanteria Catanzaro. Il solo 141°
fu ricostituito in seguito alla
ristrutturazione dellesercito del 1°
ottobre 1975, inquadrato nella forza della
Brigata Motorizzata (e poi Meccanizzata)
Aosta e dislocato presso la
caserma Cascino di Palermo.
- 7. Per ogni reggimento erano previste
tre sezioni mitragliatrici. I due reggimenti
della Catanzaro ne avevano soltanto una a
testa. Non era diversa la situazione per gli
altri reparti. Solamente i due reggimenti
granatieri erano al completo delle tre
sezioni previste, i 94 reggimenti di fanteria
dellEsercito Permanente se ne
dividevano 188, a fronte di unesigenza
complessiva di 282, ed i 51 reggimenti di
Milizia Mobile ne avevano in tutto 12 su 153.
La Catanzaro doveva quindi ritenersi più
fortunata di altre brigate di nuova
formazione, ma come la storia ci dimostrò in
seguito non fu così: proprio la Catanzaro
insieme con i granatieri furono tra i reparti
maggiormente impegnati nel corso del
conflitto.
- 8. Il S.Ten. Zamboni si prodigò per fare
sempre il suo dovere e per farlo fare al
meglio ai suoi uomini, per la gran parte
valorosi ma irrequieti contadini del Sud ("tirar
fuori una parola chiara da questi benedetti
Calabresi era una impresa disperata",
scrisse), che trattava con severità, ma a
cui cercava anche, rincuorandoli ed
aiutandoli, di lenire i disagi interiori e a
cui sapeva dare fiducia e infondere sicurezza.
Infatti, come testimoniato anche dalle
motivazioni delle decorazioni, egli sapeva
come guadagnarsi l'affetto e la fedeltà dei
suoi soldati e come farsi da loro obbedire.
- 9. Il Pagano, a proposito del Sottotenente
Gaetano Alberti da Mormanno (CS), una delle
Medaglie dOro calabresi, appartenuto al
142° Rgt. Fant. caduto il 26 luglio 1915 sul
Carso, così recita:
egli
vive nelle trincee del Carso tra i suoi
soldati, tra i fanti della Catanzaro, della
gagliarda Brigata Calabrese, che nella guerra
immane si è sbrandellata in carneficine
cruenti ed in soste doloranti su per i gironi
infernali del Carso, in assalti superbi sul
Mosciagh conteso, preso e perduto, ripreso e
riperduto e riconquistato, baluardo orrendo
ed ultimo, elevato dai petti possenti dei
Calabresi, alla travolgente offensiva
austriaca del Trentino nel 1916.
Altri atti di eroismo si svolsero in
concomitanza di azioni a stretto contatto con
il 141°. Il Pagano ci riporta il racconto di
un altro calabrese insignito di Medaglia
dOro, il Maresciallo Maggiore Angelo
Cusmano da Molochio (RC), a proposito
delloperazione del giugno 1916 sul
Monte Lemerle che le valse la decorazione.
Leroe della Brigata Forlì, nel ricordo
di quanto successe, testimonia ancora una
volta il sacrificio dei fanti del 141°.
Raggiunta la cima del Monte Lemerle trovò
uno dei battaglioni del 141° ridotto a circa
una compagnia impiegato a difendere una
posizione resa difficile
dallinfiltrazione dei nemici. Trovò
solo due ufficiali: un Capitano affetto da
dolori reumatici e impotente a muoversi ed un
Sottotenente ferito in modo non grave.
- 10. «Addito ad esempio - si legge in
un ordine del giorno del 22 giugno 1915 - il
colonnello del 141° fanteria Thermes cav.
Attilio che la sera del 26 maggio alle falde
del monte Mosciagh non esitò a prendere
immediatamente le più energiche misure di
rigore contro alcuni sbandati che disertavano
il loro posto donore... Gli tributo
perciò un encomio solenne che porto a
conoscenza di tutto lesercito perché
la sua energica ed esemplare condotta sia
dincitamento a tutti...». È la
prima volta che Cadorna parla di un
subordinato come di un eroe, elogiandolo per
aver fatto fucilare un sottotenente, tre
sergenti e otto soldati italiani!
- 11. Per leroismo dimostrato durante la
Grande Guerra furono decorate di M.O. al
valore militare le bandiere dei due
reggimenti granatieri e di 24 reggimenti di
fanteria, tra i quali per due volte quelli
della Brigata Sassari. Soltanto nove la
ottennero però durante il corso delle
operazioni e tra questi vi fu il 141°.
- 12. Alla bandiera del 142° Fanteria fu
concessa la M.A. con la seguente motivazione:
Per il valore spiegato nei
combattimenti intorno a Castelnuovo del Carso
e Bosco Cappuccio; sullaltopiano di
Asiago, al San Michele, nella regione di
Boschini e a Nad Logem; per lo spirito
aggressivo e lalto sentimento del
dovere sempre dimostrati (luglio 1915
agosto 1916).
- 13. Nel museo dellAltare della Patria,
detto Vittoriano, a Roma.
Da
Il Giornale di Vicenza, Mercoledì 28 Giugno 2006
Passato e presente
in parole di pietra
Roberto Belvedere, armato
di macchina fotografica, mappe, scarponi, pazienza e
tanta passione, risale cime e ripercorre trincee alla
ricerca di lapidi, fregi, incisioni, testimonianze di
eventi bellici che hanno scritto la storia anche
tragica della nostra terra
Cime e trincee. Cime della memoria e trincee della
vita. Lapidi dedicate a soldati caduti, iscrizioni a
testimonianza dellesecuzione di opere belliche,
fregi, targhe e cippi, graffiti di singoli soldati...
Le parole sono pietre, si sente spesso dire, e mai
come in questo caso la metafora aderisce
perfettamente alla realtà. Parole di pietra che
fissano un istante, un giorno, un dolore, una fatica,
una soddisfazione. Parole di pietra che restano lì
ma che possono scendere a valle e finire su qualc he
libro con laiuto di tanta passione,
uninfinita pazienza e una fidata macchina
fotografica in grado di fissare a sua volta quel
pezzo di storia e renderlo fruibile a tutti. Per
conoscere, riflettere, sapere qualcosa di più della
nostra storia e, forse, del nostro stesso esistere.
Roberto Belvedere ha 55 anni, ufficialmente fa il
promotore finanziario ma in realtà è u no di quegli
appassionati di storia e umane vicende che, senza
fregiarsi di tanti titoloni più o meno accademici,
accende il motore della passione storico-fotografica
con lo stesso entusiasmo con il quale accende la sua
moto Bmw (del cui club vicentino è anima e motore) e
parte. Parte e va, sulle orme di indelebili ricordi
giovanili con la sua mano stretta a quella del padre
a cercar funghi in montagna ma ben presto a caccia di
testimonianze di unepoca bellica che proprio
alle nostre latitudini visse anni decisivi e scrisse
pagine indelebili; parte e va, sulle orme di quei
padri di cui anche recentemente si sono celebrate le
vite e le gesta duranta ladunata nazionale
alpina di Asiago; parte e va, sempre più spesso in
compagnia di altri appassionati (ve ne sono in tutta
Italia), per salvare quelle pietre totalmente
inanimate cui si paragonava il soldato
Ungaretti, per consentire a tutti noi di leggere come
pagine di un libro quelle scritte s pesso anonime ma
così perentorie nel loro struggebnte
significato come ricordava con efficacia
Fernando Bandini nellintroduzione a un libro
sullargomento. Cime e trincee è anche
lassociazione di riferimento per questi
appassionati, con tanto di sito internet e incontri
virtuali e reali per scambiatrsi opinioni, materiali,
indirizzi, indicazioni per risalire a quella o
questaltra testimonianza in pietra. Si legge
nella home page del sito: ... il mio unico
desiderio è che i lettori non dimentichino i nomi di
coloro di cui si fa menzione nel presente modesto
lavoro. Ed ai giovani faccio una calda preghiera:
visitino i luoghi dove fu combattuta la grande guerra,
portino il loro contributo di pietà agli oscuri eroi
che dormono e dormiranno eternamente nei cimiteri del
fronte i quali raccolgono le loro salme gloriose ...
La firma è del ten. Adolfo Zamboni, e sotto la sua
ve ne sono idealmente tante, tante altre. Nella sua
taverna-studio nel quartiere di S.Pio X, Roberto
Belvedere mostra foto e illustra mappe: alle pareti
vi sono i calchi di due splendidi fregi, uno in stile
liberty dellosservatorio Tron, laltro -
lorgoglio di Belvedere - del 35° Reggimento
fanteria Zappatori, datato 1916 il cui originale è
stato trovato e restaurato nei pressi di Valdastico ,
allex forte Ratti. La passione per queste
pietre parlanti non impedisce di staccarsi da terra:
a bordo di un ultraleggero, Beldere sorvola anche
cime, trincee e camminamenti. «Così vedeva il
fronte Francesco Baracca». E anche questo è un
panorama che aiuta a capire luomo, il suo
passato e il suo presente.
L'intervista
- -Iscrizioni, fregi, cippi, lapidi e
graffiti della Grande Guerra: appassionanti
testimonianze di stagioni e avvenimenti che
appartengono ormai soltanto alla storia: come
le è venuto in mente di riscoprirle,
fotografarle, catalogarle?
- «Da ragazzino, e parliamo ormai degli anni
Sessanta, accompagnavo spesso mio padre nel
suo andar per funghi. Ci si alzava prima dell'alba
e in Vespa si risaliva il Costo e la sempre
fresca e umida Val Canaglia fino a giungere
al Ghertele e al Passo Vezzena; chiedevo
spiegazione di nomi strani letti lungo la
strada come "Osteria alla Tagliata"
o "all'Antico Termine" : erano i
primi incontri con i luoghi della Grande
Guerra. Cercando nelle faggete e sotto gli
abeti l'agognato boletus edulis spesso mi
imbattevo in lunghi avval lamenti del terreno,
in caverne e cunicoli scavati nella roccia;
mio padre esaudiva le mie richieste
parlandomi di trincee e opere costruite
durante la Prima Guerra Mondiale».
- - Passeggiate nel cuore di una storia
epica e tragica... La storia dItalia
che fu scritta sulle montagne vicentine.
- «Sì. Lì dentro di esse, mi diceva il papà,
vissero e combatterono, cercando di uccidersi
a vicenda, migliaia di soldati italiani da
una parte, e austriaci dall'altra: mi veniva
in mente il bambino tedesco con il quale
avevo giocato a calcio in spiaggia l'anno
prima e a me era simpatico. Incuriosito ed
anche un po' impressionato dalla vastità dei
manufatti cominciai a perlustrare con
attenzione queste opere trovandovi spesso
oggetti arrugginiti come bossoli, cartucce,
gavette, scatolette vuote e pezzi di stufette
di lamiera ondulata (già in quegli anni era
diventato difficile trovare in superficie
baionette o elmetti). Ma quello che mi
turbava maggiormente erano le lapidi isolate
dedicate a soldati caduti, in quanto stavano
lì a testimoniare il luogo esatto ove
successe il fatto e che spesso riportano la
causa della morte ("....cadde colpito in
fronte mentre ritto sulla trincea contesa
guardava con amore alla sua casa posta ai
piedi dello Spitz in territorio occupato dal
nemico"); con l'immaginazione dei miei
dieci anni v edevo (in bianco e nero) l'alpino
stramazzare al suolo con un foro al centro
della fronte proprio dove ero io, in quel
pezzetto di terra inondato di luce e coperto
di fiori profumati...».
- - E poi cosa accadde?
- «Verso la fine degli anni Ottanta toccò a
mia volta dare spiegazioni a mio figlio
durante le numerose escursioni sulle nostre
montagne. Però non s i andava per boschi a
raccogliere funghi, ma si saliva sulle cime
utilizzando spesso i percorsi ideati e
realizzati dai soldati di quel periodo (la
strada delle 52 gallerie sul Pasubio, la
galleria di mina del Castelletto di Tofana o
in Ortigara). Sentii il bisogno di
documentarmi, cominciai a leggere la
bibliografia specifica: Gianni Pieropan mi
catturò per primo, seguito dagli scrittori
testimoni del tempo come Ardengo Soffici,
Carlo Salsa, Paolo Monelli, Attilio Frescura
da una parte e Fritz Weber, Viktor Schemfl
dall'altra. Nacque così per caso l'idea,
diventata poi passione, di fotografare
sistematicamente tutte le testimonianze in
cui mi imbattevo e che personalmente ritenevo
interessanti; poi cominciai ad effettuare
escursioni mirate: M.Novegno, Pasubio,
Altipiani, Grappa, ecc. Immortalavo
soprattutto i monumenti commemorativi tronfi
di retorica del periodo del regime ("Al
cospetto d'Italia tutta il Battaglione
Lombardo V.C.A. nel MCMXV su questi secolari
graniti la sua breve luminosa storia scriveva
- Comitato MonteBaldo 12.VI.1931-IX ) e
talvolta trascuravo invece certi "segni"
incisi sulla parete di roccia di una galleria
che riportavano il nome di un reparto o il
cognome e il grado di un soldato».
- - Viviamo in un mondo di segni, ieri come
oggi... Cosa le fece rivalutare
limportanza dei simboli in questione?
- «Durante e un'escursione sulle Alpi Giulie
conobbi Antonio Scrimali, scrittore e
ricercatore di testimonianze della Grande
Guerra già famoso nell'ambiente; mi faceva
da guida nella visita al Monte Vodice e al
Monte Santo. Fu lui a farmi capire la grande
importanza di certi "segni" da
privilegiare nella ricerca anche con
finalità di censimento e catalogazione
perché gli agenti atmosferici, con la loro
opera disgregatrice e talvolta l'inciviltà e
l'ignoranza di taluni, li avrebbero resi
sempre più rari a vedersi.Da allora la mia
attenzione si è rivolta quasi esclusivamente
a trovare e fotografare le cosiddette "Iscrizioni"
che possono essere costituite da artistici
fregi "ufficiali" di reggimenti e
battaglioni cementati nelle trincee o sui
ricoveri o anche da semplici "graffiti"
fatti da umili soldati che nel cemento fresco
della postazione hanno inciso il loro nome o
lasciato qualche massaggio per essere
ricordati. Si tratta di una ricerca
appassionante, ma no n sempre facile: spesso
il sentiero che portava ad una postazione in
caverna è franato e bisogna scalare una
parete con difficoltà alpinistiche o il
manufatto che si cerca risulta di difficile
individuazione a causa della vegetazione che
è tornata ad essere fitta e rigogliosa dopo
la devastazione di quegli anni e l'abbandono
dei residenti; a volte, sono necessarie due o
più "spe dizioni". Quando, però,
finalmente si riesce a rintracciare e a
raggiungere un nuova testimonianza da tempo
immaginata, si viene colti da un'emozione
stupenda che ripaga di tutti gli sforzi fatti:
il posto, quasi sempre silenzioso e solitario,
sembra emanare ancora l'atmosfera che vi
regnava; nell'appoggiare le mani, nel cercare
di leggere, di interpretare, nel ripassare
con il carboncino le lettere dell'iscrizione
mi sembra di percepire gli stessi gesti fatti
dalle mani dell'autore, i suoi pensieri
creativi e i commenti dei compagni attorno,
ragazzi costretti a vivere e a combattere in
quei luoghi impervi, in ogni stagione e con
qualsiasi tempo. È un momento d'incanto,
meglio se lo posso assaporare da solo, senza
che alcuna voce rompa il silenzio, senza
alcuna fretta, ascoltando solo il vento e i
rumori della natura».
- - Quali sono stati i momenti più
emozionanti?
- «In assoluto, ogni volta che rimetto piede
sullOrtigara... Beh, i l sangue non è
acqua, e non è un modo di dire: più di
ventimila morti concentrati in qualche
centinaio di metri in quellimmane
battaglia: sono luoghi impregnati di
sensazioni tragiche, epiche: lì tutto parla
di quanto accadde: il vento, le pietre... Ma
ci sono altri momenti di grande intensità...
Quando ti trovi la scritta di un soldato che
incise sulla roccia «Mamma tornerò», o
unaltra che dice «E morrà a casa
sua» ... Sono cose difficili da descrivere
im modo appropriato. Sono emozioni grandi. E
fanno effetto anche le lapidi in ricordo dei
soldati deceduti dallaltra parte,
caricate di maggiore enfasi rispetto alle
nostre: Fedeli fino alla morte o
"Qui riposano gli Eroi...»
- - Si trova da solo o in compagnia per
questo tipo di ricerche?
- «Negli ultimi anni ho scoperto altri come me,
che in modo spontaneo, hanno coltivato la
stessa passione; entrare in contatto con loro
è stato come quando si è all'estero e si
incontrano persone che parlano la tua stessa
lingua; una miniera di scambi informazioni
utili a nuovi ritrovamenti. Ci si confronta
anche sulla tecnica fotografica utilizzata:
io preferisco le stampe a colori come Massimo
da Cornedo; Antonio da Rovereto le
diapositive; Valter e Luca da Zugliano hanno
raggiunto livelli professionali utilizz ando
pellicole in bianco e nero, grandangoli
spinti e poi sviluppando e stampando le foto
di grandi dimensioni in proprio con risultati
eccezionali. E come spesso accade, quando una
passione accomuna, possono nascere delle
belle amicizie e condividere dei momenti
emozionanti in luoghi carichi di Storia».
- - Una passione che si riaccende a ogni
escursione, insomma. Cè un perché?
- «Anche due. Il primo è che ripercorrendo
certe strade, risalendo certe cime,
respirando in certi luoghi ogni momento è
buono per riflettere e porsi delle domande,
anche sulluomo stesso e la sua natura.
Il secondo, ma ce ne sarebbero altri, ed è
un secondo che si collega al primo è che di
fronte a certe iscrizioni, determinati fregi,
non è raro imbattersi in ... opere
darte. Richiamo al liberty e
allart decò sul fronte italiano,
gotico esplicito su quello
avversario. Trovarseli di fronte
e ripensare ai momenti in cui furono forgiati
aiuta a capire un po di più
luomo, e la sua complessa natura. Ne
aggiungo un altro, accennato prima: perchè
speri di trovarti di fronte ai graffiti
sinceri e spesso disperati legati
alliniziativa del singolo soldato, che
promette alla madre di tornare, che
simpegna a morire a casa sua. O che
sentenzia Negli anni più belli la vita
più triste. Credo che basti e avanzi
per tenere sempre pronti zaino e macchina
fotografica...».
Da Il Gazzettino del
19 settembre 2006
Nuovo
importante ritrovamento sul Grappa dell'Associazione
"Il Piave 15-18"
di Davide De Bortoli
San Donà. Nuova rilevante scoperta
dei membri dell'associazione ''lI Piave 15-18"
di San Donà, Dopo le ricerche approfondite dei
giorni scorsi sul Col dell' Orso - Solarioli, sul
massiccio del Grappa, sono venute alla luce due
postazioni italiane alla profondità di circa un
metro e mezzo: un ospedale da 12 letti e un ricovero
di due militi flammieri, soldati che utilizzavano
come arma i lanciafiamme, della prima guerra mondiale.
Si tratta del secondo importante ritrovamento, dopo
quelli avvenuti lo scorso anno dei resti di tre fanti
(due austrungarici e uno italiano) nelle vicinanze. L'ospedaletto
è collocato a 50 metri da quella che era la linea
del fronte, si articola in un lungo corridoio di 80
metri è alto circa 2, strutturato in una piccola
sala operatoria, un altro ambiente con i resti di 12
letti a castello di un metro e mezzo, una piccola
guardiola in legno e un'scita, ora ostruita, sul
versante opposto della montagna; mentre la postazione
dei flammieri, con un pozzo molto ristretto,
denominata dagli scopritori "tana dei draghi",
è a 10 metri dalle linee nemiche di un tempo.
Numerosi anche gli oggetti ritrovati: ossa umane, tre
vertebre cervicali ed alcune coste, il cappuccio di
un flamiere in amianto, un tubo di gomma corrugato
del lanciafiamme, dei fili telefonici, schegge di
granate. Autori del ritrovamento sono il presidente
del gruppo Alfredo Tormen, il vice Fabio Visentin, i
segretari Antonio Mucelli e Andrea dei Rossi di
Mestre, i soci Fabio Turra e Fabio Bassani di Feltre
e Andrea Giacomazzo di Venezia. "Nella zona -
spiega Tormen - erano schierate due brigate, la
"Bologna" e la "Lombardia", La IV
Armata del Grappa, iniziò la battaglia conclusiva,
alle 5 del 24 ottobre 1918, una data non casuale,
essendo legata alla disfatta di Caporetto avvenuta il
24 ottobre del 1917 ; esattamente un anno dopo l'esercito
cercava di lavare l'onta subita, si registrarono
perdite gravissime". L'area del primo
ritrovamento è ricordata da una croce, collocata dal
gruppo 'Il Piave 15-18' sul percorso denominato
"Il sentiero della pace", il cui tragitto,
ora potrebbe essere allungato fino alle nuovi
ritrovamenti.
Dal Gazzettino di
Teviso del 28 febbraio 2007
Gentilini
spedisce le ruspe a salvare i fortini del 15-18
Con il
consenso di Nervesa, avviata sulla Pontebbana, fra
Spesiano e Ponte della Priula, loperazione di
recupero di dieci manufatti semisepolti da detriti e
arbusti
di
Giampero De Diana
Ad excelsa tendo!.
Era il dicembre 2002 quando Giancarlo Gentilini
chiudeva così una lettera inviata al generalee Bruno
Scandone, responsabile del commissariato generale
Onorcaduti di Roam. Per spiegare allamico che
lui si stava battendo per obiettivi superiori
come lonore, che, sempre, un popolo civile deve
assicurare anche ai luoghi in cui è stata scritta la
storia della Patria. Dopo cinque anni Gentilini
ha vinto la sua battaglia : quella del recupero dei
fortini della prima guerra mondiale lungo la
Pontebbana. Per adesso quasi da solo e permettendosi
anche uninvasione di campo. Perché quella
decina di fortini, concentrati in un chilometro fra
Spresiano e Ponte della Priula, e incassati nella
scarpata della linea ferroviaria Treviso-Conegliano,
sono tutti nel territorio comunale di Nervesa, mentre
gli uomini e i mezzi che stanno lavorando sono quelli
del servizio manutenzioni di Ca Sugana. In
questi cinque anni Gentilini ha scritto a mezzo mondo:
dal comune di Nervesa alle Ferrovie, dalla Provincia
allANAS. E a forza di insistere le acque si
sono mosse. Ma intanto, con il benestare del Comune
di Nervesa, si è mosso lui, e chi transita in questi
giorni lungo la Pontebbana può già notare il
cambiamento. Prima i dieci fortini erano quasi
invisibili, coperti di da sterpaglie o semisommersi
dai detriti; adesso, con il primo intervento di
rimoszione di arbusti e terra, sono visibili.
Atti dovuti . li ha definiti Gentilini nelle sue
lettere e non delegabili da parte della nostra
generazione la quale ha conosciuto gli orrori della
guerra, gli eroismi singoli e collettivi, anche senza
nome, e quindi ha lobbligo morale di consegnare
la memoria di queste pagine ai giovani e ai
posteri. Quei fortini, fra laltro,
ricordano allo Sceriffo storie di vita vissuta:
Quegli anni della seconda guerra mondiale
ha raccontato durante i quali, per
portare a casa qualcosa da mangiare, io e mio padre
raggiungevamo in bicicletta la casa di famiglia di
Vittorio Veneto. E più di una volta, noi come tanti
altri, quando suonava lallarme antiaereo,
eravamo costretti a rifugiarci dentro quei
fortini. Sessantanni dopo piangeva il
cuore, a Gentilini, vederli ridotti quasi in macerie:
Eppure anche lì ripeterà più volte
nei suoi scritti durante la prima guerra si
era consumato lestremo sacrificio della vita di
migliaia di giovani soldati . Adesso che i suoi
uomini stanno lavorando il vicesindaco può essere
soddisfatto. Ma il progetto non si ferma a questo
primo intervento e la collaborazione già offerta dal
Comune di Nervesa, attraverso il sindaco Fiorenzo
Berton per mettere in moto loperazione, a
Gentilini non basta ancora. E così lo Sceriffo, non
solo ha chiesto aiuto allAssociazione Alpini
per completare la pulizia, ma ha anche sollecitato le
FS e lANAS a intervenire nella sistemazione di
tutta la scarpata e della fascia verde esterna alla
careggiata della Pontebbana. Infine ha chiesto
allassessore provinciale Marzio Favero di
attivare una conferenza dei servizi per studiare la
fattibilità di un progetto di pista ciclo-pedonale
fra Spresiano e Ponte della Priula che, oltre a
mettere in sicurezza i ciclisti, possa contribuire a
valorizzare la presenza dei fortini recuperati. Una
sorta di percorso della memoria che comunque ha
bisogno di altri interventi preventivi. Lidea
di Gentilini, infati, è quella di dotare i fortini
di punti luce, di proteggerli da introsuioni con
linstallazione di grate, di abbellirli con
piazzole. Ma intanto lui il primo passo lo ha fatto:
lo stato di vergognoso degrado e di incivile
abbandono di quei luoghi non è più tale.
Da Il
Gazzettino del 29 Agosto 2007
di
Dario Fontanive
Rocca Pietore. La
storia riaffiora dal ghiacciaio della Marmolada. Un
altro tassello, da ieri, contribuisce a
materializzare il mito della "Città di ghiaccio",
il complesso di gallerie, con depositi, cucine,
dormitori nel quale si rifugiarono i soldati austro-ungarici
trovando riparo dal fuoco nemico e dal freddo
pungente del fronte bellico situato ad oltre 3 mila
metri di quota sulla forcella "Vu". L'inesorabile
"ritirata" del ghiacciaio ha fatto emergere
recentemente la baracca che fu del tenente Leo Handl,
ovvero l'inventore della Città di ghiaccio. E in
queste ore, l'ultima scoperta ha dato la certezza che
quella stanza fu proprio dell'ufficiale-ingegnere.
All'interno della baracca, sono stati rinvenuti il
bastino personale di Handl, con impressa la scritta
nominale, un cappotto da ufficiale, una mantellina,
cartucce e caricatore di "Mannlicher" il
fucile in dotazione all'esercito austro-ungarico e
vari arnesi di vita quotidiana, scatole di lucido da
scarpe, spazzolino. Tempo permettendo, la prossima
settimana dovrebbero continuare le ricerche. Il sito,
infatti, è scoperto solo per un metro, mentre la
restante superficie resta prigioniera del ghiaccio.
« Se il tempo ce lo permette cercheremo di liberare
la baracca dal ghiaccio e vedremo se sarà possibile
recuperare qualche cosa d'altro » commenta il vice
presidente del museo della Grande Guerra in Marmolada,
Attilio Bressan, che coordina anche i lavori di
recupero del materiale bellico. « È molto probabile
però - continua Bressan - che a primavera il sito,
che qualche anno fa aveva fatto emergere altri due
rifugi, sia già stato visitato da qualche
recuperante, molto pratico di montagna. Un fenomeno -
spiega ancora Bressan - diventato una vera e propria
piaga». La Città di ghiaccio fu progettata da Handl
con lo scopo di riparare i soldati austro-ungarici
sia dal fuoco nemico sia dal freddo, dalla neve e
dalle valanghe. Aveva gallerie e sale dormitorio
capaci di contenere fino a 70 uomini, ed erano
illuminate dalla corrente elettrica proveniente da
Canazei. La vita sotto il ghiaccio permetteva di
evitare le rigidissime temperature esterne che
arrivano anche fino a -31 gradi centigradi. Infatti,
nelle gallerie la temperatura poteva variare dai 3 ai
5 gradi sopra lo zero d'inverno, scendendo a 0
durante l'estate. Tuttavia, l'aria era speso resa
irrespirabile a causa del fumo delle stufe.
Nonostante le difficoltà di vita in quei cunicoli,
la Città si rivelò comunque una soluzione geniale
che consentì la sopravvivenza a molti soldati del
Kaiser. Venne abbandonata nel novembre del 1917. Il
continuo ritiro del ghiacciaio, da alcuni anni, sta
portando alla luce questa magnifica opera, rivelando
l'ingegnosità della "fortezza". Molto il
materiale rinvenuto nelle prime due baracche alle
quali, recentemente, si aggiunta la terza,
appartenente proprio al suo inventore, il tenente
Handl . Gli scopritori temono, tuttavia, che molti
dei reperti contenuti nella baracca di Handl siano
stati portati via dai cosiddetti "recuperanti"
. « La pratica del recuperante nella zona di
forcella "Vu" e sul ghiacciaio - ricorda il
direttore del museo della Grande guerra in Marmolada,
Luciano Sorarù è vietata, salvo persone autorizzate,
da una ordinanza del Comune di Rocca Pietore, che
risale al 1999. Questa, oltre che vietare la pratica,
specifica che chi pratica abusivamente la raccolta di
materiale e residuati bellici oltre alla confisca dei
reperti subirà anche una denuncia. Purtroppo -
continua Sorarù - in questi anni, tale pratica
continua ad aumentare producendo un vero e proprio
scempio sui luoghi della grande guerra, di qui la
decisione di attuare, da qui in avanti, tolleranza
zero ».
Da Il Trentino 18
agosto 2007
Da L'Adige 28 agosto
2007
La visita ha concluso il
ciclo "Il museo nella città" dedicata ai
temi della Grande Guerra
Riva.Vi sono luoghi
che meglio di altri riescono ad esprimere il
sentimento di ripulsa della guerra, delle ragioni
economiche e imperialiste che spingono i vari stati a
fare guerre spesso disastrose e sempre inutili. Uno
di questi luoghi è l'Ortigara, la montagna nei
dintorni di Asiago che più d'ogni altra rappresenta
un unicum nei ricordi della Grande guerra, la
sanguinosa battaglia che vide la conquista effimera
degli alpini il 19 giugno 1917: all'Ortigara era
appunto dedicata l'escursione organizzata dall'associazione
Pinter di Riva con la visita ai luoghi della Grande
guerra, e successivamente dell'ossario di Asiago.
Memoria del popolo alpino, simbolo dell'inutilità
della guerra, segno di monito perenne a coloro che
facilmente tendono a dimenticare gli orrori bellici
egli odi disumani sollecitati dalle armi. Tutto
questo rappresenta la piccola sommità montuosa che
è il monte sacro alla Grande guerra, l'Ortigara. L'accompagnamento
nella visita da parte dell'esperto Daniele
Girardini, tral'altro titolare del sito
"cimeetrincee" è servito , per dare l'esatta'
identificazione ai luoghi e avvenimenti che
interessarono l'Ortigara. MauroZattera
dal canto suo ha fatto un excursus della linea del
fronte nella zona degli altipiani e dei Sette Comuni,
illustrando il "Calvario, degli alpini"
giustamente noto per i numerosi morti e feriti, tutti
inutilmente sacrificati alle ragioni della politica e
dello scontro imperialista. Il successo dell'iniziativa
deriva sia dal numero di presenze che dalla qualità
degli interventi. La visita veniva appunto a
concludere il ciclo di iniziative "Il museo
nella città" dedicato ai temi della Grande
guerra e delle fortificazioni sulla linea del Brione,
della Tagliata e di Malga Zures. «Dalla difesa
sotterranea al sacrificio dell'Ortigara, un progetto
di rivisitazione del nostro patrimonio -ha concluso,
il presidente dell'associazione Graziano Riccadonna -
che ha dato la prova non solo della ricchezza ma
anche della volontà della gente di interessarsi dei
ricordi della guerra.»
Da la Padania 26
agosto 2004
Il
terrore negli occhi dei soldati all'indomani di
Caporetto
"L'ufficiale obbligava
quei poveracci a superare una siepe di rovi per
meritarsi la pagnotta. Deboli com'erano, vi finivano
dentro e uscivano in una maschera di sangue"
di Orlando Negrisolo
Mio padre Federico - classe 1912- nel
1917 ha 5 anni, e suo padre si trova in guerra con
altri 4 fratelli che tra l'altro vivono tutti nella
stessa grande casa patriarcale. In quella
stessa casa nel 1917 durante la ritirata di Caporetto
si installarono alcune compagnie di soldati tutti
provenienti dalle zone del fronte. Seppure con gli
occhi del bambino innocente, mio padre racconta il
proprio disagio nel vedere i soldati laceri, feriti,
pieni di pidocchi e affamati. Con la stessa
ingenuità che caratterizza l'infanzia, mio padre si
rivolge a ogni soldato e ufficiale chiedendo se ha
visto il papà e gli zii e ricevendo puntualmente in
cambio un sorriso e la stessa risposta "arriverà
più tardi". Questo atteggiamento, agli
occhi del bambino, viene scambiato per una presa in
giro che lo fa arrabbiare. Vuole sapere dov'é finito
suo padre e gli zii! Nella casa vivono le zie, la
madre di mio padre, il nonno e la nonna. Tutti si
danno un gran da fare per aiutare i soldati e la mia
bisnonna si distingue per il rapporto quasi materno
che instaura con quei ragazzi riconoscendo in essi i
propri figli. Passano alcune settimane e in
quell'oasi di relativa serenità i soldati ritornano
a sperare in un futuro migliore. Ma dura poco perché
in quella casa arriva un alto ufficiale. Monta un
grande cavallo ed ha sempre un frustino in mano. Un
giorno, un brutto giorno, prima della distribuzione
del rancio, tutti i soldati vengono inquadrati nel
cortile della grande casa colonica e l'ufficiale
dispone che ogni giorno, prima del rancio, tutti i
soldati avrebbero dovuto superare una "prova"
per "meritare il pasto". Un giorno c'é da
saltare un ostacolo, un'altro c'é da arrampicarsi su
per una pertica e così via. Purtroppo, date le
condizioni pietose dei soldati, non tutti riescono a
"meritare" il pasto. A questa situazione
rimedia di nascosto la mia bisnonna, fornendo il cibo
a coloro che non riuscivano a superare l'infame prova
ginnica. Il sadismo dell'ufficiale purtroppo
non si ferma perché un giorno, vista una siepe di
rovi e spine, ordina che questa diventi
lostacolo da superare con un salto che
pochissimi sono in grado di fare. Il risultato é che
la maggior parte dei poveri ragazzi finisce nel mezzo
della siepe con risultati devastanti per tutto il
corpo. Si trasformano in maschere di sangue
prontamente medicate dalle donne che assistevano
impotenti a quella atroce buffonata. La mia santa
bisnonna urla la propria indignazione nei confronti
dell'ufficiale che risponde con un perentorio "taci".
Ma la donna non si rassegna e chiama il marito
che seppure contrario non vuole intervenire, convinto
che quella fosse una prova estrema che non si sarebbe
più ripetuta. Purtroppo il giorno seguente la storia
si ripete con le stesse identiche conseguenze per i
soldati e la mia bisnonna convince il marito a fare
qualcosa. A questo punto anche il marito crede
che non si tratti più di semplici allenamenti ma di
puro sadismo che l'ufficiale esercita nei confronti
di quei poveri diavoli. Tuttavia rassicura la moglie
che la cosa non si sarebbe più ripetuta convinto nel
buon senso dell'ufficiale. L'indomani il mio bisnonno
va nei campi quando viene raggiunto dalle urla della
moglie che sta apostrofando il gentiluomo il quale si
accinge a impartire l'ordine del "saltate"
immaginando nella sua mente bacata il filo spinato
delle trincee o chissà cosa. I soldati tremanti di
paura esitano e un subalterno incita il gruppo a
eseguire gli ordini. In quel preciso momento
una figura si piazza davanti al cavallo dove sopra
troneggia l'ufficiale. Imbraccia una doppietta e
tiene sotto tiro l'uomo che appare prima meravigliato
e poi terrorizzato. Accenna debolmente un "che
vuoi fare ?" "Ordina ai tuoi uomini di
saltare e con essi salterà anche la tua testa
bastardo !" risponde deciso il mio bisnonno. La
tensione é altissima e tutti gli occhi sono puntati
verso la figura che imbraccia il fucile. Sono momenti
interminabili e il racconto di mio padre è lucido
nel descrivere ogni particolare. L'ufficiale scende
da cavallo e alzando un braccio si lascia andare un
flebile "si distribuisca il rancio per tutti".
La tensione sparisce e cento braccia si stringono
attorno al mio bisnonno in segno di gratitudine.
Tutti i ragazzi hanno gli occhi lucidi di pianto.
Niente più salti a ostacoli per il rancio che da
quel momento sarà più abbondante. Tutto questo
accadeva nel 1917 a Piove di Sacco località "Cristo
di Arzerello presso la casa della famiglia
Negrisolo. Ci sono altre innumerevoli storie
di quella guerra insensata raccontate da mio nonno e
da numerosi altri testimoni che hanno fortemente
impressionato la mia adolescenza nei lontani anni 50
e 60 quando ancora i reduci erano numerosi.
Sono storie di assalti inutili e ripetuti che
mietevano giovani vite a migliaia, esecuzioni
mediante fucilazione alla schiena perché si
abbandonava la postazione quando ormai solo la resa
poteva salvare la vita, testimonianze di condannati a
morte che parlavano della propria famiglia e invano
proclamavano la loro lealtà e innocenza ad una
gerarchia militare inetta, ufficiali uccisi per mano
di qualcuno che rifiutava di uscire dalla trincea per
l'ennesimo assalto, soldati legati fuori della
trincea per essersi resi colpevoli di chissà quali
colpe, civili massacrati durante i bombardamenti o
durante il viaggio di allontanamento dalle zone di
guerra, storie di processi ignobili che si
risolvevano con esecuzioni e pene severissime anche
in presenza di minime colpe. Una miriade di
testimonianze e di orrori che i vecchi di allora
raccontavano non senza recriminare la spudorata
condotta dei comandi militari e che spesso finivano
con l'invettiva nei confronti di uno stato e di una
patria che per loro aveva significato solo orrore e
morte. I protagonisti di quelle vicende sono
ormai andati, ci restano gli ipocriti monumenti
disseminati in ogni dove che ricordano in modo
retorico una guerra che fu rifiutata dalla coscienza
di tutti i popoli della penisola italica. Ed è lo
stesso clima di menzogna che ispira le vicende dei
nostri giorni.
Da
La Nuova Sardegna mercoledì 3
ottobre 2007
Cronaca
di Tempio
- Le due facce della Caserma
Fadda
- Il campo dei soldati trasformato in
discarica
- Alle spalle dei nuovi uffici comunali ci
sono cumuli di gomme, frigoriferi e inerti
di
Giampiero Cocco
Tempio.
La ex caserma Fadda, un complesso militare
dismesso di oltre 100 mila metri quadrati tra
immobili e terreni che il Comune aveva acquisito dal
demanio pagando la simbolica cifra di 10 mila lire,
è come una medaglia a due facce. Da un lato, quello
appena ristrutturato e che ospita gli uffici tecnici
comunali e a breve anche l'agenzia delle entrate
tutto o quasi è perfetto. Ma sul retro l'abbandono,
l'incuria e l'azione dei vandali sono sotto gli occhi
di tutti. Un gigantesco deposito di calcinacci, gomme,
vecchi servizi igienici, frigoriferi, materiale
ferroso e erbacce, che crescono sui vecchi ruderi
ancora da ristrutturare.
Partiamo
dall'azione dei vandali, che hanno preso di mira gli
infissi di una decina di locali (la ex fureria della
caserma Fadda che, negli anni tra la prima e la
seconda guerra mondiale, ospitò la Brigata Sassari e
un reggimento dell'esercito), le cui vetrate e
finestre sono state spaccate dal lancio, ripetuto, di
sassi. Con il risultato che, per rimettere in sesto
il tutto, saranno necessarie diverse decine di
migliaia di euro. Il campo d'addestramento, sul quale
si affacciano i ruderi delle ex stalle (diroccate)
dei servizi igienici, dei depositi di armi e della
vecchia polveriera è diventato un deposito a cielo
aperto di rifiuti d'ogni genere. Dalle gomme d'automobili
che l'amministrazione comunale recuperò nel
bonificare il campo da cross "Sergio Bruschi"
a diverse tonnellate di rifiuti speciali come vecchi
frigoriferi, materiale ferroso, inerti d'edilizia,
cataste di servizi igienici, montagne di detriti. Il
tutto inframmezzato dalla rigogliosa vegetazione
spontanea che nei decenni ha invaso l'intero
perimetro. «Stiamo per bonificare l'intera area
ha spiegato ieri il dirigente dell'aerea
tecnica, l'ingegner Giuseppe Pinna in vista
della riqualificazione del secondo lotto che prevede,
nell'ex campo d'addestramento, la realizzazione di un
giardino e di passeggiate utilizzabili dalla
popolazione. Al momento quella zona risulta un'area
di cantiere, nel quale sono stati depositati
temporaneamente i rifiuti recuperati in diversi siti
inquinati con l'operazione Sardegna fatti
bella». E per far bella la Sardegna
si è riempito il campo d'armi dei soldati con quanto
di peggio può esistere sotto il profilo dei rifiuti
speciali, ingombranti e inquinanti. L'area, sulla
quale si stanno realizzando la cittadella dei servizi
e le infrastrutture che ospiteranno il distaccamento
dei vigili del fuoco e le caserme degli altri corpi
militari (carabinieri e guardia di finanza) presenti
in città, è comunque accessibile a tutti. Nessun
guardiano notturno, nessun genere di vigilanza. Tanto
che i vandali, la notte, la fanno da padrone. Sono
riusciti a distruggere la ex fureria appena
ristrutturata, e ora attendono che sia completata l'ala
che dovrà ospitare l'archivio comunale e del
tribunale per rientrare in azione. Dall'ufficio
tecnico fanno sapere che, nelle prossime ore, l'intera
zona sarà bonificata e debitamente recintata. Con
buona pace di quanto i vandali sono già riusciti a
distruggere in questi anni di intensi e costosi
lavori di ristrutturazione.
Degrado
in città immagini del deposito di rifiuti nel campo
d'armi della ex caserma Fadda e il nuovo plastico del
sito
Da
LUnione Sarda 11 agosto 2006
Reportage
di Carlo Figari
Asinara.
Una mandria di cinghiali affettuosi come cagnolini
accoglie i turisti appena sbarcati dal traghetto al
molo di Fornelli, la porta meridionale
dellAsinara alle 10, sotto il sole
dagosto,arrivano le barche a vela e i gommoni
dei charter In pochi minuti limbarcadero si
affolla di gitanti che prendono dassalto il
chiosco delle bibite e si scatenano con le prime foto
ai cinghialetti e al mare la favola. Di fronte si
notano subito i muri dellex supercarcere che
ospitò i boss mafiosi negli anni Novanta. Le giovani
guide faticano a raccogliere i gruppi, finalmente si
parte per visitare lisola degli asinelli, nel
secolo scorso Cayenna dItalia, oggi parco
naturale con grandi speranze turistiche. I gruppi se
ne vanno alla ricerca delle spiagge lasciandosi
dietro il forte prigione ormai chiuso e abbandonato
dal Ministero. Proprio qui, su questo molo ora
silenzioso e deserto, novantanni fa vennero
sbarcati i primi soldati austro-ungarici colpiti dal
colera di un esercito di prigionieri ridotti alla
stremo dalla fame e dalle malattie. Erano 25-30 mila,
almeno ottomila morirono di colera e tifo
nellisola. I superstiti dopo sei mesi vennero
trasferiti in Francia. Una storia dai risvolti
terrificanti, forse per questo dimenticata. I turisti
tirano dritto. A nessuno interessano i ruderi di un
campo di prigionia quando hanno davanti uno dei
panorami più belli del Mediterraneo. Sulle guide
poche righe, nei libri di storia neppure un accenno.
Ne parlano una tesi di laurea del 1947, qualche
articolo di giornale e un paio di saggi. Tutti citano
la stessa fonte: la relazione del generale Giuseppe
Carmine Ferrari, allepoca comandante del
presidio dellAsinara. Un volume del 1929,
ingiallito e quasi introvabile. «I documenti
sulla vicenda custoditi nellarchivio
dellEsercito a Roma sarebbero spariti»,
afferma il ricercatore cagliaritano Alberto
Monteverde esperto della Prima guerra mondiale e
della Brigata Sassari, cercava gli originali della
relazione del generale. «Ho trovato le cartelle,
ma erano vuote. Nessuno ha saputo dirmi dove siano
finiti». Cè anche una contro storia
scritta nei 1961 dal capitano Giuseppe Agnelli di
Lodi: ufficiale di commissariato fu testimone diretto.
Dalle sue pagine esce un quadro infernale delle
condizioni del campo con i soldati che vivevano in
condizioni inumane, spesso bastonati e lasciati
morire per le malattie. Ma questa versione, che
contrasta con le fonti sinora note e
sullimmagine di un generoso impegno italiano
per salvare quella massa di disgraziati è ancora
tutta da verificare.
La
storia comincia il 18 dicembre del 1915, giornata che
si può immaginare ben diversa dai 32 gradi, di oggi.
Il freddo e il maestrale dinverno qui sono
padroni assoluti. Nella rada davanti a Cala Reale
gettarono la fonda i piroscafi Dante Alighieri e
America con cinquemila prigionieri. Dalle navi, con i
barconi a remi, iniziò il lento e faticoso
traghettamento di quei disperati che di uomini
avevano solo le sembianze. Era solo la prima ondata
di migliaia di soldati che da lì ai primi di gennaio
si riverseranno sullAsinara, col più grande
ponte navale nella storia della Marina italiana.
Erano i superstiti della marcia della
morte, un esercito sconfitto dai serbi sul
fronte austriaco e deportato lungo i Balcani.
Settantamila partirono da Nich, in 30 mila giunsero
al porto di Valona, in Albania, dopo aver camminato
senza cibo tra la neve per 77 giorni.. Per loro,
affamati, stremati dalle malattie e dalle botte,
coperti di stracci e divise a brandelli, la salvezza
si chiamava Italia. .Quando sbarcarono a Cala Reale
non sapevano neppure di essere arrivati
allAsinara, isola sperduta al nord della
Sardegna, ma almeno cera la speranza di
sopravvivere. Nel giro di un paio di settimane il
ponte navale si completò e lAsinara, sino a
quel giorno popolata solo da un migliaio di
prigionieri catturati nellagosto precedente e
da 350 militari italiani, si ritrovò affollata da
trentamila superstiti di un armata multietnica
e multilingue. Ungheresi, austriaci, boemi, croati,
cera rappresentato tutto limpero
asburgico allo sbando. Un caos indescrivibile,mentre
dalle navi sbarcavano i colerosi. «Nei primi
giorni morivano a centinaia - racconta Alberto
Monteverde: - venivano gettati in mare
terrorizzando i pescatori di Stintino e Porto Torres.
Nella terraferma giravano voci che agghiacciavano la
popolazione e così il prefetto di Sassari ordinò
allEsercito di fermare subito le operazioni.
Mentre si annunciava larrivo di altre navi
cariche di disperati, il generale Giuseppe Carmine
Ferrari, comandante del presidio dellAsinara,
organizzò nellisola un piano di accoglienza
mai visto allepoca e che anche oggi, con i
mezzi e la tecnologia moderna, sarebbe difficile
realizzare in tempi così rapidi». E tutto
riportato minuziosamente nella relazione del generale
Ferrari. «Nellisola - sottolinea la
storica Carla Ferrante dellArchivio di Stato - si
trovavano già da tempo una piccola stazione
contumaciale per i malati, un ospedale con trenta
letti, una foresteria con uffici e magazzini, una
direzione sanitaria, quattro baracche, alcuni
fabbricati e un forno crematorio. Ma certo non era
preparata ad accogliere migliaia di prigionieri in
gran parte colpiti da colera e gravissime malattie.
Mancava tutto: acqua, luce, scorte alimentari e
medicine». Ferrari e i suoi uomini realizzarono
in un paio di settimane sei campi: a Fornelli per
accogliere i colerosi, Cala Reale, Cala dOliva,
Stretti, Campo Perdu e infine a Tumbarino. Seguendo
le mappe del generale Ferrari è possibile vedere i
resti di ciascun campo, nellitinerario non
previsto dai tour organizzati sembra di rivedere la
massa di quei dannati aggirarsi tra le tende. Qui a
Fornelli i morti di colera furono sepolti a migliaia
nelle fosse comuni in riva al mare.
La
mattina dei 18 dicembre 1915 i primi .prigionieri
dellesercito austro-ungarico sbarcarono
allAsinara al molo di Cala Reale. «Alcuni
erano nudi, altri coperti di indumenti stracciati,
altri con panni dati dai marinai di bordo, la maggior
parte scalzi. Erano molto depressi, di più erano
affamati cosicché si racconta che quando qualcuno
mangiava il pane, i compagni raccoglievano le
briciole. Si racconta che molti cercavano il
nutrimento tra le immondizie e quando un compagno era
morto lo lasciavano là vicino per prendersi la sua
razione. Appena uno di loro manifestava i sintomi del
colera, veniva spogliato delle poche cose». Sono
le parole del generale Pietro Marini,
comandante del Corpo darmata di Roma e
responsabile in capo delloperazione di
salvataggio dei trentamila prigionieri austro-ungarici
che la Serbia aveva passato agli alleati italiani.
Con unimponente ponte navale, soprattutto per
lepoca, la Marina italiana con venti viaggi e
una decina di unità. trasportò da Valona alla
Sardegna i superstiti della marcia della morte. Da 70
mila si erano ridotti a meno della metà e molti
durante il viaggio erano rimasti colpiti dal colera.
L'arrivo.
«AllAsinara si era venuti a conoscenza di
questa gigantesca operazione» racconta Pierpaolo
Congiatu: «proprio mentre arrivavano i primi
piroscafi con cinquemila uomini, affamati e malati,
non solo di. colera ma di ogni malattia che quei
fisici ridotti a scheletri avevano contratto durante
i due mesi della marcia tra i monti coperti di neve
dei Balcani. lisola non era preparata ad
accogliere una massa cosi imponente, eppure a tempo
di record fu trasformata in un gigantesco
accampamento». Pierpaolo Congiatu, ingegnere e
responsabile dei servizi tecnici del nuovo parco
dellAsinara, da anni si interessa con passione
della Storia della Cayenna dItalia. Documenti,
fotografie, memorie, ma anche - grazie. alla sua
specializzazione tecnica cerca di ritrovare le tracce
sul terreno degli eventi che si sono succeduti dal
1885 ai primi anni Novanta. Per un secolo la stupenda
isola degli asinelli ha ospitato prigionieri di ogni
nazionalità e genere: dagli anarchici
dellOttocento ai boss mafiosi rinchiusi nel
supercarcere di Fornelli. Tra il dicembre del 1915 e
il luglio del 1916 accolse tra 25 e trentamila
prigionieri dellarmata austro-ungarica
sconfitta dai serbi sul fronte dei Balcani e
consegnati allItalia durante la ritirata da
Nisch a Valona.
Dimenticati.
Una pagina quasi sconosciuta e ormai dimenticata. Ma
non da Congiatu che con le mappe del tempo e i pochi
documenti disponibili tenta faticosamente di
ricostruire. E un itinerario, da Fornelli a
Cala dOliva sullaltro capo
dellisola, che tocca i sei campi realizzati per
accogliere quella torma di disperati. «Certo, i
turisti che arrivano ogni giorno a centinaia non si
fermano qui per ascoltare una storia lontana e per
loro probabilmente poco interessante.. Ma per noi è
importante recuperare ogni tassello di questa vicenda
che ha visto lItalia, appena entrata nella
Prima guerra mondiale, compiere uno sforzo gigantesco
per salvare la vita a migliaia di soldati che
morivano ogni giorno di fame e di colera. Fu una
missione umanitaria eccezionale per lepoca, se
si pensa allimpegno bellico che si stava
affrontando sul fronte alpino»
Museo.
Obiettivo di Congiatu, che trova daccordo il
nuovo direttore del parco Carlo Forteleoni di aprire
nei locali restaurati del Palazzo
dellamministrazione un piccolo museo della
storia dellAsinara . «Una sala sarà
dedicata interamente a questa tragica vicenda con i
reperti che stiamo raccogliendo - dice - lapidi,
epigrafi, statue, e sculture fatte dai prigionieri,
pochissimi oggetti ritrovati a cui si potranno
aggiungere foto, filmati e video per illustrare
quegli otto mesi in cui lisola si trasformò in
unautentica Babele. Arrivarono uomini
dellesercito austro-ungarico provenienti
dallimpero asburgico in disfacimento: con
austriaci e ungheresi migliaia di croati, boemi,
slovacchi, rumeni, russi e bulgari». Non è un
caso che lingegnere col gusto della storia si
occupi di tutto questo. «Sono di Porto Torres
- spiega - e sin da bambino restavo affascinato
dalle storie che i grandi raccontavano.
LAsinara era una sorta di isola mitica,
popolata da animali esotici, pesci rari, dove
potevano accadere i fatti più fantastici. E tutti ci
credevano. In più mia madre è stata per diversi
anni maestra nellisola e grazie anche a lei ho
cominciato ad appassionarmi». Quando si è
affacciata lopportunità di un lavoro nel
nascente parco nazionale è stato quasi naturale
occuparsi di quei racconti che sentivo da bambino
dalle favole alla storia
Il
diario. Esiste un raro documento che
ricostruisce passo passo con militare pignoleria la
tragedia di 90 anni fa. E il diario del
generale Giuseppe Carmine Ferrari, allepoca
comandante del Presidio dellAsinara. «Fu
lui ad organizzare le operazioni di accoglienza e a
tempo di record. Dalle sue pagine. emerge la cronaca
quotidiana degli arrivi, dei decessi, delle enormi
difficoltà per curare i colerosi, per assistere i
moribondi, ma soprattutto per dare vestiti, cibo,
coperte e almeno una tenda a quelle. migliaia di
disperati che continuavano a sbarcare come un fiume
inarrestabile»,dice Congiatu. Per far fronte
allemergenza ci fu una vera mobilitazione:
medici e personale sanitario furono inviati da
Cagliari e Sassari, ingenti quantità di farina, riso
e viveri nonostante la penuria delleconomia. di
guerra dai magazzini di Porto Torres. Per vestire
quella massa di soldati seminudi e scalzi spedirono
berretti, giubbe, scarpe e pezze da piedi, ma anche
il necessario per laccampamento tende, stuoie,
coperte, paglia, gavette, forni, attrezzi da lavoro e
persino strumenti musicali. Dopo otto mesi i
quindicimila superstiti, in gran parte. ristabilitisi
saranno imbarcati su tre navi e trasportati a Tolone
per essere consegnati allesercito francese.
Nellagosto del 1916 lAsinara era di nuovo
deserta, i campi con gli ospedali, le tende e le
baracche, smontati o abbandonati. Cosa è rimasto
oggi?
Fornelli.
«Qui a Fornelli - riprende il filo Congiatu -
furono subito portati i malati di colera». A
mezzo chilometro dal molo dove oggi approdano i
traghetti con i turisti, sono ancora in piedi i
ruderi del cimitero con al centro una misteriosa
cappella. Quando e da chi fu costruita? Nessuno ha
saputo dare una spiegazione. Sicuramente dai
prigionieri, ma larchitettura lascia stupiti. «Aveva
una cupola come una piccola moschea, le finestre sono
moresche, ma linterno con capitelli e muri
dipinti sono di stile diverso», dice
lingegnere: «Nella sagrestia si nota un
lastrone di marmo. Non è un altare. ma il tavolo per
le necroscopie: si notano i fori per far scolare il
sangue». Allinterno del recinto sono state
trovate centinaia di tombe, le ossa raccolte e
portate allossario dei caduti costruito negli
anni Trenta davanti a Campu Perdu. «Ma ce ne sono
tante altre. Anche in riva, dove i cadaveri dei
colerosi venivano sepolti nelle fosse comuni. Per
anni il mare ha scavato le tombe scoprendo gli
scheletri». Il diario del generale Ferrari
annota puntigliosamente i morti del giorno: a
centinaia in dicembre e gennaio, poi si riducono a 20,
30 a febbraio, ad aprile il colera è sconfitto. Il
virus era esploso a bordo delle navi, probabilmente
contratto durante la terribile marcia nei Balcani. I
primi cadaveri vennero gettati in mare e i malati
lasciati a bordo, nel frattempo che a terra si
costruivano gli ospedali e le fosse. Poi si isolarono
nel campo di Fornelli. Dopo gli arrivi di dicembre,
le navi continuarono senza sosta il ponte con
lAlbania. I prigionieri giungevano a ondate di
migliaia. Nellisola mancava tutto, ma Ferrari,
riuscì ad ottenere il necessario. «Pensate solo
allacqua per dissetare tanta gente» dice
lingegnere «Furono scavati pozzi e
costruiti serbatoi vicino ai moli dove potevano
approdare le navi cisterna. I primi cinquemila
vennero accolti a Cala Reale dove già esistevano
alcune strutture ospedaliere e baracche, poi vennero
realizzati i campi a Cala dOliva, Stretti,
Campu Perdu, a Fornelli per i colerosi e infine a
Tumbarino. Ovunque si notano oggi ruderi degli
ospedali i forni crematori, i basamenti di pietra su
cui erano montate le tende, i cippi funerari ».
Il più desolato è il cimitero degli italiani
militari e civili morti tra le due guerre, sepolti
anche bambini di un anno, croci di legno abbattute,
lapidi frantumate, il muro cadente. Il generale tenne
una contabilità quotidiana, ma era impossibile
conoscere il numero esatto degli sbarcati di quelli
che morivano nellindifferenza degli stessi
compagni. Verso febbraio la vita nei campi cominciò
a normalizzarsi, i prigionieri curati e sfamati come
possibile con gallette, carne in scatola e minestre,
poterono lentamente ristabilirsi. Molti cominciarono
a lavorare come contadini, artigiani, scalpellini,
giardinieri. Tra loro cerano numerosi artisti
che costruirono cappelle, monumenti funebri e statue.
In uniscrizione a Tumbarino si legge ancora: «Grazie
allItalia nostra salvatrice». Quando
lultimo convoglio si apprestava a salpare verso
la Francia, da bordo della nave Seine, i 1200
prigionieri si tolsero i berretti e salutarono
gridando più volte «Viva lItalia ».
L'Asinara.
Lepigrafe dedicata al generale Ferrari non si
può vedere. Devastata dal tempo e ritrovata in mezzo
agli arbusti ora è custodita in un magazzino in
attesa di un restauro e di una collocazione.
Lavevano scritta i prigionieri austriaci per
ringraziare il comandante dellAsinara poco
prima di lasciare lisola per essere trasferiti
in Francia. Nellinverno del 1916 il paradiso
dei turisti di oggi era diventato nel volgere di un
paio di settimane, un girone dantesco. Un vero
inferno in cui si ritrovarono reclusi per otto mesi
trentamila prigionieri dellesercito austro-ungarico.
Cè un documento, praticamente sconosciuto di
un ufficiale di Lodi che fu testimone di quella
tragedia. Nel racconto lasciato dal capitano di
Commissariato Giuseppe Agnelli emerge un quadro ben
diverso da quello descritto dal generale Giuseppe
Carmine Ferrari. Agnelli fu inviato allAsinara
per contribuire alla missione di soccorso. La sua
testimonianza, pubblicata nel 1919 sul giornale
socialista lAvanti! subito dopo la
fine della guerra, fu criticata e poi censurata
perchè ribaltava limmagine positiva degli
italiani che avevano sconfitto il colera e salvato
migliaia di uomini. Agnelli ormai anziano, ci
riprovò nel 1961 con un saggio di memorie ritrovato
da uno studioso trentino. Il suo racconto è
terrificante: i militari italiani furono spietati lo
stesso Ferrari diceva «senza reticenze che il
bastone era il vocabolario col quale dovevasi
discorrere con i prigionieri». Arrivarono qui a
ondate da Valona, con un gigantesco ponte navale
messo in atto dalla Marina militare italiana.
Affamati, ridotti a scheletri, seminudi e scalzi, la
maggior parte stremata da ogni genere di malattie. A
centinaia colpiti dal colera morivano sulle navi
prima ancora di essere sbarcati, gli altri finirono.
nel campo-lazzaretto che fu costruito in pochi giorni
nellarea di Fornelli, tra la riva e il
supercarcere dove sino agli anni Novanta furono
rinchiusi i boss mafiosi e i terroristi.
Missione
umanitaria. La prima nave, guarda caso si
chiamava Dante Alighieri, spuntò davanti alla rada
di Cala Reale il 18 dicembre 1915. Nel giro di pochi
giorni sbarcò una marea umana sullisola sino a
quel momento praticamente deserta. Secondo il
minuzioso diario del generale Carmine Giuseppe
Ferrari, che organizzò laccoglienza, la
costruzione di otto campi con tende e ospedali il
trasporto di viveri, medicine e di ogni necessità,
fu possibile salvare quindicimila di quei 25-30 mila
disperati. A leggere le pagine della sua relazione fu
unimpresa umanitaria eccezionale per quei tempi,
che sarebbe stata difficile realizzare anche oggi. A
testimonianza i ringraziamenti dei superstiti poco
prima di partire per la Francia e alcuni monumenti
lasciati nellAsinara.
Monumenti.
A Campu Perdu cera una statua celebrativa
scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess,
unautentica opera darte. Spuntava tra la
macchia mediterranea sino a una decina di anni fa poi
nel passaggio dallamministrazione penitenziaria
allEnte parco sembra scomparsa. Rappresentava (si
vede in una vecchia foto) un eroe e nel basamento una
folla di uomini nudi e disperati. «Questa statua
era intitolata Il lungo viaggio»
racconta il professor Laszlo Lorinczi, ungherese
studioso da tempo trapiantato in Sardegna: «Da,
un lato l'artista voleva rivelare al mondo le atroci
sofferenze che i suoi connazionali avevano subito
durante la terribile marcia nei Balcani,
dallaltra il trionfo della speranza, della
solidarietà dei popoli e della vita. Insomma, un
ringraziamento agli italiani che avevano salvato e
curato i sopravvissuti dei 70 mila che avevano
marciato per due mesi da Nisch a Valona».
Lanziano professore ha un sogno: «Non so
che fine abbia fatto quella statua, ma vorrei che
venisse realizzato un nuovo monumento a forma di
stele con i simboli della nostra nazione per
ricordare gli otto, novemila ungheresi morti
allAsinara».
I
campi. La strada di cemento che da Fornelli
porta a Cala Reale si snoda tra un paesaggio da sogno
nel parco nazionale. Novantanni fa per otto
mesi lAsinara si ritrovò sommersa da questi
trentamila prigionieri (impossibile stabilire la
cifra esatta). Sulla collina di Stretti, dove furono
sistemati due campi, cresce ancora la cipolla canina.
E una sorta di peyote sardo: dicono che in
piccole dosi dia euforia, ma basta mangiarne un paio
per morire tra atroci dolori. «Quei poveretti,
vinti dalla fame, cercavano ogni cosa commestibile:
molti, che avevano raccolto le cipolle velenose,
morirono su questa collina» ricorda Pierpaolo
Congiatu, studioso delle storia dellAsinara.
Congiatu mostra i ruderi di Tumbarino: si notano bene
i circoli di pietra su cui venivano montate le tende,
i muri dove cera lospedale, il molo dove
approdavano i barconi e vicino alla riva anche il
serbatoio per raccogliere lacqua che veniva
scaricata dalle navi-cisterna (nellisola non
cerano pozzi e lapprovvigionamento era
uno dei problemi prioritari). Qui a Tumbarino negli
anni del supercarcere isolavano i pedofili e i
detenuti pericolosi. Da lontano nel silenzio si
sentivano le loro urla. I prigionieri austriaci,
superata lemergenza colera, vestiti e
alimentati come possibile, dal marzo in poi
cominciarono a ristabilirsi. Molti lavoravano nei
campi e con il bestiame, altri facevano gli operai e
gli artigiani, a centinaia furono inviati in Sardegna
per occupare i vuoti lasciati dagli uomini partiti
per il fronte. Tracce del loro passaggio a Ussana,
lglesias, Sinnai, nelle miniere di Montevecchio e del
Sulcis.
Artisti.
In quella Babele di lingue e culture cerano
numerosi musicisti e artisti. Hanno costruito
cimiteri, cappelle, monumenti funebri. A Tumbarino,
girando tra i ruderi dellex campo, si scopre il
basamento scolpito con un impressionante bassorilievo.
La statua è scomparsa, anche questa, ma la scultura
mostra le figurine di quei disperati. Ma chi erano i
prigionieri?
Cannibalismo.
Racconta il capitano Agnelli: «Rappresentavano
lavanzo di ben 70 mila uomini
dellesercito austro-ungarico che nel 1914,
allinizio della guerra contro la Serbia, erano
stati catturati. Nellautunno del 1915 in
seguito alloffensiva del formidabile esercito
tedesco, i serbi furono costretti alla ritirata
trascinandosi dietro la massa dei prigionieri
austriaci. Fu una vera odissea a piedi tra i monti
innevati dei Balcani. Per settanta giorni vagarono
senza un piano preciso, morendo a migliaia di stenti
e percosse». «Ci furono persino casi di
cannibalismo», racconta in una lettera uno dei
superstiti. «Siffatto era il terrore che dominava
la famelica turba fuggente e così forte era l'istinto
di sopravvivenza che neppure amici e parenti si
fermavano a soccorrere chi si lasciava andare sfinito.
Si nutrirono di erbacce, topi, ogni qualità di
rettili abbruciacchiati e divorati con voracità
felina» scrisse con il linguaggio
dellepoca il capitano Agnelli raccogliendo -
sostiene -le testimonianze dei sopravvissuti.
Colera.
In gran parte in preda alla dissenteria e ridotti a
pelle e ossa arrivarono a Valona in trentamila. Nel
porto albanese scoppiò il colera. I prigionieri
dovevano essere consegnati alla Francia, ma la
notizia dellepidemia consigliò i governi
alleati di frenare il contagio chiedendo aiuto
allItalia. Così si decise di trasportarli
allAsinara considerata il Lazzaretto del
Mediterraneo. Durante il tragitto in nave
continuavano a morire tra atroci dolori. I cadaveri
venivano gettati a centinaia in mare, qualcuno fu
rinvenuto sulla costa di Alghero o finì nelle reti
dei pescatori sardi. LAsinara era praticamente
deserta e mancava di tutto. Agnelli ricorderà per
tutta la vita il maestrale che soffiava senza tregua
impedendo alle navi di portare viveri e soccorsi. In
queste condizioni per la completa assenza di cure,
anche rudimentali le vittime furono centinaia al
giorno «Sì che, non appena furono assestati in
maniera soddisfacente i campi» sottolinea il
capitano «i prigionieri si erano ridotti a
ventimila» I cadaveri venivano sepolti nelle
fosse comuni e accatastati vicino alla spiaggia in
attesa dellinumazione. Unico cibo gallette e
scatole di carne, solo dopo un mese si vide la carne
fresca e il brodo, il pane, che si preparava a Porto
Torres, quando cera maestrale finiva ad
ammuffire nei magazzini. I medici italiani lasciarono
ai loro colleghi austriaci il compito di assistere i
colerosi,mancavano le medicine per le cure usavano
limoni e aranci. Ai Fornelli non si faceva in tempo a
scavare le fosse comuni. I prigionieri si
impossessavano dei vestiti dei morti e preferivano
tenersi vicini per giorni i cadaveri pur di prendere
la loro razioni. «Non cera niente, in
compenso abbondava il bastone. I carabinieri
sorvegliavano coi randello in mano e a ogni minima
infrazione alla disciplina erano legnate sulla testa
e sulle spalle». Agnelli vide «infinite
scene di bestiale violenza e ufficialetti troppo ligi
che per dimostrare la loro energia facevano legare al
palo i disgraziati colpevoli di voler saziare la loro
fame». Solo il ritrovamento di altri documenti e
futuri studi potranno stabilire come andarono gli
eventi. Oggi restano i ruderi di una storia
dimenticata.
Da
L'Unione Sarda 11 Agosto 2006
Il
ricordo della scrittrice svedese
Nella
pancia del tonno il bottone di una divisa serba
C.F.
Che
lAsinara fosse un inferno negli anni della
guerra era un fatto ben noto tra la popolazione del
nord Sardegna. Nei primi tempi i pescatori di
Stintino e di Porto Torres trovavano cadaveri
impigliati nelle reti e qualcuno finiva anche a riva.
Nell'immaginario collettivo si vedevano quelle
migliaia di prigionieri vagare come fantasmi nell'isola
trasformata in una gigantesca Cayenna. Ecco il
racconto della scrittrice svedese Amelie Posse
Brazdova nel suo libro di memorie "Interludio
di Sardegna" (tradotto da Aldo Brigaglia e
stampato dall'editrice Tema nel 1998). Colta dallo
scoppio della guerra in Italia, la donna sposata al
nobile ceco Oki Bràzda, fu internata ad Alghero.
Spesso però poteva recarsi a Sassari: «Un giorno
stavamo pranzando come al solito nell'afosa saletta
interna del ristorante tra una folla chiassosa...
Avevo detto al cameriere che volevo tutti i giorni
pesce, ma quel giorno sul menù c'era solo tonno
fritto: dovetti accontentarmi. Stavo masticando e
deglutendo con molta riluttanza quando il cameriere
venne a chiedermi se per caso non l'avessi gradito.
Risposi che era tremendamente grasso. Se ne usci nel
dire che non c'era da meravigliarsi che fosse grasso
visto che quel tonno era stato catturato nei pressi
dellAsinara dove ogni giorno venivano buttati
in mare centinaia di morti: "un bel terreno di
coltura!". E a riprova di ciò si tolse di tasca
il bottone di un ufficiale serbo (probabilmente
era austro-ungarico,ndr) che il cuoco aveva
trovato proprio nello stomaco di quel pesce. Con un
sorriso smagliante mi chiese se volevo tenerlo come
ricordo»,
Da
L'Unione Sarda del 11 Agosto 2006
La
tesi di Laslo Lorinczi
I
numeri ufficiali non tornano: i morti furono migliaia
in più
C.F.
Lodissea
dei trentamila prigionieri austro-ungarici si
conclude nel mistero. Manca il finale perché le
tracce dei superstiti della "marcia della
morte", salvati dal ponte navale messo in
atto dagli italiani, si perdono nel luglio del 1916
in Francia. Scomparsi. Ed è un mistero anche il
numero complessivo delle vittime. Il professor Laszlo
Lorinczi è uno studioso ungherese: da molti anni si
occupa delle vicende del suo popolo. Originario della
comunità ungherese della Transilvania, in Romania,
ha vissuto a Bucarest sino alla caduta del regime di
Ceaseascu. «Tutti gli anni più duri dei vari
regimi comunisti», dice. A lungo ha diretto
riviste di lingua e cultura ungherese è dopo il 1989
ha insegnato all'università. All'età di 82 anni
oggi vive in Sardegna, a Settimo San Pietro, dove ha
raggiunto la figlia Marinella docente nell'ateneo
di Cagliari e moglie dell'antropologo scrittore
Giulio Angioni. In ungherese ha tradotto Dante,
Quasimodo, Sciascia, Pavese, Moravia, Pasolini. «Alcuni
di questi grandi scrittori furono comunisti, ma non
sapevano cosa fosse il comunismo. Professavano bene,
ma non furono nella loro vita privata esempi di
moralità», sostiene lo studioso che ha dovuto
lottare contro uno dei regimi più bui dell'era
sovietica.
Il
professor Lorinczi appena arrivato in Sardegna ha
cercato di approfondire le sue ricerche sulla
tragedia dell'armata scomparsa. «Intanto - dice
- bisogna chiarire che in Occidente si è sempre
fatta confusione sul significato del termine austro-ungarico.
Da voi si è sempre creduto che fosse un confuso
miscuglio di popoli non meglio definiti. In realtà l'esercito
austro-ungarico era formato da tanti eserciti etnici,
ben distinti per lingua e cultura. Nella prigione
dell'Asinara questo fatto è ben rappresentato. Su 30
mila deportati ben 10 mila erano croati. Gli slavi
erano sicuramente il gruppo più numeroso. Poi gli
ungheresi: secondo i miei calcoli, 8-9 mila, almeno
metà morti di colera e malattia nell'isola sarda. Il
resto era composto da romeni, bulgari, russi e ruteni,
polacchi, in un'autentica Babele linguistica. Gli
uomini della mia terra, la Transilvania, non sapevano
neppure perché e per chi stessero combattendo».
Seguendo
le tracce dei prigionieri dell'Asinara Lorinczi ha
scoperto che centinaia furono inviati a lavorare
nelle miniere di Montevecchio, di Monte Nava, Bacu
Abis e nei campi per coprire i vuoti lasciati dai
sardi finiti al fronte. «Ho saputo che la pineta
di Sinnai, vicino a dove abito, fu piantata da loro
nel 1916. Molti restarono qui anche dopo la guerra».
Secondo
lo studioso ungherese le cifre ufficiali non tornano.
«Nel giugno del 1916 giunse l'ordine di
trasferire tutti i prigionieri in Francia, a Tolone.
Arrivarono tre navi che trasportarono 16 mila
militari. Se aggiungiamo a questi gli ottomila morti
per colera, si arriva a 24 mila. E gli altri? Forse i
morti nell'isola furono più di quelli sinora
indicati. Da molti anni - continua lo studioso -
mi occupo dei prigionieri ungheresi nella Prima
guerra. In Francia c'erano 200 campi. A migliaia
furono rinchiusi nell'isola dell'Atlantico, davanti a
Nantes chiamata Noir Moutier, un monastero medievale
trasformato in carcere. Ma neppure qui ho trovato
documenti sui deportati dalla Sardegna». Probabilmente
finirono nei campi, arruolati a forza nella Legione
straniera oppure inviati a combattere sui fronti
lontani dai loro paesi d'origine. Le notizie si
fermano al porto di Tolone. Sembra che questa massa
di prigionieri sia praticamente svanita.
Da Il Giornale di Vicenza
del 6 settembre 2008
La montagna restituisce sette
soldati
Arsiero. Eccezionale
ritrovamento al Soglio Melegnon sullaltopiano
di Tonezza nellambito del progetto finanziato
dallAmministrazione provinciale . LA MONTAGNA
RESTITUISCE SETTE SOLDATI. Probabilmente uccisi
durante loffensiva della Strafexpedition, i
corpi finirono in una fossa naturale Da
lontano sembra quasi una capanna, magicamente
spuntata al limitare del bosco davanti ad alcune
mucche che, ignare di tutto, pascolano nella vicina
radura. Sotto il telo di nylon che ricopre lo scavo,
invece, mani esperte lavorano con certosina pazienza
per portare alla luce i poveri resti. Sono di sette
corpi, in totale, le ossa sepolte nellumida
terra: un ritrovamento multiplo definito eccezionale
dagli addetti ai lavori. Sette soldati italiani,
caduti durante la Strafexpedition e finiti nella
lista dei dispersi, ai quali si cercherà ora di dare
un nome. QUOTA MILLE. Il rinvenimento -
avvenuto ad oltre mille metri di quota nei pressi del
Soglio Melegnon, a qualche chilometro da Tonezza ma
nel territorio comunale di Arsiero - rientra nel
progetto di recupero delle salme della Grande Guerra
finanziato dalla Provincia di Vicenza:
uniniziativa che unisce discipline diverse allo
scopo di identificare i caduti di quel tremendo
conflitto, come è positivamente avvenuto con il
soldato trovato sulla Costa dAgra lo scorso
anno con la collaborazione di Onorcaduti.
Loperazione, scaglionata in più fasi durate
diversi giorni, è stata autorizzata dalla Procura
vicentina e condotta sotto la supervisione
dellUnità di medicina necroscopica e anatomia
patologica forense dellUlss 6. Lintera
area di scavo è stata sottoposta dallanatomo-patologo
Andrea Galassi al laser-scanner - strumento
utilizzato anche nelle scene del crimine - che
permetterà in seguito di ricostruire perfettamente
il sito, ad esempio in un museo. È stata poi
suddivisa in quadranti ed ognuno fotografato, per una
successiva ricostruzione grafica dinsieme a
computer. Lantropologo Daniel Gaudio del
Laboratorio di antropologia forense di Milano (Labanof)
ha seguito il recupero assieme ad Andrea Betto, Alice
Rosa e Matteo Serena, il team di archeologi
dellUniversità di Padova (dipartimento di
archeologia, facoltà di lettere e filosofia),
allievi del prof. Armando De Guio, incaricati di
estrarre dal suolo gli scheletri. LO SCAVO.
«È un lavoro lungo e complesso, reso ancor più
difficile da caratteristiche del terreno, vicinanza
dei corpi e fragilità delle ossa», spiega Betto,
intento a "spazzolare" da un cranio la
terra umida. Nel mentre salta fuori una grossa
scheggia di granata: probabilmente il soldato è
deceduto per quella ferita alla testa. «Operiamo con
metodo scientifico, per non fare danni - aggiunge
Gaudio - e nello stesso tempo non perdiamo di vista
le finalità etiche delliniziativa: dare un
nome a questi soldati e ricostruire le circostanze
della loro morte». Ad osservare le operazioni anche
il sindaco di Arsiero Tiziano Busato e Roberto
Mantiero e Giacomo Tessarolo, dellAssociazione
4 Novembre di Schio, che ha collaborato
alliniziativa e che ne pubblicherà i risultati
sulla rivista "Forte Rivon". Ma sono in
programma anche conferenze e mostre, col contributo
del Museo delle forze armate di Montecchio Maggiore.
«È il minimo - dice Siro Offelli, responsabile del
soccorso alpino arsierese che ha guidato la
spedizione-: un ritrovamento di questa portata non
era mai avvenuto in anni recenti».
Da STAMPA di Torino
del 29/10/08
Articolo di Sapegno Pierangelo e
Perotti Antonella
CHIERI (TORINO) Questo e' Johann Payr,
che aveva 23 anni. Aveva solo una croce di pietra
nell'aiuola, dentro al cimitero di CHIERI. Non aveva
nient'altro. Neanche un fiore. Nemmeno un passato.
Poi Chiara e Roberta lo hanno adottato assieme ai
loro compagni della terza C: hanno scritto al
consolato austriaco, l'hanno cercato su internet, e
hanno trovato il suo paese, hanno rintracciato i
nipoti, hanno chiesto una sua foto. E hanno
riscoperto la sua vita. Johann Payr aveva un podere a
Netters, in Austria, ed era un prigioniero di guerra
mandato a lavorare i campi a CHIERI, dove l'aveva
ucciso la «spagnola» il giorno di Natale del 1918.
La spagnola era un'influenza, che fece piu' morti
della Grande guerra. Johann era uno che stava bene,
era un ricco, anche se ha due baffetti mosci e una
faccia triste che viene senza vento da quegli anni
lontani, da un secolo fa. Come lui erano morti in 25
a CHIERI, PRIGIONIERI di guerra AUSTRIACI: e a tutti
loro, uno per uno, la terza C della scuola media
Quarini ha ridato un nome, una memoria e qualcosa
della vita che avevano perso. Adesso quell'angolo di
cimitero ha persino riacquistato un po' di luce: le
foto sulle croci, la ghiaia e i fiori. Erwin Schmidl,
direttore del Dipartimento di Storia contemporanea
dell'Accademia della Difesa di Vienna, ha scritto una
lunga lettera ai ragazzi per ringraziarli di quello
che stavano facendo: «... proprio nei tempi dell'Europa
unita la vostra iniziativa mi sembra
straordinariamente importante e degna di lode». La
delegazione Domenica e lunedi' verra' una delegazione
austriaca a CHIERI e scenderanno i familiari per
rendere per la prima volta omaggio ai loro morti
dimenticati, tutti in parata, con il sindaco di
CHIERI, Agostino Gay, e i rappresentanti della Croce
Nera di Vienna. Miracoli della pace. O delle scuole.
Perche' fa un certo effetto adesso vedere questi
bambini dagli occhi grandi che fanno gli storici e i
giornalisti con i loro 13 anni appena: il sito su
internet, l'inchiesta e la ricerca costruite assieme,
gli appunti e i faldoni accumulati, scrivendo in
Austria e sfogliando gli archivi come dei piccoli
investigatori. Roberto De Stefanis, l'insegnante che
li ha guidati in questo lavoro, spiega che «all'inizio
la molla era stata solo quella di ritrovare le
famiglie per ridare dignita' a queste persone sepolte.
Il resto e' venuto dopo, la ricerca sul periodo
storico, la scoperta di una realta' sconosciuta, la
passione per il lavoro su internet». L'idea era
venuta per caso, davanti a quelle aiuole misere, a
quelle croci di pietra, senza volti, senza fiori,
senza niente. Erano 25, tutti AUSTRIACI. Ma perche'
erano li'? I ragazzi hanno cominciato a cercare la
risposta negli archivi, chiedendo aiuto a Silvio
Selvatici, dell'Opera Nazionale per i Caduti senza
croce». «L'Arco», il giornale di CHIERI del 1918,
raccontava che «non c'era piu' gente nei campi e che
la citta' aveva bisogno di 300 persone per lavorare
la terra». I giovani erano tutti al fronte. Chiesero
aiuto a Roma. Li accontentarono in parte: mandarono
40 PRIGIONIERI di guerra. Il costo, rivela ancora il
quotidiano locale, «era di una lira e 80 centesimi
al giorno per ogni bracciante». Li sistemarono al
convento di Sant'Andrea delle suore cistercensi. Di
quei 40, ne morirono 25, questi che sono qua. Un
mondo sconosciuto La prima cosa che fecero gli
studenti della terza C fu quella di scrivere al
Consolato e all'Ambasciata, per avere indirizzi,
paesi, numeri di telefono. Da li' partirono per
ottenere foto, contatti, biografie. Ma la cosa che
piu' li colpiva, andando avanti nel lavoro, era la
scoperta di un mondo sconosciuto e di una realta' che
credevano inesistente: «un paragone impossibile con
la nostra vita», come dice Dario Ormea, con i suoi
13 anni belli, che assieme a Simone Arduino era
addetto alle foto. Poco per volta, i ragazzi hanno
ridato una memoria a quei nomi senza passato. Hanno
contattato le loro famiglie, hanno ricostruito le
loro esistenze, dal piu' giovane, Johann Griesbaner,
che aveva appena 18 anni, al piu' anziano, Andreas
Lux, che ne aveva 44. Qualcuno di loro era ungherese,
come Johann Cepo', 36 anni, che veniva da un paesino
con un nome impronunciabile, Felsoschihloy, ma la
maggioranza austriaca. Morirono per gli stenti,
uccisi dalla tubercolosi e dalla spagnola. La lezione
Johann Payr e' un po' il simbolo di quel mondo
dolente, figlio maggiore di Andre' Payr, proprietario
di un podere a Natters, e di Walpurga Payr. C'erano
due fratelli in prigione con lui. Lo seppellirono
loro. Sua sorella oggi ha 4 nipoti che verranno a
trovarlo, assieme a quelli di Johann Schushter, che
invece era un poveraccio con 8 fratelli che fece la
guerra per disperazione e si fermo' qui l'8 ottobre
del 1918, a 43 anni, stroncato dalla miseria. Chissa'
se c'e' una lezione in tutto questo. «Il valore
della pace», come dice il professore, Roberto De
Stefanis. «I ragazzi hanno imparato a conoscerlo».
Forse e' cosi'. Una di loro, Sabrina, dice la stessa
cosa. Solo che lo dice con le parole di una che ha
tutta la vita davanti: «Ci ha aiutato ad avere
rispetto degli altri. Perche' non sono solo una croce
di pietra».
Da L'Altopiano del
16 ottobre 2010
di Beppa Rigoni Scit
Archivio Mario Sacca'
Una croce in legno essenziale
disadorna uguale a quelle dei vecchi cimiteri di
guerra (i tre del Mosciagh ad esempio) è stata da
poco piantata, a fianco della voragine dello Sprunk,
in memoria dei 12 soldati della brigata Catanzaro
fucilati sul posto e pare gettati nella voragine,
anzi nella foiba, per cancellare le tracce del
misfatto. E proprio di questi giorni la sua
benedizione da parte di Don Floriano Abrahamowicz,
prete lefebvriano viennese, per quel senso di
universalità della morte e del dolore, che non han
trincee né confini. Don Floriano aveva visitato i
luoghi in cui sono caduti anche i suoi conterranei,
già nel 2002, dove aveva accompagnato anche il
Principe austriaco Xent Sch?nburg. La croce porta un
cartello con i nomi dei 12 soldati fucilati e
scaraventati nellorrido, in quanto ritenuti
disertori: lì giacciono, a meno 87 mt., humus della
terra per la quale sono stati immolati. Le ricerche
storiche e il sopralluogo allo Sprunk, effettuati dal
Dr. Mario Saccà, catanzarese, hanno
dimostrato lesatto contrario, malgrado le molte
ambiguità contenute nella redazione
dellinchiesta parlamentare su Caporetto. Questo
semmai è uno dei tanti casi registrati di
incapacità e indegnità della classe dirigente
militare, come ampiamente documentato nei processi
subito successivi il 1918. Dal giornale
LAvanti del 1919, la lettera di un
ufficiale: Caro Avanti, la campagna
da te intrapresa contro i fucilatori è sacrosanta e
tutti gli onesti, qualunque sia il partito di
appartenenza, devono approvarla. Chi potrà mai
descrivere lorrore delle decimazioni ordinate
da comandanti di Corpi dArmata e di Divisioni?
Malnutriti, malarmati, esausti, senza cambi in
prima linea, pieni di pidocchi e malattie,
terrorizzati dallo strapotere nemico, ciononostante
sempre avanti allo stremo delle forze. Lunghe le
notti del 26 e 27 maggio 1916 sul Moschiagh e sullo
Sprunk, fra una bufera di fuoco e un diluvio di
grandine e dacqua
ordini, contrordini,
visibilità zero, fragore a mille, sbandamento:
In
un tratto della prima linea si determinò il panico e
gruppi di soldati fuggitivi si abbatterono sulle
linee retrostanti, mentre alcuni graduati gridavano:
Ritiratevi, scappate, sennò vi fanno
prigionieri. Alcuni cariaggi
dartiglieria, i cui cavalli si erano
imbizzarriti per luragano, piombarono tra le
tende dietro la prima linea: tutti questi fattori
determinarono lo sbandamento di centinaia di soldati
che si sparpagliarono nei boschi intorno. Molti
furono raccolti, riuniti e ricondotti in linea, altri
si persero e solo il mattino dopo, tornarono al
reparto. Qualcosa non era funzionato nel comando e
gli ufficiali catturati dal nemico in quella
battaglia, presentarono precisa relazione in merito
alla Commissione dinchiesta
.
In quel caso, non spettò al tribunale di guerra
decidere, ma alla giustizia sommaria,
perpetrata per il timore dellesonero dal
comando, visto landamento della
Strafexpedition, da Cadorna stesso. In 12
vennero sorteggiati e passati per le armi: il S. Ten.
Giovanni Romanelli; i Serg.: Celeste Tabaion, Angelo
Losso, Ferdinando Catalano; i Caporali: Giuseppe
Fruci, Angelo Andreoni, Giuseppe Serio e i Soldati:
Gennaro Del Giorno, Antonio Rega, Felice Bruno,
Giuseppe Cerruta, Bruno Lacopo. (Analogo destino, fu
inferto il 16 luglio 1917, ad altri fanti, sul Carso,
a S. Maria La Longa). Il colmo è che quegli stessi
soldati contribuirono allassegnazione della
medaglia doro concessa dal Re Vittorio Emanuele
III, al loro Reggimento (il 141°) per il valore
dimostrato al Mosciagh! Negli anni successivi perfino
le famiglie dei fucilati, nei loro paesi, subirono
per anni ritorsioni e terra bruciata. Stessa sorte
toccata in modo ufficiale in tutta la penisola, a
preti, suore, insegnanti, pubblici ufficiali, parenti
e affini di disertori o presunti tali. Non era
bastata la loro perdita? O in cambio del non aver mai
raccontato la verità, metterci una pezza, con la
concessione di una simbolica pensione? Già nel 1933,
grazie alle testimonianze e alle pressioni della
stampa dellepoca, ci fu un primo gesto di
riconoscimento del torto inflitto da parte di Re
Vittorio Emanuele III, che volle presenziare a
Catanzaro, allinaugurazione di un monumento
alla memoria, gesto dimostrativo di presa di distanza
dal regime. Presenti in quel giorno denso di dolore e
di rinato orgoglio, alcuni dei protagonisti del 26 e
27 maggio sul Mosciagh. E questo, fu solo il primo
passo per cancellare laffronto (chiamiamolo
pure col suo nome: omicidio) inflitto a quei 12
poveri soldati. Un segno di riabilitazione della
memoria di innocenti, un duro giudizio delle ipocrite
omissioni di coloro che sapevano e tacquero, pagati
per un colpevole silenzio.
Da Bresciaoggi.it
del 29/09/2012
Ghiacciaio:
due i soldati austriaci trovati
IN PRESENA. I loro resti erano vicini gli uni agli
altri: forse gettati in un crepaccio dopo essere
stati uccisi nel 1918. Gli operai degli impianti e la
Sovrintendenza hanno trovato i femori e le scatole
craniche
Erano due i soldati della Prima guerra mondiale
addormentati sotto i ghiacci del Presena e scoperti
per caso da Giuseppe Cristino, uno degli addetti agli
impianti di risalita della società Carosello,
impegnato in questi giorni con i colleghi nelle
operazioni di svestizione del ghiacciaio dai teli
geotessili. Erano due «kaiserjaeger» austriaci:
questo si evincerebbe dai brandelli di divisa trovati
insieme ai poveri resti. Ieri i funzionari della
Sovrintendenza dei Beni ambientali del Trentino hanno
raggiunto il Presena in elicottero e, assistiti dai
carabinieri di Vermiglio, hanno recuperato quel che
restava dei due soldati che hanno perso la vita a 3.000
metri di quota, probabilmente durante la battaglia
più importante del 1918, svoltasi tra il 25 ed il 28
maggio, come ipotizzato dal presidente del Museo
della Guerra bianca in Adamello, Walter Belotti. Due
scatole craniche, quattro femori, piccole ossa e
brandelli di divise: questo il materiale che sarebbe
stato recuperato ieri dalla Sovrintendenza. I resti
dei due kaiserjaeger sono stati portati nella
cappella mortuaria del cimitero di Vermiglio e
verranno trasferiti a Vicenza dove saranno sottoposti
ad alcuni esami. È probabile che verranno portati al
cimitero di guerra di Ossana per avere una nuova,
diversa sepoltura. «Il Presena è stato per 100 anni
la tomba di questi soldati, che li ha saputi
conservare al meglio, purtroppo però lo scioglimento
del ghiacciaio li ha fatti affiorare. Questo è il
posto dove sono morti e dove mi piacerebbe che
potessero riposare per sempre ma non è possibile, la
natura deve fare il suo corso», ha commentato Walter
Belotti, citando il combattente Gian Maria Bonaldi:
«... i morti è meglio che non vedano quel che son
capaci di fare i vivi e la strada storta che sta
prendendo il mondo, è meglio che non si accorgano
nemmeno che noi siamo diventati così poveri e tanto
miseri che non siamo capaci di volerci bene. No, è
meglio che i morti stiano nella neve e nel ghiaccio e
che non sappiano di noi, altrimenti potrebbero
pensare di essere morti invano e allora si
sentirebbero ancora più soli» Sembra che le
ossa dei due soldati fossero mischiate, l'ipotesi è
che siano stati gettati insieme da morti in un
crepaccio e che poi siano scivolati più a valle, nel
punto in cui sono stati trovati e cioè nella parte
sinistra del Presena, sotto il fuoripista Sgualdrina,
in seguito allo spostamento subito dal ghiacciaio nel
corso degli anni. «Questa è l'ipotesi più
verosimile - spiega Belotti- durante la Guerra bianca
infatti succedeva che i corpi dei morti venissero
gettati nei crepacci se non vi era la possibilità di
portarli a valle e dare loro una degna sepoltura».
Il clima ha subito in questi 100 anni un'evoluzione
incredibile e questi ghiacciai, dove allora il nemico
numero uno era il freddo, ora combattono contro lo
scioglimento. Al punto che è plausibile immaginare
che tra 40 o 50 anni il ghiacciaio del Pian di Neve
non ci sarà più e che vedremo riaffiorare altri
reperti e probabilmente altri resti di soldati,
soprattutto nella zona del Mandrone e della Lobbia.
«Nel Museo di Temù sono conservati numerosi reperti
bellici e non abbiamo più necessità di recuperi ma
ovviamente se i ghiacci restituiranno altri segni del
passato proseguiremo nel nostro compito che consiste
nel recuperarli e valorizzarli al meglio». VA.ZA.
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